Don’t worry!

“Che ci faccio io qui?”

Per un nano-secondo sorrido all’involontaria citazione letteraria, ma poi torna a galla la sottile ansia che da ore mi accompagna.

La corriera prosegue la sua corsa sul filo di rasoio del ciglio della strada sterrata, sospesa sul baratro di questa montagna disastrata. A volte pare quasi che le ruote non tocchino la carreggiata, che sorvolino il vuoto sostenute dalla velocità assurda che l’autista si ostina a mantenere e dalle altre due ruote, che invece poggiano saldamente sul lato della strada che affianca la montagna. Un salto improvviso, causato dall’incontro di una di quelle due ruote con un grosso masso, mi induce a rivedere il concetto di ‘saldamente’ poc’anzi espresso.

Mi aggrappo al tubo di ferro che incornicia lo schienale del sedile di fronte a me. La testa dell’occupante del sedile, sballottato come un dado in un bussolotto, sbattacchia contro le mie nocche.

La mia educazione da occidentale emerge improvvisa e ritraggo le mani (guai toccare uno sconosciuto!) e il tizio comincia a tirare capocciate al tubo di ferro. In più, io non so come tenermi. Per cui elaboro una rapida revisione del galateo europeo e mi riaggrappo al tubo, offrendo contemporaneamente un sostegno a me e un oggetto meno duro di un tubo di ferro contro cui sbattere la testa al passeggero del sedile anteriore.

Dev’essere un tratto di strada particolarmente sconnesso, perché lo sballottamento selvaggio va avanti per qualche minuto. Mi scappa l’occhio fuori dal finestrino, e l’impressione è quella di volare sospesi sul vuoto. L’immagine spaventosa dello strapiombo che si apre sotto di noi viene coperta da un’altra immagine, che invade la mia mente: prime pagine di giornali, testate italiane in cui si annuncia, in un trafiletto secondario, l’ennesimo incidente-strage in un paese del sud dell’India. “Precipitato da una montagna, l’autobus si è schiantato trasformandosi nell’ultima dimora dei numerosi passeggeri.” Unico motivo per la pubblicazione della notizia sul giornale, la presenza, tra i passeggeri, di un’italiana. Io.

Distolgo la mente dal miraggio fatale e rivolgo scaramantica lo sguardo all’interno dell’autobus. “Non pensarci, non pensarci, non…”

La gente in piedi è accalcata nello stretto corridoio posto tra le file di sedili, talmente stretta da non riuscire nemmeno a cascare. I loro volti non mostrano la minima preoccupazione, né l’infastidito disagio che sempre mi capita di osservare a Milano tra le persone accalcate in metropolitana nelle ore di punta. Un disagio che, nella grande metropoli, diventa dichiarato disappunto nei confronti di chi ci circonda, quasi fosse ‘colpa’ degli altri, se si sta stretti. E da un certo punto di vista è vero: se gli altri se ne stessero a casa o si muovessero a orari scaglionati consentirebbero di viaggiare più comodi. Questo è, a grandi linee, il pensiero che sta alla base delle reazioni della gente che usa la metropolitana nelle ore di punta. Gente che non si rende nemmeno conto di quanto spazio ha, in confronto alle persone stipate in questo autobus.

Questi poveretti sono in piedi da più di mezz’ora e ci sono alcune donne che sono chiaramente allo stremo delle forze. C’è persino un tizio che, in un momento di relativa calma, si è appisolato così com’era, appeso con entrambe le mani a una delle maniglie di sostegno del corridoio e con la testa racchiusa tra le due braccia.

Questi passeggeri che ingombrano il corridoio li abbiamo raccolti lungo la strada perché l’autobus su cui viaggiavano era rimasto coinvolto in un incidente e i passeggeri erano dovuti scendere aspettando per più di un’ora, sotto la sottile pioggerella montana, l’autobus successivo: il nostro. Che, naturalmente, era già pieno. Ma, miracolo indiano, ci sono entrati tutti, compresi i loro sacchi di riso, le loro ceste di verdure e certi frutti enormi, che qui chiamano jack fruits, grandi come angurie molto grandi e di cui se ne mangia circa un quinto, una polpa dolciastra dall’aroma di chewing gum e dall’odore fastidioso; il resto è tutto buccia e noccioli.

Uno scossone improvviso mi costringe a distogliere l’attenzione dalle meraviglie botaniche dei tropici per buttare uno sguardo disperato al di fuori del finestrino. Già prima di caricare questi nuovi compagni di viaggio ero carica di ansia e dubitavo che l’ansimante corriera fosse in grado di portarci a destinazione, vista la fatica che mostrava anche per la minima salita. Ora invece ne sono quasi certa, che non arriveremo a destinazione, anche se per motivi diversi dalla capacità del motore.

Cerco di distrarmi dal pensiero del baratro pronto a inghiottirci ad ogni istante cercando di immaginare la piccola città di montagna verso cui siamo diretti, profondamente segnata dalla colonizzazione inglese e sede, tra l’altro, di una comunità tibetana. Mi hanno parlato di questo posto come di una piccola isola di Inghilterra, a causa del clima umido-freddo che la caratterizza e per un vasto golf club che la sovrasta.

Mi incuriosisce l’idea di vedere vacche sacre vagolare lente e stordite tra la nebbia; o di riuscire a cogliere i segnali lasciati dai tentativi di civilizzazione che gli inglesi hanno certamente compiuto a spese della pacifica indole indiana e dei propri insofferenti sistemi nervosi. Già me li vedo quegli spocchiosi sprecare le loro energie nel tentativo di far fare ciò che volevano loro a un popolo che ha inventato la resistenza passiva. Già, perché solo venendo in India ho capito esattamente da dove proviene il nostro modo di dire “Fare l’indiano” per indicare qualcuno che fa finta di non sentire un ordine o una critica e che continua a fare di testa propria. Innanzitutto ho capito che l’indiano a cui il modo di dire si riferisce non è, come credevo, il nativo americano con tanto di copricapo in piume e penne, ma l’abitante del subcontinente asiatico. Quella di ignorare ordini e richieste, quando considerate inique o insulse, dev’essere un’attitudine ormai connaturata nei cittadini indiani, e non mi stupisce che proprio un indiano abbia elaborato il concetto di lotta passiva. Gandhi non ha inventato niente, si è limitato ad applicare su scala politico-internazionale un atteggiamento tipico che gli indiani avevano elaborato per far fronte alla vita e agli impicci contro cui, nel corso della stessa, può capitare di andare a sbattere.

Un’insolita pace mi distrae dalle mie elucubrazioni. Da qualche minuto la strada si è fatta meno accidentata e impercettibilmente più larga. Questo non significa che la carreggiata possa ospitare due veicoli transitanti in opposte direzioni nello stesso momento, ma solo che il rischio di scivolare nel precipizio si è fatto meno incombente. Per cui bisogna sempre continuare a pregare di non incrociare alcun mezzo di trasporto, motorizzato o no, a quattro o tre ruote. Quando questo accade, l’autista deve innescare la retromarcia, con infiniti e faticosi grattamenti della frizione, e indietreggiare fino a quando non trova uno slargo sufficiente (a malapena sufficiente!) a lasciar passare l’altro mezzo, che ha la precedenza in quanto avanza sul lato esterno della strada.

C’è da ringraziare il cielo che in India le auto private siano pochissime e quindi rare le occasioni di incrociare altri mezzi. O forse, se ci fossero più auto, le strade sarebbero più larghe.

Sono immersa in questa profonda costatazione (di come sia l’economia a determinare la struttura stradale di un paese, e non viceversa) quando la ragazza indiana che mi siede accanto mi batte delicatamente sul braccio. Devo dire che è dall’inizio del viaggio che mi sorride e ammicca ogni volta che mi capita di incrociarne lo sguardo, ma non le ho dato molta retta, finora, perché troppo presa dalle mie preoccupazioni. Ma ora la situazione è più tranquilla, perciò le dò spago.

“What’s your name? What’s your country?”

Le solite domande di rito.

Rispondo sollecita sorridendo e chiedendo a mia volta il nome (che, come al solito, non capisco e dimentico immediatamente) e da quale città provenga.

Si tratta di una ragazza di casta alta, perché mi spiega che è laureata e che lavora nel campo dell’informatica. Mi parla della cittadina verso cui ci stiamo dirigendo, spiegandomi fiera che è una cittadina importante e molto bella, con belle scuole e bei luoghi turistici. Mi consiglia anche alcune gite da fare nei dintorni.

Le chiedo della sua famiglia e, sempre più orgogliosa, mi parla della sorella sposata che vive nella grande città che sta in pianura, del padre che lavora per lo Stato come ingegnere civile, del fratellino, che va a scuola, nell’ottava classe.

A quel punto tocca a me raccontare della mia famiglia e arriva sempre in momento imbarazzante in cui, rivelata la mia età, mi viene chiesto se sono sposata e, scoperto che non lo sono, per quale motivo ciò sia accaduto. Difficile, qui, spiegare la scelta di non sposarsi da parte di una donna. Comunque sopravvivo anche a questo esame aiutata dal garbo tutto indiano che sa accettare anche le opinioni più stravaganti e lontane dalla tradizione.

D’altro canto questa è la terra dalle cento religioni, penso, dove induisti, cristiani, musulmani, buddisti, jainisti e appartenenti a sette più o meno recenti convivono da centinaia di anni.

Mentre porto avanti questa amabile chiacchierata, la mia attenzione viene attratta da una ragazza in piedi nel corridoio che sta aggrappata a fatica all’asta reggi persone. È molto bella, magra e minuta ma dal viso perfetto. Indossa una camicina, una gonna e una sorta di scialle leggero avvolto intorno al dorso. Tiene un fazzoletto in mano a coprire la bocca e il suo volto mostra un colorito terreo. La osservo attentamente, mentre socchiude gli occhi, mentre si preme con forza il fazzolettone bianco sulla bocca, mentre di sforza di rimettersi dritta ogni volta che le ginocchia le cedono. Ha l’aria di soffrire di mal d’auto.

L’autobus sussulta in modo crudele e forsennato e molto spesso mi è capitato di vedere gente che vomitava con la testa fuori dai finestrini. È normale, perché qui non sono molto abituati a viaggiare su mezzi meccanici. E d’altro canto l’idea di far fermare l’autobus perché qualcuno deve vomitare è assolutamente impensabile. Perciò, quando accade, il bigliettaio si prende la briga di far alzare un uomo seduto vicino a un finestrino adibendolo a vomitatoio per quanti stanno male di stomaco.

Ma in questo caso il bigliettaio può ben poco, incastrato com’è sul suo sedile senza potersi muovere di un millimetro, perciò mi rivolgo direttamente alla ragazza del corridoio e le chiedo se sta male e se vuole sedere al mio posto, visto che sto vicino al finestrino.

Ma la mia vicina di sedile mi batte leggermente il braccio con due dita e mi dice “Don’t worry!” facendomi l’occhiolino e dondolando mollemente il capo da un lato all’altro.

Penso di aver sbagliato qualcosa: quell’ammicco mi è parso così inopportuno, come se avesse voluto comunicarmi “Hai sbagliato, ma, siccome sei straniera, ti capiamo e per stavolta ti perdoniamo”.

Perciò desisto e riprendo l’amabile conversazione, che ora si è spostata sull’argomento abiti orientali e occidentali.

Ma la ragazza in piedi si fa sempre più pallida e vedo che sputa in continuazione dentro il fazzoletto, mentre una donna anziana in piedi dietro di lei la sostiene. La carnagione olivastra si è fatta grigia e la fronte appoggia contro il braccio appeso all’asta reggi-persone.

“Do you feel sick? Would you like to seat here?” le chiedo, distraendo la mia attenzione per un attimo dalla vicina di sedile. Ma la ragazza mi guarda e non risponde. Forse non capisce l’inglese. All’improvviso ricordo che sono soprattutto le contadine a vestire con gonna e camicetta, mentre le donne delle classi più alte indossano il saree o il punjabi suit. E il più delle volte le contadine non vanno a scuola, perciò è quasi certo che non capisca l’inglese.

La mia vicina di nuovo mi batte sul braccio con due dita e ammicca dondolando il capo e ripetendo un allegro “Don’t worry!”

Ma io mi preoccupo, invece, perché la giovane contadina pare allo stremo delle forze, e la vedo cedere, quasi sul punto di svenire.

“Do you feel sick? You can seat here, if you want” le dico, ma senza ottenere risposta se non uno sguardo pieno di vergogna. Allora mi rivolgo alla mia vicina chiedendole, per favore di tradurre alla ragazza il mio invito e lei, per tutta risposta, fa spallucce, mi fa l’occhiolino e ripete “Don’t worry!” dondolando di nuovo il capo.

“Please – insisto io – translate! Tell her she can seat here” ma l’altra non si gira neanche a guardare la ragazza e mi sorride complice, come a dire “Non ci badare, si sa come sono fatti i contadini. Pur di farsi compatire …!” e di nuovo mi fa l’occhiolino.

Quell’ammiccare che all’inizio mi aveva confusa e persino divertita, ora mi infastidisce, mi sembra morboso e indecente e, come se solo in quel momento mi si fosse accesa una lampadina nella mente, finalmente capisco: la mia vicina di sedile è di casta superiore, e non si abbassa nemmeno a parlare con quella ragazza che ha la sua stessa età ma che appartiene a una casta inferiore. Infatti, nonostante io abbia più volte cercato di attirare la sua attenzione sul dramma della giovane contadina, lei non si è mai nemmeno girata a guardarla, se non la prima volta. E, soprattutto, non le ha mai rivolto la parola, neanche quando le ho chiesto di tradurre per favore le mie parole nel dialetto locale.

Ma ciò che più mi turba è il suo atteggiamento, che pare negare ogni minima considerazione nei confronti della ragazza di casta inferiore, anche di fronte al malessere fisico, come se quella contadina non fosse nemmeno un essere umano, ignorandola come si può fare con un cane rognoso per strada. Quanto alla contadina, mi colpisce la quieta sopportazione che dimostra, trattenendo il malessere, sopportandolo fino all’estremo senza nulla chiedere a nessuno, come chi sa di non avere diritti.

Allora mi alzo di scatto, mi allungo e batto sul braccio della giovane contadina facendole segni inequivocabili, la faccio sedere accanto al finestrino e lei finalmente può liberare lo stomaco in subbuglio. Non senza aver prima controllato che la strada sia libera e che non ci siano persone lungo il ciglio.

Nonostante le misure contenute del sedile, ci stiamo tutte e tre, un po’ sovrapposte, ma per lo meno ora la giovane contadina può lasciarsi andare, riprendersi. La ragazza di casta alta, invece, ha con grazia accettato anche questa mia stranezza, e ora mi sorride, facendomi di nuovo l’occhiolino e riprendendo la conversazione.

Io rispondo cortese e ogni tanto mi rivolgo alla contadina chiedendole “Ok?” e lei mi fa un lieve cenno del capo che stento a capire. È palesemente intimidita dal fatto che io le parli, perciò non insisto e mi limito a essere lieta del fatto che il suo viso abbia ripreso colore.

Dopo una mezz’oretta l’autobus si ferma in un luogo di sosta per il consueto tea-time. Tutti i passeggeri scendono e chi si prende un rovente e sciropposo milk-tea, chi alcuni bocconi di jack-fruit. Per evitare il rischio di mal d’auto bevo solo del latte di cocco, tanto so che la nostra destinazione è a soli venti minuti di distanza. Mi limito perciò a sgranchirmi le gambe, ad accettare le cortesie e i brevi scambi con gli indiani che mi chiedono i soliti “What’s your name?” e “What’s your country?” annuendo felici alle mie risposte con lo stravagante dondolio laterale del capo.

Butto un occhio all’autobus verso il mio sedile e vedo che la giovane contadina è rimasta lì seduta, forse per presidiare il posto a sedere o forse perché non si regge in piedi. La vecchia donna che le stava alle spalle (probabilmente una parente) ora le sta passando alcuni frutti dal finestrino e la ragazza ne sta succhiando uno di malavoglia.

Dopo una decina di minuti il bigliettaio emette un lungo e sonoro fischio che invita tutti a risalire. Mi rimetto al mio posto sorridendo alla ragazza che ha ora un aspetto decisamente migliore. “Do you feel better? -chiedo- Ok?” ripeto battendo sullo stomaco per farmi capire almeno a gesti. Mi risponde l’ormai noto dondolio del capo.

Con uno scossone, seguito da un dondolio sconnesso dovuto al terreno accidentato, l’autobus riparte. Ha ripreso a piovere, anche se leggermente, e mi stupisco per l’atmosfera autunnale che qui regna, così diversa da quella afosa e stagnate della pianura lasciata solo tre ore e 150 chilometri fa.

Gruppi di mucche intristite dall’umidità costringono l’autobus a frenare, rallentare, aspettare pazientemente che si tolgano di mezzo, mentre scimmie seminascoste nella nebbia siedono in gruppetti incuriositi lungo un muretto che delimita la strada.

A un tratto un timido picchiettare sul braccio mi fa voltare verso la giovane contadina: lei mi sorride, dondola il capo e mi porge due di quei frutti che la donna anziana le aveva porto attraverso il finestrino. Li prendo e sorrido: “Thank you” dico senza aspettarmi risposte. Lei sorride e dondola il capo.

Dopo pochi minuti, arriviamo a destinazione. Mi carico lo zaino in spalla e mi dirigo alla ricerca di un albergo. Prima di scendere dall’autobus lancio uno sguardo alle mie due compagne di viaggio. La ragazza di casta alta mi saluta a voce alta “See you soon, and enjoy your vacation!” suggellando l’addio con un occhiolino e un ammicco. La giovane contadina mi osserva di sotto in su, con un sorriso timido, e dondola la testa.

Beh, penso io, almeno non siamo finiti giù per il burrone.

 

di Maddalena Gregori

 

 

4 Risposte a “Don’t worry!”

  1. Di questo racconto (IO C’ERO! si percepisce tutto) mi piace la grazia e la rispettosa leggerezza -a tratti ironica e divertente- con cui, attraverso un breve e pericoloso viaggio a bordo di un autobus sgangherato dell’India, riesci a porre il focus su una ben precisa tematica. Il fulcro della storia sono due giovani donne che mostrano l’atavica e rigida divisione di casta, con relativi atteggiamenti e discriminazioni. La tua sensibilità narrativa è riuscita a centralizzarla senza metterla al centro. Intendo dire senza enfasi, con la stessa misura con cui hai descritto i tuoi pensieri iniziali, il paesaggio, l’autobus, la sosta per il tea-time, gli altri personaggi…
    Delicatezza coerente fino in fondo, presente anche in quel “ALMENO” della frase finale, che ho inteso come sospensione del giudizio. Ti sei limitata a lanciare un seme nella coscienza del lettore e nella sua voglia di aprirsi e capire il mondo.

    Lo vedo bene come bellissimo cortometraggio.

    1. Sì, decisamente io c’ero. Fifa blu compresa.
      Devo dire che l’India è un ottimo soggetto per le foto come per i racconti. Un mondo stupefacente e sempre in grado di spostare la nostra percezione dell’esistenza.
      Insomma, dovrò trovare un regista (e un produttore) che si innamori dei miei racconti 😀

    1. Grazie Silvia per il complimento. Ma soprattutto ci tengo a sottolineare che è un episodio vero verissimo. Io c’ero! 😀

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