Cuori in gabbia – III

Scena del film “American History X” di Tony Kaye

 

(Continua) Capitava che si accoltellassero tra loro, ma più spesso organizzavano azioni punitive per la vittima di turno. Meglio evitarli e non farsi notare del tutto.

Perciò Bruno se ne stava nella sua cella, a volte guardava la tivù, uno scatolino in bianco e nero racchiuso in una scatola di filo metallico, in cui le immagini sembravano nuvole di latte suddivise in riquadri, come se fosse un puzzle. La scatola di metallo serviva a evitare che i prigionieri se lo tirassero in testa in caso di risse, o che lo rompessero in caso di accessi di rabbia. E così guardarla era una penitenza. Per questo, pian piano, si era avvicinato alla lettura. All’inizio leggeva i giornali sportivi, ma poi gli vennero a noia, perché da dentro il carcere tutta quella allegra tensione che gli capitava di provare quando la sua squadra giocava, o quando c’era un bel derby, si era lentamente dissolta. Erano solo parole, non c’era più nulla di reale a sostenere quell’emozione. Per cosa emozionarsi? Per undici tizi che correvano dietro a un pallone su Marte, o su un’altra galassia? Perché era così che il mondo di fuori gli appariva: lontano come Marte, o come un’altra galassia.

Perciò dai giornali sportivi era passato ai settimanali, poi alle riviste di vario genere. Ma anche quelli dopo un po’ gli apparivano assurdi. E così era arrivato ai libri.

Beh, oddio, non che ci fosse proprio arrivato da solo.

Il primo libro che aveva letto glielo aveva lasciato un compagno di cella, quando ancora condivideva i dodici metri quadri della cella, in un altro settore, con altri tre detenuti. Luigi, quello era il tipo del libro, leggeva sempre. Se ne stava sdraiato sulla sua cuccetta per ore, passando da un libro all’altro, e capitava persino che letto un libro, ricominciasse a leggerlo subito dopo. Non parlava molto, Luigi, a parte le formule di cortesia necessarie a una convivenza forzata. E se ne stava sempre con il naso sui libri.

Poi un giorno se ne era andato, aveva finito di scontare la sua pena e se ne era andato, lasciando, sulla sua cuccetta, un libro. Prima di uscire dalla cella si era girato verso Bruno e gli aveva detto: “Questo è per te”.

A quel tempo Bruno aveva venticinque anni e usciva da un periodo molto brutto, lì in prigione. Anche lui se ne stava sempre sulla cuccetta senza parlare con nessuno, ma lui non usava neanche formule di cortesia coi compagni di cella, al massimo mugugnava. Passava il tempo sdraiato a guardare il soffitto, o a sonnecchiare, o a guardare Luigi. Guardava Luigi perché era l’unico che non se lo filava neanche di striscio, e per tale motivo lo aveva classificato come non interessato e quindi non pericoloso.

Bruno era arrivato in quella prigione da circa un paio di anni, con un’accusa di rapina a mano armata, violenza privata e omicidio doloso, oltre che con un curriculum di tutto rispetto fatto di furti, scippi e furti con scasso. Era entrato in galera con l’atteggiamento tronfio del galletto, convinto di essere un uomo di mondo, che con l’eco delle sue prodezze avrebbe fatto scattare tutti sull’attenti per la meraviglia. E invece quelle stronze di guardie gli diedero un benvenuto che lo lasciò sbilenco e traballante per un paio di mesi. Poi dovette imparare la convivenza nel cellone d’ingresso, così sovraffollato da portare alla follia. E, come naturale conseguenza, era finito in cella liscia alcune volte.

L’ultima volta che era successo, invece di riportarlo nella solita cella le guardie lo condussero in una nuova sezione. L’avevano pestato a dovere e lui faceva fatica a reggersi in piedi e sognava solo di potersi sdraiare sul suo materasso. Invece, così conciato com’era, lo misero in cella con due dei peggiori figuri di tutto il settore, due bestie che come prima cosa cominciarono a discutere su chi avrebbe avuto, tra loro due, il diritto di usare Bruno come moglie. Era una cella da quattro, e quando i due si misero d’accordo per dei turni, il terzo abitante della cella si prodigò ad aiutare gli altri due a tenerlo fermo.

Bruno non pensava volentieri a quel periodo, e quando gli capitava cercava subito di scacciare il ricordo. Ma non era facile, e talvolta quegli stronzi ricordi ricomparivano di notte, nei sogni. E lì non riusciva a cancellarli, scacciarli, cambiarli. Era come esserci di nuovo in mezzo.

A suo tempo Bruno aveva cercato di denunciare la cosa alle guardie, ma quelle gli rispondevano che non era al grand hotel, che si credeva? Allora provò col direttore, chiese un colloquio che gli fu concesso solo dopo quasi un anno di quell’inferno. Quando alla fine ottenne udienza, si trovò davanti al direttore, in un ufficetto squallido quasi quanto le celle in cui erano costretti a vivere loro, con le pareti scrostate dall’umidità, e i colori tristi, e le luci al neon, e le sbarre alla finestra.

“Che c’è?” gli aveva chiesto il direttore con malagrazia, senza neanche alzare gli occhi dalle carte che stava leggendo.

Alle spalle di Bruno c’era la guardia che lo aveva accompagnato e che gestiva l’ala in cui si trovava lui. Bruno era sulle spine: denunciare la faccenda significava implicitamente accusare la guardia di essere connivente, e proprio davanti alla guardia stessa. La guardia, cioè, da cui dipendeva ogni cosa ogni giorno della sua vita.

“Allora vuoi parlare?” aveva tuonato il direttore alzando, stavolta, gli occhi da quei fogli.

Bruno era in piedi, così dimagrito, in quei mesi, che dentro i suoi vestiti ci ballava, e se ne stava ritto in mezzo alla stanza. Si sentiva uno spaventapasseri, un pupazzo vuoto.

“Vorrei cambiare cella…” riuscì finalmente a mormorare con la voce che gli tremava.

“E perché? Che c’è che non va in quella in cui stai?” chiese stentoreo il direttore tornando alle sue carte.

Bruno sentiva lo sguardo della guardia trafiggergli al nuca: “Vorrei solo cambiare cella…” sussurrò.

“Se non mi spieghi il perché non andiamo da nessuna parte!” ribadì con tono irato il direttore “Cosa c’è? La vuoi esposta a levante? O la vuoi con la vasca da bagno? Oppure vuoi il terrazzo per prendere il sole?”

La guardia dietro a Bruno si mise a ridacchiare. Bruno si sentiva le budella tutte intorcinate. Fissava il direttore che se ne stava lì a guardarlo negli occhi con un mezzo sorriso sulle labbra.

“La voglio… la voglio singola” riuscì finalmente a dire Bruno con un singulto. Sentiva le lacrime scorrergli sul viso, sperava che la guardia non potesse vederle, sperava che il direttore non lo tradisse.

“Che commovente…” mormorò il direttore con tono sarcastico “Immagino che i tuoi compagni di cella non ti piacciano… giusto?”

“Sì” sussurrò Bruno chinando il capo. Le lacrime continuavano a scorrere e si stupì nel vedere la camicia scurita dalle gocce che vi erano cascate in più punti. Nel chinare il capo vide anche che alcune lacrime erano cascate a terra, vicino alle scarpe. Pensò che la guardia se ne sarebbe accorta e lanciò uno sguardo di sguincio verso destra.

A quel punto accadde il miracolo e il direttore, con voce calma, disse, rivolto alla guardia: “Lei esca pure…”

“Ma signor direttore…” protestò quello.

“…ho detto esca!” e poi, con tono più calmo, rivolto a Bruno “E tu siediti!”

Bruno attese che la guardia uscisse, spostò appena la sedia che si trovava davanti alla scrivania e sedette, asciugandosi le lacrime con la manica della camicia.

“So cosa può succedere ai nuovi arrivati” cominciò a dire il direttore “e so che talvolta le guardie approfittano di questa situazione per rieducare i detenuti più scalmanati. Non lo approvo, ma succede.” Con gesto teatrale sollevò i fogli che teneva in mano “Qui c’è la tua cartella, e devo dire che non ne viene fuori un bel ritratto…” inforcò gli occhiali e cominciò a leggere con enfasi “Scappato di casa a undici anni, arrestato dopo quattro mesi per vagabondaggio e furto con destrezza…”

“Era per mangiare…” s’intromise sussurrando Bruno.

“Scappato di nuovo di casa, riacchiappato dopo altri tre mesi sempre per vagabondaggio, atti osceni in luogo pubblico…”

“Stavo facendo pipì… non sapevo che quello era il giardino…”

“Mi lasci finire?” lo interruppe innervosito il direttore “Tutte le tue giustificazioni, provate o non provate, sono scritte qui, non c’è bisogno che tu mi interrompi… allora dove eravamo… ah, sì. A tredici anni finisci in una casa famiglia da dove scappi e torni un paio di volte, poi i servizi sociali rifiutano di seguire il tuo caso perché sei un esempio negativo per gli altri ragazzini della comunità, un paio scappano con te. Torni a casa, ci resti due giorni… due giorni!!!! Proprio non volevi farti aiutare, vero?”

A Bruno tornarono subito in mente quei due giorni. Il patrigno l’aveva chiuso in camera a chiave, dopo averlo menato a sangue, e neanche sua madre si era impietosita. Lo avevano lasciato lì, senza cibo né acqua per due giorni, pesto che non riusciva a muoversi, con un pitale per pisciare e cagare. E così, non appena avevano aperto la porta per svuotare il pitale, lui si era lanciato addosso all’ombra che si era affacciata sulla porta con tutte le sue forze e si era precipitato verso la porta d’ingresso. Quella non era chiusa a chiave, grazie al cielo, così era riuscito a scappare. Era sera e fuori, in strada, nessuno fece caso a un ragazzo dalla faccia pesta, che correva tutto rannicchiato nella propria maglietta di cotone piena di macchie scure.

“Catturato dopo alcune settimane in seguito a uno scippo” continuava la voce del direttore “Riformatorio per sei mesi, dove ti fai notare per comportamento ribelle”.

Già, il riformatorio. A quel tempo gli era sembrato un inferno, con quelle guardie che ti prendevano a ceffoni per niente, e gli altri ragazzi che bisognava continuamente fare a rissa per farti rispettare. Ma non era niente, in confronto alla galera.

“A diciassette anni la prima rapina… per lo meno la prima di cui siamo a conoscenza, vero? Di nuovo riformatorio. Esci a diciotto anni e per un po’ te la cavi… sei intelligente e hai imparato a non farti beccare. Ma ci ricaschi e tre anni fa finisci dentro per l’ennesimo furto: un anno e otto mesi… in un carcere di quelli tranquilli… Ma adesso…” il direttore lo stava guardando negli occhi, fisso, tutto proteso in avanti sulla scrivania “Questo è un carcere di sicurezza, non una di quelle pensioncine di provincia. E qui ci sei finito per omicidio. Ricordati che hai ammazzato un uomo, l’hai fatta grossa!”

Bruno sentì le lacrime che ricominciavano a scorrergli senza controllo sulle guance. Avrebbe voluto trattenerle ma non riusciva. Avrebbe voluto sputare sulla faccia di quello stronzo del direttore, ma sapeva che avrebbe solo peggiorato le cose. Avrebbe voluto almeno riuscire a mantenere un po’ di dignità, riuscire a stare lì a sguardo fermo e asciutto a fissare il direttore sul muso, dicendogli cogli occhi quel che pensava di lui e della sua predica. Perché aveva capito quel che gli stava dicendo con quello sguardo: “Credi di essere al grad hotel?

Quello che gli facevano in quella cella, ogni giorno, quello che lo costringevano a fare, erano solo affari suoi, nessuno sarebbe intervenuto ad aiutarlo.

Poi il direttore afferrò una scatola di fazzolettini di carta che aveva sulla scrivania e glieli porse, e a Bruno venne da pensare chissà quanti prigionieri capitavano lì, seduti su quella sedia, a piangere per qualcosa. Chissà quanti arrivavano lì a parlare della stessa cosa di cui stava parlando lui: “So cosa può succedere ai nuovi arrivati. Non lo approvo, ma succede”.

Bruno afferrò una manciata di fazzoletti e si soffiò il naso rumorosamente asciugandosi la faccia. Ora le lacrime avevano smesso di scendere. Si sentiva asciutto: freddo e asciutto come una pietra. (continua)

 

di Maddalena Gregori

2 Risposte a “Cuori in gabbia – III”

  1. C’è sempre (o quasi) un Luigi, nella vita, che ti dà delle coordinate. Tutto, però, dipende sempre da noi a saperle ac(cogliere).
    Sono in paziente frenesia. Non vedo l’ora di sapere come va a finire …o cominciare. 🙂

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