Cuori in gabbia – II

Scena dal film “L’isola dell’ingiustizia” di Marc Rocco

 

(continua) Quella notte dormì nella baracca. Poi trovò un posto riparato in un giardino pubblico, una baracchetta porta attrezzi usata sporadicamente dai giardinieri e per la maggior parte del tempo abbandonata. Di giorno evitava di farsi notare da poliziotti e carabinieri, se ne stava rintanato, e di sera usciva a rubare cibo, giochi, insomma quel che gli serviva a trascorrere le giornate nella baracchetta. Dopo le commissioni personali, andava a raggiungere la banda, che gli permetteva di racimolare qualche soldo. Adesso, per lo meno, nessuno glieli poteva fregare.

A ripensarci ora, quello fu un periodo di felicità, per Bruno. Certo, era difficile: mangiare, gli toccava di mangiare scatolette o roba cruda, o al massimo andava al fast food, che all’inizio gli piaceva un sacco, ma poi cominciò a venirgli a noia, come le pizze. A volte sognava persino la minestrina di dado che mamma gli propinava quando proprio non aveva voglia di cucinare. Una bella minestrina calda, con la pastina piccola e una buona spolverata di formaggio grattugiato sopra. Oppure bramava la pasta al forno, con il sugo di pomodoro al basilico e la besciamella, gratinata e croccante in cima.

E poi gli mancava il bagno, potersi fare un bagno tutto intero, una bella doccia calda, invece di lavarsi a pezzi nei cessi della stazione della metropolitana e di un qualche bar in cui entrava a prendersi un gelato. I suoi vestiti, poi, puzzavano che era uno schifo e lavarli a mano in una fontana, di sera, non garantiva risultati decenti. Ma nonostante tutto ciò era felice, si sentiva libero, e soprattutto si era liberato da quella bestia del patrigno.

Ancora adesso, quando ripensava a quell’uomo, un rigurgito di rabbia gli saliva allo stomaco. Quello stronzo che non faceva altro che menarlo. Lo picchiava e insultava suo padre: “Quel drogato di merda! E tu sei uguale a lui! Tanto dalla gramigna può nascere solo gramigna! Se fossi stato io tuo padre allora sì che saresti venuto su diritto, ma con quel pezzo di merda di genitore che ti ritrovi, non hai speranza!” Quello urlava e sua madre piangeva strillando come una pazza. Si poteva solo scappare, da quel posto, anche se si era solo un ragazzino di undici anni con un sacco di paure.

E qualcosa di quel bambino era rimasto. La paura, ad esempio. La paura, che lo faceva stare sempre all’erta, attento ad ogni più piccolo movimento alle sue spalle. La paura di dire a chi non si doveva o di dire troppo. La paura delle guardie, che a volte erano proprio lunatiche e gli partiva il manganello che non si riusciva neanche di capire perché, mentre urlavano “Tu lo sai che hai fatto! Parla! Parla!”. E hai voglia a chiedergli “Ma che ho fatto?”. Le risposte erano sempre quelle: delle manganellate.

Poi magari saltava fuori che un infame aveva fatto il tuo nome per parare il culo a qualcuno che poteva farlo a lui. Ti montavano addosso una bicicletta, insomma, e allora era difficile riuscire a smontarla.

All’inizio, quando era ancora un novellino, queste cose gli capitavano spesso. Gliene erano capitate… Ma adesso sapeva stare in guardia e aveva come un sesto senso. Aveva imparato a leggere gli sguardi obliqui, i gesti seminascosti dietro alla schiena, le tattiche, i posizionamenti strategici. Insomma, adesso era difficile fargliela dietro le spalle.

Dopo tutti questi anni, poi, aveva conquistato anche una certa incolumità, che sempre accompagnava l’anzianità. Difficile che potessero combinargli qualcosa, a meno che lui non ne combinasse una grossa. E questo era proprio improbabile.

Ormai si era ritagliato i suoi angolini, i suoi spazi privati in cui non veniva disturbato. Lui non pestava i piedi agli altri, e non si lasciava pestare i piedi. Questa la sua unica regola, da cui non derogava mai. Ce ne aveva messo di tempo, però, per capire come cavarsela in quell’universo racchiuso in una noce.

Uno pensa che in galera le cose in un certo senso si semplifichino. In fondo è un mondo minuscolo, in cui c’è poco da fare: ti alzi, ti lavi, mangi, ti fai le tue ore d’aria, qualche lavoretto, dormi. Le questioni vitali si riducono all’essenziale. Non hai il problema di andare a lavorare, entrare nelle simpatie del capo, chiedere gli aumenti, mantenere la famiglia, litigare con tua moglie, coi figli, col traffico, con i soldi che non ti fanno arrivare a fine mese… Non hai problemi, in apparenza.

E invece la cosa strana è che le faccende che fuori, nella vita degli altri, non avrebbero più peso di una caccola, in prigione diventano essenziali. Il peso specifico degli avvenimenti quotidiani aumenta fino a trasformare anche il semplice farsi un caffè in un caso internazionale. Era persino finito nella cella liscia, per un caffè.

Era successo poco dopo che era entrato. Stava in un cellone, di quelli da otto ma occupati da almeno dodici persone tutte insieme, tutti in venticinque metri quadri, cesso compreso. Quattro, la sera, dovevano srotolarsi dei materassi a terra, per dormire, e neanche a chiederselo uno di quelli era lui, il nuovo.

Lo spazio era poco già per gli otto titolari, e i quattro in più erano veramente di troppo, sempre in mezzo ai piedi, anche per ’sto fatto che non avevano neanche un letto in cui rintanarsi durante il giorno. Perché almeno gli altri si potevano accovacciare sulle cuccette a castello, e lì non rompevano a nessuno e se ne stavano in pace, ma gli altri, se anche uno doveva solo andare al cesso doveva fare le gimcane. E a volte l’aria era così tesa che volavano sberle a tradimento. Lo stesso se a uno veniva voglia di farsi il caffè, e doveva farsi largo per caricare la moka, metterla sul fornello, appoggiare le tazzine… Roba da circo Togni. In quelle condizioni il caffè rende nervosi ancora prima di prenderlo.

E così successe che Bruno, che se ne stava accoccolato in un angolo su uno sgabello, si sentì dare una scoppola potente sulla testa. Troppo forte, secondo i suoi personali criteri, per significare solo “Per favore ti sposti”. Gli salì in gola un rigurgito di rabbia, di quelli che il patrigno era così bravo a provocare, e reagì d’istinto, con una gomitata allo scroto del tizio che stava passando di lì per andare a fare il caffè. Quello prima si piegò in avanti, col fiato rotto, poi si alzò di scatto mollandogli un pugno in piena faccia che lo aveva fatto sbattere contro il muro. Nel frattempo gli altri avevano cominciato a urlargli di tutto, e poi a gridare all’altro di smetterla, e poi si erano messi in mezzo per dividerli, perché Bruno, ripresosi dalla botta, si era lanciato a testa bassa contro il tizio.

Insomma, ne era nato un bel casino, e Bruno non sapeva bene quando comparve il primo manganello. Certo è che pochi minuti dopo lui e l’altro tizio erano stati trascinati fuori dal cellone e portati alle celle lisce, chiamate così perché prive di qualunque suppellettile, a parte una turca ficcata in un angolo.

Prima di buttarti dentro ti spogliavano e ti rivestivano di bastonate, così se consideravi il colore dei lividi, non sembravi proprio nudo. Lì dentro perdevi la cognizione del tempo, era freddo e potevi stare solo sdraiato per terra. E poi non ti davano da mangiare, da bere, niente. Insomma, dopo un po’ a Bruno parve di diventare matto e cominciò a gridare che voleva uscire, che stava male, che doveva andare in infermeria perché stava proprio male, poi sentì i passi, il rimbombo spietato che risaliva il corridoio a ritmo serrato, come un tamburo di guerra. All’inizio Bruno aveva pensato “Meno male…” poi aveva cambiato idea e il cuore aveva cominciato a battergli in petto come se volesse schizzare fuori. Dalla cella accanto una voce bassa sentenziò: “Sei proprio uno scemo…”. Era il tizio con cui aveva litigato. Quella frase che in altre occasioni gli sarebbe apparsa così insulsa, gli pesò più di una sentenza all’ergastolo. Con l’occhio appoggiato al pertugio della porta vide comparire sul fondo del corridoio quattro guardie, tutte col manganello in mano: “non volevo… scusate… non fa niente…” cominciò a sussurrare, e continuò la sua inutile litania anche mentre si spostava terrorizzato verso la parete in fondo alla cella e si lasciava scivolare a terra. E continuò anche quando quelli spalancarono la porta e si precipitarono dentro con uno slancio degno dello sbarco in Normandia, e continuò anche quando cominciarono a colpirlo, in silenzio, senza dire una sola parola. Si sentivano solo i colpi sordi delle manganellate, e i suoi sussurri dementi, che sotto i colpi a volte diventavano dei gridolini isterici. Pensò che l’avrebbero ammazzato, pensò che non avrebbero smesso mai di picchiarlo, e invece, dopo un’infinità di tempo e di colpi, improvvisamente smisero. E Bruno rimase lì, tutto arricciolato su se stesso, completamente rincoglionito dai colpi, mugolando “non volevo… scusate… non fa niente… non lo faccio più… non lo faccio più.”

Non lo fece più, infatti, quando gli ricapitò di finire in quella cella. Imparò a starsene zitto e buono, a leccarsi le ferite senza scocciare le guardie, aspettando l’occasione giusta per dire la sua, cioè quando qualcuno glielo avrebbe chiesto. Il che comunque capitava quasi mai.

Beh, detta così pare quasi che Bruno fosse uno che imparava alla svelta, che gli bastava una sola lezione per capire. Ma così non era, in realtà. Magari non rifaceva proprio esattamente l’errore della volta prima, ma qualche cazzata la combinava lo stesso. E la cella liscia lo ebbe come ospite più e più volte.

A volte capitò che proprio non poteva evitare di finirci, perché per quanto uno impari ad incassare, ci sono cose che… Insomma, ci sono cose che non si può fare finta di niente.

Ma rimuginarci sopra non serve a niente e così pian piano Bruno aveva imparato a dimenticare, a non far caso, a diventare trasparente. Cosa che si era fatta sempre più semplice con l’andar del tempo, col fatto che oramai era una presenza abituale, di quelle che dopo un po’ non si notano più.

Aveva imparato a starsene per i fatti propri e a non fidarsi di nessuno. Lui la mattina si alzava, si lavava, si preparava il caffé. Da qualche anno, come premio per la buona condotta, aveva avuto la possibilità si starsene in una cella singola. A dire il vero era a due posti, ma le guardie gli mettevano sempre dei compagni che stavano poco, poi venivano trasferiti oppure se ne uscivano. Quelli del primo tipo erano di solito quelli in attesa di giudizio, con processo per direttissima e un bel po’ di curriculum alle spalle. Quelli arrivavano all’improvviso, spesso neri di botte perché li avevano beccati sul fatto, avevano il processo in un paio di giorni, poi aspettavano la destinazione e venivano trasferiti. Quelli del secondo tipo invece arrivavano da altri carceri, spesso erano novellini che gli mettevano lì perché le guardie sapevano che lui non gli avrebbe dato fastidio… purché loro non gli rompessero le scatole!, naturalmente.

Un paio di volte gli avevano messo in cella dei figli di papà, di quelli che l’avevano combinata troppo grossa e che però bisognava evitargli il peggio, perché al più presto sarebbero usciti, grazie ai quattrini di famiglia.

Fatto sta che la sua cella era una specie di porto di mare, ma erano più le volte che stava solo che quelle che stava con qualcuno. Questo ricambio continuo era pure divertente, perché questi arrivavano e gli raccontavano delle novità della vita di fuori di lì. Era un po’ come andare al cinema, un sacco di assurdità, di colpi di scena, ma niente pareva vero.

Per quanto riguarda gli altri carcerati a lungo termine, invece, lui teneva rapporti formali, superficiali. Ce n’erano alcuni che erano brave persone, e tutto sommato non gli dispiaceva rispondere ai loro saluti, magari scambiare due chiacchiere, ma proprio due, eh? e sempre su questioni minime.

Altri invece erano vere e proprie bestie, meglio evitarli del tutto. Tipacci che dovevano marcare il territorio e che erano sempre lì a far vedere i muscoli e a trovare continuamente nuovi modi per sottomettere, umiliare, dominare gli altri. Capitava che si accoltellassero tra loro, ma più spesso organizzavano azioni punitive per la vittima di turno. Meglio evitarli e non farsi notare del tutto. (continua)

 

di Maddalena Gregori

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