Cuori in gabbia – IV

Scena dal film “Con Air” di Simon West

 

(continua) Ora le lacrime avevano smesso di scendere. Si sentiva asciutto: freddo e asciutto come una pietra.

Se ne stava lì, a fissare il direttore, che ora era tutto intento a reinfilare quei fogli dentro una cartelletta di cartone consunto col suo nome scritto sopra a pennarello.

“Io non posso andare apertamente contro alle guardie, è una questione politica” diceva il direttore senza guardarlo negli occhi “Devo lavorare con quelle persone, no?” Aveva concluso guardandolo nuovamente negli occhi. E poi, con un sorriso, aveva aggiunto: “Comunque sono pur sempre il direttore. Tu comportati bene, e vedrai che qualcosa si fa.” Ciò detto gli fece segno di alzarsi e schiacciò un pulsante. Immediatamente entrò la guardia, che era rimasta fuori ad aspettare, e riportò Bruno in cella. Percorsero i corridoi in silenzio, Bruno a capo chino di fianco alla guardia, o appena dietro, teso come una corda di violino, pronto a venire spinto in un cantone e preso a manganellate. Invece non accadde nulla e, giunti alla porta della cella, la guardia lo spinse dentro, dandogli delle pacche leggere sulla spalla.

Di lì a pochi giorni uno dei suoi due aguzzini venne spostato in un’altra cella e l’altro, forse perché non doveva più dimostrare di essere il più forte, divenne meno prepotente. Certo, passarono altri mesi prima che Bruno venisse lasciato finalmente in pace, ma per lo meno l’inferno era diventato un purgatorio.

Dopo altri mesi, venne trasferito nella cella dove stava Luigi.

Luigi, che leggeva di continuo, Luigi che riceveva libri da fuori, che li prendeva in prestito dalla biblioteca della prigione, che arrivava ad ordinarli, alla biblioteca. In quei mesi di convivenza forzata, tra loro due erano corse sì e no venti parole. “Grazie, prego, no fai pure prima tu…” Niente di più.

Poi arrivò la notizia della scarcerazione di Luigi, per decorrenza dei termini di reclusione. Insomma, aveva scontato la pena, e ora tornava in libertà, dopo otto anni dentro. Quel giorno i compagni di cella prepararono una pasta speciale e certe frittelle unte e bisunte, che sulla piastra elettrica l’olio non riusciva mai a scaldarsi abbastanza per fare un fritto come dio comanda. Comunque sia, fecero festa e persino Bruno scese dalla sua cuccetta e si unì agli altri, arrivando persino a fare un sorriso o due. Finito di mangiare Bruno era tornato alla sua cuccetta, a sorseggiarsi in pace il suo caffè e Luigi gli si avvicinò: “Questo te lo voglio lasciare” gli disse mostrandogli un libretto con la copertina tutta arrotolata e consumata agli angoli.

“Papillon” lesse con fatica ad alta voce Bruno.

“Si dice papiiion, è francese. Vuol dire farfalla” gli spiegò con tono paziente Luigi.

“E allora perché non ci hanno scritto farfalla?” chiese Bruno.

“Perché è una la storia di un tizio francese che aveva questo soprannome. Ti piacerà.”

“Ma io non leggo molto” cercò di schermirsi Bruno.

“Che altro hai da fare?” gli chiese ironico Luigi “E poi vedrai che col tempo ci prendi l’abitudine e diventa facile”.

“Vabbe’” concluse Bruno per tagliare corto, distogliendo lo sguardo dal libo e riprendendo a sorseggiare il suo caffè con concentrazione.

Luigi raccolse il messaggio e se ne tornò alla sua cuccetta. La conversazione era finita.

Alcuni giorni dopo Luigi se ne andò. “Questo è per te” gli disse posando sul materasso arrotolato il libro dalla copertina consunta. Poi si voltò e gli fece un cenno di saluto con la mano senza girarsi a vedere se gli rispondeva. Bruno scese dalla cuccetta e prese in mano il libro con delicatezza, fece scorrere le pagine con aria sospettosa, e poi lo gettò con noncuranza sulla propria cuccetta. Quella sera stessa cominciò a leggerlo.

All’inizio era una tortura. Non aveva mai letto bene, e così si trovava a compitare le parole più lunghe o quelle che non conosceva e a fine frase doveva ricominciare dall’inizio perché non si ricordava più quello che volevano dire le parole. Leggeva e rileggeva la stessa riga, la stessa frase finché non gli era chiaro il significato, e spesso capitava che venisse sgridato dai compagni di cella perché compitava ad alta voce. Ma pian piano leggere gli divenne più facile. In più, quella storia era straordinaria. Un uomo imprigionato, trattato come una bestia, picchiato, torturato, sbattuto nella prigione peggiore del mondo, e sempre lì a cercare di evadere. E che alla fine ce la faceva!! Alla fine del libro era così entusiasta che riprese a leggerlo dall’inizio. Chiese anche in prestito un dizionario per poter trovare il significato di certe parole che proprio non aveva mai sentito.

Finito di nuovo Papillon le sue giornate gli apparvero vuote. Non poteva rileggerlo all’infinito, così per la prima volta in vita sua andò in una biblioteca, quella del carcere, a cercare un libro da leggere. Si sentiva strano, quel giorno, un misto di ilarità e di affanno. Gli veniva da ridere, al pensiero di quanto poco gli piacessero la scuola e i libri in genere, e ora era qui, a cercare un libro. E poi si sentiva in ansia, si aspettava di trovarsi davanti chissà che, ad andare in biblioteca, chissà che libri difficili e incomprensibili. In parte fu deluso, nel trovare quelle due stanzette dalle pareti coperte di scaffali di metallo su cui stavano libri per lo più vecchi e ammuffiti, ma d’altro canto fu felice di vedere tutti quei libri, tutte quelle storie lì pronte a farlo fuggire per un po’ dallo schifo della prigione. Il locale era un seminterrato umido e freddo, illuminato da luci al neon e con quattro finestrini asfittici nella parte alta delle pareti, ma per lui fu come trovarsi in una stanza piena di enormi finestre, da cui entravano luce e aria e colori.

Un’intera parete era dedicata a testi giuridici. Aveva imparato da un pezzo che tutti i carcerati, prima o poi, si avvicinavano ai codici giuridici, convinti di essere mal assistiti dai loro avvocati d’ufficio e di poter fare mille volte meglio di quegli sbarbatelli figli di papà che se ne infischiavano che un povero disgraziato finiva in galera.

In prigione erano tutti innocenti, non tanto in senso lato quanto nello specifico. Se uno veniva accusato di rapina, era solo furto con scasso; se era accusato di furto con scasso, era solo un semplice furto. Insomma, a tutti pareva che venisse loro attribuita una colpa di molto superiore a quella effettiva, e quindi a loro parere erano innocenti, accusati ingiustamente.

Bruno non ci pensava neanche a difendersi o a dichiararsi innocente: lui quel poveraccio l’aveva davvero ucciso. Era andato a fare una rapina in una tabaccheria di un quartiere periferico, ma di quelle grosse, dove girava sempre un sacco di gente: sigarette, schedine, francobolli, valori bollati… Un sacco di grana. Il tabaccaio era un vecchietto, affiancato talvolta dalla moglie o dal figlio. Quel giorno, invece, c’era un uomo, un marocchino… cioè un extracomunitario, come si dice adesso. Doveva essere il suo primo giorno di lavoro e chissà, forse per far colpo sul capo, aveva reagito. Loro erano entrati con la faccia coperta dai caschi, pistole spianate, e avevano chiesto di aprire la cassa. Il proprietario aveva fatto sì sì con la testa e, con le mani alzate, era andato verso la cassa per aprirla. L’altro era rimasto dov’era con le mani in alto e, quando gli era sembrato che loro fossero distratti dall’apertura della cassa, si era lanciato su Bruno scavalcando il bancone e afferrandogli la mano che stringeva la pistola. Bruno aveva reagito tirando a sé la mano e nel fare il gesto era partito un colpo. Il marocchino aveva fatto un mugugno strano, e poi un sssssssss, come una ruota che si sgonfia, cascandogli addosso a peso morto. Bruno aveva cercato di divincolarsi, ma il marocchino era pesante. Aveva sentito il suo complice gridare “Via, via, via!!!!”; da dietro la visiera del casco Bruno lo aveva visto infilare la porta mollandolo lì, mentre il vecchietto gli stava davanti con una pistola puntata.

Bruno aveva lasciato la pistola e aveva alzato le mani restando lì sdraiato, sotto il peso del marocchino, che non si muoveva più. Quando poi arrivò la polizia e lo liberarono del peso del cadavere, si accorse che quello, nel morire, gli aveva pisciato addosso. I suoi pantaloni erano zuppi e l’odore lo accompagnò per giorni interi, finché non gli permisero di cambiarsi.

Ancora adesso, in sogno, gli capitava di sentire il peso di quel corpo senza vita che lo opprimeva togliendogli il respiro e l’odore soffocante di urina.

Ricordava che i giornali avevano definito un eroe quel poveraccio che era venuto a morire in un Paese non suo per difendere una cassa… una cassa. Un cretino, altro che eroe!

Comunque sia, Bruno non poteva certo dichiararsi innocente, e nemmeno vittima di un’accusa ingiusta. Al processo, visti i suoi precedenti, era stato condannato senza alcuno sconto di pena e ora gli toccava di passare in galera un bel po’ della sua vita. Non era felice di questo, non si sentiva punito giustamente, ma poteva farci ben poco per cambiare le cose. E quel poco erano i libri, la possibilità di evadere con la fantasia, attraverso le storie che qualcuno aveva scritto chissà dove chissà quando e che, miracolosamente, risuonavano nel suo cuore come se fossero state scritte per lui, proprio per lui.

Così, la prima volta che andò in biblioteca, andò dal tizio che se ne occupava e chiese un libro da leggere.

“Qui sono tutti libri da leggere” rispose quello.

“Volevo dire uno bello, che sia bello da leggere” rispose Bruno sentendosi preso in giro.

“Beh, quello dipende dai gusti. Che genere ti piace?” chiese quello.

“Che vuol dire ‘che genere’? Una storia che sia bella da leggere…”

“Genere significa tipo. Ad esempio, ti piacciono romanzi di avventura o d’amore, oppure vuoi leggere delle biografie, o dei saggi…” il tono paziente sembrava un po’ troppo saccente a Bruno.

“Le stronzate non mi piacciono, e neanche le seghe mentali!” dichiarò Bruno con tono secco, mentre si girava per andarsene.

“Aspetta! Calma… facciamo così. Che libro hai letto che ti è piaciuto?” fece quello conciliante.

Papillon, che però si dice papiiion, vuol dire farf…”

“Ah, sì. Bello! Un romanzo d’avventura, però anche una storia vera…” fece quello.

Quel “bello!” aprì il cuore di Bruno a cui parve di aver incontrato un fratello d’anima: “L’hai letto anche tu?” fece con gli occhi che gli brillavano.

“Certo!” rispose quello con una risata “E chi non l’ha letto? Qui dentro, poi…!”

“I miei compagni di cella, per esempio” rispose Bruno tornato serio.

“Ah, se mi parli di quelli che non leggono proprio, ti do ragione. Ma per chi ama leggere… Papillon è un classico!” fece il bibliotecario girandosi verso uno scaffale.

Bruno arrossì. L’essere stato annoverato, senza merito peraltro, nel novero di quelli che amano leggere lo aveva colpito nella vanità. Così quando il tizio, che si chiamava Alessandro e che col tempo sarebbe diventato una delle poche persone con cui si fermava a parlare, tornò verso di lui con un libro, si limitò ad annuire con aria competente.

“Ecco qua” fece Alessandro con tono allegro “Un altro classico: Fuga da Alcatraz. Ci hanno fatto anche un film. Anche da Papillon, naturalmente. Comunque restiamo sul genere ‘di evasione’… Va bene? Poi magari passerai ad altro”.

“Certo, certo. Va bene.” fece pronto Bruno girandosi tra le mani quel libretto dalla copertina piacevolmente consunta. Voleva dire che un sacco di gente l’aveva letto e quindi doveva essere bello. Più in là negli anni quello avrebbe smesso di essere il suo criterio di valutazione della qualità di un libro, ma per il momento andava bene così.

Chiese anche se poteva avere un dizionario e gli venne presentato un tomo che sarà stato otto volte quello che gli aveva prestato il suo compagno di cella. Comunque era vietato portarlo via, si poteva solo consultare, così Bruno cominciò a segnarsi le parole difficili e che non trovava sul dizionarietto tascabile su un foglio di carta, e ogni due o tre giorni andava in biblioteca a consultare il dizionario. Col tempo ne comprò uno suo, personale, e gli costò un botto. Ma ci teneva ad avere il suo dizionario, personale, sempre a disposizione. (continua)

 

di Maddalena Gregori

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