Cuori in gabbia – V

Scena dal film “Fuga da Alcatraz” di Don Siegel

 

(continua) Col tempo ne comprò uno suo, personale, e gli costò un botto. Ma ci teneva ad avere il suo dizionario, personale, sempre a disposizione.

Col tempo lesse tutti i libri di ‘evasione’ che Alessandro gli propose e poi passò ai romanzi di avventura e d’appendice: Verne, Salgari, Dumas, Hugo, Dickens. Si stupì nello scoprire che tanti di quei libri erano per ragazzi, e ripensò a come il ragazzo che lui era stato non aveva avuto l’occasione di gioire di quelle letture. Chissà, si trovò a pensare, chissà se la sua vita sarebbe stata diversa se lui avesse letto un po’ di quelle avventure da piccolo. Forse non si sarebbe ficcato in tutti quei pasticci.

Alcuni anni dopo Alessandro gli disse che avrebbe dovuto fare un inventario e una risistemazione dei libri presenti in biblioteca. Un sacco di libri erano andati persi, distrutti, mai resi, e la prigione era in attesa di alcune donazioni.

Alessandro aveva bisogno di aiuto, per fare quel lavoro, e aveva chiesto e ottenuto dal direttore di potersi far aiutare da un altro detenuto. E Bruno, con tutta quella passione per la lettura, gli pareva quello giusto.

Era andata così che Bruno era diventato aiuto-bibliotecario. Finita la sistemazione dei libri, Alessandro aveva chiesto il permesso di tenere la biblioteca aperta più tempo e così lui e Bruno si erano divisi i turni settimanali. Da aiuto a co-direttore.

Oltre a permettergli di stare a contatto quotidiano con i suoi amati libri, questa cosa gli diede la possibilità di ottenere qualche piccola entrata in denaro, essenziale, visto che lui non aveva una famiglia, fuori di lì, che gli mandasse pacchi, vestiti, cibo o altro. Sua madre non l’aveva più vista, dal giorno della condanna per omicidio. Non era mai venuta a trovarlo. Poche settimane dopo il suo arrivo in carcere gli aveva scritto una lettera in cui diceva che non poteva perdonargli quello che aveva fatto, che ci aveva provato, per tanti anni, ma che lui non era il figlio che avrebbe voluto. Lui si era scelto quella vita disgraziata, e lei non voleva più sentirsi responsabile per quello. Ma forse era destino, visto quel drogato disgraziato che era stato suo padre…

Bruno ci aveva letto le parole del patrigno, in quella lettera. Per un po’ l’aveva tenuta, l’aveva anche riletta, un paio di volte, ma ogni volta gli faceva venire il magone, e una sera, dopo aver dovuto subire l’ennesimo stupro, mentre se ne stava rannicchiato in bagno a piangere cercando il modo per farsi fuori, aveva tirato fuori quella lettera e l’aveva usata per darsi fuoco. Aveva sottratto un accendino usa e getta a un compagno di cella: gli accendini erano vietati, ma alcuni detenuti riuscivano a procurarseli. Aveva poi attorcigliato la lettera e dato fuoco a un’estremità reggendola come una torcia, poi aveva rotto l’accendino e si era versato il gas sul petto, sul fondo dei pantaloni… Che stronzata. Pensava che i vestiti avrebbero preso fuoco rapidamente, immaginava che sarebbe diventato rapidamente una torcia umana. E invece prese fuoco quel poco di vestiti e le fiamme scottavano, sì, ma solo le gambe, il petto, il mento. Fu preso dal panico e cominciò a sbattere le mani contro il petto e le gambe, cercando di spegnere le fiamme, lanciando grida soffocate. Pochi istanti dopo la porta del bagno si spalancò e i suoi compagni di cella lo tirarono fuori, lo coprirono con una coperta e cominciarono a sbattere con le mani sulle parti che andavano a fuoco. “Guardia! Guardia!” gridava intanto uno di loro aggrappato alle sbarre della porta col viso rivolto al corridoio “Guardia! Presto venite!”

“Che coglione!” fu il commento esasperato di uno dei suoi compagni di cella quando gli tolsero la coperta di dosso e videro che le fiamme si erano spente.

Se la cavò con ustioni gravi su una caviglia, sulla parte alta del petto e sulle mani. Le cicatrici, soprattutto quelle sulla parte alta del petto, erano lì ogni giorno a ricordargli quel ridicolo tentativo di suicidio e forse, chissà, anche quella lettera e il magone che gli procurava.

Della lettera, una volta tornato dall’infermeria, non ebbe più notizia. Forse era bruciata del tutto, o forse semplicemente l’avevano buttata via nel ripulire il bagno. Di certo, il suo gesto disperato non mosse a pietà i suoi compagni di cella, e già il giorno del rientro, nonostante le fasciature che gli ricoprivano mani e petto, venne costretto a subire le attenzioni sgradite di uno dei suoi due ‘padroni’. “Sei proprio un coglione. Attira l’attenzione su questa cella un’altra volta e ti dò fuoco io stesso!” gli grugnì minaccioso quello non appena ebbe finito.

Mai come in quel periodo si era sentito solo al mondo.

Fuori di galera era arrivato persino a considerare la sua solitudine come una espressione estrema di libertà, una vera e propria fortuna. Fuori di galera andava dove gli pareva, faceva quel che gli pareva e non aveva nessuno a rompergli le palle con prediche o urla. Sua madre, quella povera stronza, non faceva altro che fare la vittima, non perdeva occasione per accusarlo di averle rovinato la vita. E quindi tanto meglio, no?, se lui fosse sparito dalla sua vita. Il patrigno, manco a parlarne, quel saccente pieno di boria che credeva di avere la verità in tasca e la distribuiva a suon di pugni. Quanto a suo padre, quel drogato di merda, non ci teneva proprio ad averci a che fare. Gli erano bastati quei pochi anni di convivenza con lui e di cui aveva, grazie al cielo, pochi e sfocati ricordi.

Niente sorelle e niente fratelli – evidentemente sua madre si era fatta furba. Di altri parenti nessuna notizia. Se ne ricordava giusto qualcuno incontrato raramente in età infantile e poi, con la separazione del padre e della madre e con la fuga della madre in un’altra regione, i legami si erano praticamente azzerati. Non avrebbe neanche saputo come entrare in contatto con zii, cugini e nonni. Solo al mondo. Libero!!!!

Questi i suoi pensieri quando aveva vent’anni e campava dei soldi facili che riusciva a raccogliere con furti, scippi e rapinucce. Faceva il colpo e per un po’ sciambola, andava in giro a fare il gran signore. Spendeva e spandeva che era un piacere, per sé e per chi gli stava intorno. E aveva anche un sacco di ragazze che gli stavano dietro. Con una poi si era anche messo in testa che l’avrebbe sposata, ma quando fosse diventato grande, non adesso! Al momento preferiva essere libero e godersi i frutti delle sue fatiche. E quando i soldi finivano, organizzava un altro lavoretto.

Alcuni colpi niente male li aveva anche fatti. Uno, in particolare, era stato veramente bello grosso, anche perché non aveva dovuto spartire con nessuno. Era un pomeriggio d’estate, alla stazione. Aspettava dei compari per organizzare qualcosa, perché si trovava veramente in secca, ma quelli tardavano. Da un pezzo aveva notato un tizio che gironzolava lì intorno: era entrato in stazione con andatura lenta, non sembrava uno che doveva prendere il treno, troppo tranquillo. Aveva addosso una di quelle magliette a mezze maniche a righe orizzontali, col colletto abbottonato, pantaloni di tela chiara, scarpe da ginnastica, un borsello. Tutto azzimato e un po’ impettito, con certi occhiali da sole che facevano ridere. Era entrato, appunto, ed era andato al tabellone degli orari, lanciandogli un’occhiata di traverso. Poi gli era passato davanti con noncuranza per andare sulla pensilina, come se stesse aspettando qualcuno, ma due minuti dopo era di ritorno, sempre con quell’andatura lenta e dinoccolata, e gli aveva lanciato un’ennesima occhiata in tralice. Bruno aveva già capito il tipo e al secondo passaggio aveva deciso di fare il suo gioco, perciò si era alzato dalla panchina su cui stava seduto ed si era diretto verso il tizio. Quello si era fermato all’edicola, dandogli il fianco, e appena si era accorto che Bruno andava verso di lui, altra occhiatina di sopra gli occhiali e poi si era girato verso l’uscita e si era incamminato fuori. Bruno sempre dietro, a distanza di una ventina di metri, con quello che ogni tanto lanciava un’occhiatina per controllare che Bruno fosse sempre lì. Tre o quattro isolati dopo, il tizio si fermò davanti a un portone, tirò fuori le chiavi e aprì. Poi si girò a guardare Bruno, che nel frattempo si era fermato a venti metri di distanza, ad aspettare, appoggiato al muro. Quattro balzi veloci e Bruno era entrato nel portone prima che si richiudesse: il tizio era fermo a metà della prima rampa e, non appena aveva visto Bruno entrare, aveva ripreso a salire. Un paio di piani e il tizio entrò in un appartamento, e Bruno dietro. Appena dentro, Bruno aveva spinto la porta perché si chiudesse, aveva tirato fuori un coltello a serramanico e lo aveva puntato alla gola del tizio. Quello, che si era figurato tutto un altro tipo di incontro, aveva lanciato un gridolino soffocato, gli occhiali da sole a sghimbescio sulla faccia, gli occhi sbarrati, la bocca spalancata.

“Dammi tutto quello che hai” gli aveva ringhiato Bruno con la faccia più cattiva che riusciva a fare. Senza fare un fiato quello era andato in salotto, aveva aperto un cassetto e aveva tirato fuori una manciata di banconote da cinquanta. Bruno gli si era parato davanti, vicino vicino e, senza dire una parola, aveva roteato il coltello. Il tizio allora era corso verso la camera da letto dove aveva aperto una scatola sopra il comò; era un portagioie pieno d’oro: anelli, braccialetti, catene e catenine, ciondoli, orecchini. C’era più di mezzo chilo d’oro. Bruno aveva guardato fisso la sua vittima, che ora aveva gli occhi molli di lacrime e uno sguardo da agnellino al macello. “Sacchetto” si era limitato a mormorare, e quello, rapido come un ratto, era corso in cucina a prendere uno di quei sacchetti che ci metti la roba da mettere in freezer e poi era tornato in camera e lo aveva riempito con l’oro. Bruno afferrato il sacchetto, se lo era pigiato nella tasca del giacchino e poi, dando un buffetto sulla faccia del tipo aveva detto “Bravo!” ed era corso via. Aveva fatto i due piani volando e, una volta uscito per strada, era sfrecciato via che gli pareva di essere Superman.

Con quel colpo aveva fatto un gran bel gruzzolo e ci era andato avanti un bel pezzo.

Libero, senza nessuno a cui dare risposte o spiegazioni, senza nessuno con cui dividere i soldi.

Ma da quando era entrato in quella prigione, improvvisamente si era trovato a bramare una visita di sua madre, anche piagnucolosa e colpevolizzante. Avrebbe pagato per vedere sua madre col naso rosso, intenta a soffiarsi il naso e a compiangersi per il figlio disgraziato che le era capitato. Avrebbe pagato per sentire un suo abbraccio. E invece gli toccava subire ben altri abbracci, sgradevoli, disgustosi.

E quando finalmente era uscito da quella cella aveva imparato a evitare ogni contatto, affinché a nessuno venissero idee strane in mente; aveva imparato a diventare antipatico, sgradevole, o, meglio ancora, trasparente. Un isolamento in cui si sentiva al sicuro, ma anche solo come il più solo degli uomini. Solo come in mezzo al deserto, ma un deserto con una densità di popolazione di un abitante ogni tre metri quadri.

E fu in quel clima che i libri apparvero nella sua vita, a offrirgli conforto, vicinanza, amore. Sì, anche amore, perché dopo i primi libri da uomini, cominciò, su consiglio di Alessandro, a leggere anche alcuni libri d’amore, certi romanzi in cui i protagonisti si struggevano, si inseguivano per tutta una vita per ritrovarsi poi in punto di morte a dichiarare il proprio amore reciproco, a gridare al mondo il dolore per tutto l’amore che non avevano saputo dare quando avrebbero potuto, tutto l’amore che avevano sprecato. Cime tempestose l’aveva letto d’un fiato, e anche Jane Eyre… che libri! Che storie! A volte gli venivano le lacrime a leggere di quelle passioni travolgenti, strazianti. Lacrime che cercava di dissimulare, perché gli altri cosa avrebbero pensato? E così si era trovato sempre più spesso a leggere in biblioteca, dove non c’era mai nessuno, dove piangeva liberamente, soffiandosi il naso con un’energia persino eccessiva. E più piangeva, più sentiva il proprio cuore libero da quel peso che lo opprimeva fin da quando era entrato in quella prigione. Quelle lacrime parevano lavare via il dolore di anni di tristezza, di solitudine, di abbandono. Quelle lacrime erano quelle di un bambino che si era sentito sempre di troppo, sbagliato, colpevole, un bambino che aveva intrapreso una strada solo perché pareva quasi l’unica che gli fosse stata assegnata, perché era l’unica che gli veniva indicata da chiunque gli stesse attorno. (continua)

 

di Maddalena Gregori

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