Il soldato (prima parte)

Foto di Gustav Wieillet

 

 

 

Io sono un grande soldato. Sono il migliore!

Nessuno può battermi e tutti i nemici hanno paura di me, perché io non ho paura di loro! Non ho paura di niente, io!

Se qualcuno viene con le armi, coi mitragliatori o col machete, io non ho paura, perché ho i miei compagni che mi aiutano. Noi lo circondiamo, lo fermiamo, gli togliamo le armi, e lo ammazziamo.

Ne ho uccisi tanti, di uomini, e anche di donne. Perché io non ho paura.

I miei compagni lo sanno che se devono ammazzare qualcuno basta che chiamano me. Mi dicono “Vieni qui, Ageb, che c’è uno da ammazzare” e io vado lì e lo ammazzo. Loro dicono “Tagliagli la testa” e io gliela taglio.

Quelli che devo ammazzare a volte piangono, ma più spesso stanno lì come imbambolati, con gli occhi grandi grandi, bianchi di spavento, e guardano fisso il machete che gli arriva sul collo. Mi ricordano le piccole gazzelle che cacciamo nella foresta per mangiare: le troviamo prigioniere nelle trappole a fossa che scaviamo, a volte sono lì da un paio di giorni, altre volte solo da poco. Lo capiamo dalla cacca che hanno fatto. Comunque, quando arriviamo noi sono così spaventate che riescono solo a farsi piccole piccole in un angolo della buca e ci guardano con gli occhi grandi e bianchi di spavento. E quando le uccidiamo, i loro occhi si fanno improvvisamente dolci, come se non stessero male, ma sempre più bene. Come se pensassero “Finalmente posso risposare”. Ucciderle è come fargli un regalo, come liberarle. Gli uomini che uccido, invece, non sono mai contenti.

Gli unici che sono come le gazzelle sono quelli che i miei compagni ‘si lavorano’ per farli parlare. Quelli che sanno dove si trovano i nemici, ma che non ce lo vogliono dire. Allora noi quelli lì li portiamo in una capanna del villaggio belli legati, poi per un giorno o due li senti solo gridare. Poi mi chiamano: “Vieni qui, Ageb, che c’è uno da ammazzare” e io faccio il mio lavoro. Stanno lì in ginocchio, a volte non riescono neanche a stare su dritti, stanno curvi. Bisogna tenerli su tenendoli sotto le ascelle. Sono sempre sporchi, pieni di croste e di sangue. Io gli taglio la testa e loro ‘Finalmente è finita’ sembrano pensare.

Invece ci sono gli altri, quelli a cui tagliamo le mani, o i piedi, o le gambe, o il naso, ecco, quelli lì invece gridano e sono io che mi stufo. A volte mi arrabbio così tanto che i miei compagni devono portarmi via ridendo, perché li ammazzerei tutti “Dai, smettila! – mi dicono ridendo e trascinandomi via – Altrimenti non restano più nemici. Lascialo urlare, no? Ne ha pur diritto! Gli hai tagliato il naso!” Ma a me dà proprio fastidio sentirli strillare in quel modo.

Poi ce ne sono alcuni che, invece, se ne stanno lì buoni buoni, con la faccia impaurita tenendosi stretto il braccio o la gamba o coprendosi la faccia. Ecco, quelli non mi danno fastidio. Li taglio, li guardo un po’, e posso continuare il mio lavoro.

Perché, non sembra, ma è faticoso, sapete? Quasi sempre arriviamo nei villaggi che è ancora notte. Così loro sono ancora lì che dormono e non si accorgono che arriviamo noi. Arriviamo presto, di sorpresa, e lì comincia il lavoro. Gli corriamo dietro, spariamo a quelli che scappano e gli altri li leghiamo uno accanto all’altro. Poi, quando è giorno, ci riposiamo, mangiamo, e infine puniamo i nemici catturati. Il più delle volte facciamo un gioco: prendiamo dei foglietti di carta e ci scriviamo sopra “guanto”, o “scarpa”, o “naso”, o “manica lunga”, o “cappello”. Poi si buttano i biglietti ben piegati in un cappello, mettiamo la gente in fila e peschiamo un biglietto per ogni persona e, a seconda di quello che esce, io taglio. Se esce “guanto” taglio una mano, se esce “manica lunga” un braccio e così via. Mi sembra giusto, un buon metodo. Così, mi hanno spiegato i miei compagni, non si fanno ingiustizie, succede a caso. Poi ci sono alcuni che cercano ancora di scappare e quelli lì, anche se è uscito solo “orecchio”, li ammazziamo. A volte, se riusciamo ad acchiapparli vivi, li faccio proprio a pezzi e gli dico “Ecco, vedi?, se te ne stavi buono ti tagliavo solo un orecchio e ora, invece, ti taglio questo piede. E poi ti taglio l’altro. E poi la mano, e poi il braccio …”  vado avanti a tagliare. Ma di solito, al terzo o quarto taglio non capiscono più niente e parlargli è inutile. Anche gridare, gridano strano: non strillano più a voce alta, ma respirano fondo, fanno un verso che sembra quello di una gazzella ferita. È un verso brutto, non mi piace, e così quando cominciano a fare così li faccio fuori alla svelta.

I miei compagni mi dicono sempre che sono il più bravo in queste cose, perché le faccio senza chiedere niente. Ridono sempre con me, sono miei amici, e mi vogliono bene. Quando mi capita di sentirmi un po’ giù allora mi danno da fumare e mi sento subito meglio. Mi sento come un giovane leone della savana, pronto a sbranare tutti i nemici, e magari solo mezz’ora prima mi veniva da piangere. Ma questo lo dico solo a voi, perché piangere davanti a loro non lo farei mai. Morirei di vergogna.

Però, anche se io non piango, loro riescono a capire che mi sento giù e allora vengono lì, mi stringono un po’ sulle spalle, mi scuotono ridendo e mi dicono “Forza Ageb! Non ti mancherà mica la mamma, vero? Ora ci pensiamo noi, abbiamo qua la medicina per te” e mi fanno fumare una sigaretta ‘speciale’, dicono loro. Ed è davvero speciale perché prima mi viene come un po’ di sonno e mi sento felice, poi un po’ alla volta mi sento sempre più forte. E alla fine sono pronto a combattere e tutte le malinconie sono passate.

Certo, a stare qui sempre nascosti nella foresta, alcune volte mi è davvero venuta in mente la mia mamma. Una volta, poi, sono stato veramente male: eravamo in un villaggio giù a est, era pieno di donne perché la maggior parte degli uomini erano andati a un mercato con il bestiame, e così avevamo solo donne da fare a pezzi, e tanti bambini. Abbiamo fatto il solito gioco del cappello e io ho cominciato a fare il mio lavoro. Ma le donne sono più noiose degli uomini, strillano come scimmie, non stanno mai zitte. Così abbiamo cominciato a tagliare un po’ di lingue. Poi un mio compagno è uscito da una capanna tirando una donna che si era nascosta, l’ha buttata in terra e a cominciato a scoparsela. Lei gridava e cercava di graffiarlo e lui rideva come un matto perché riusciva a bloccarla con una mano sola e a fare quello che voleva. “Chiama gli altri e digli che c’è una scrofa!” mi ha gridato e io sono corso a chiamarli. Sono arrivati in cinque o sei e hanno continuato a scoparsela tenendola ben ferma. Come finiva uno, cominciava un altro. La donna piangeva, gridava e cercava di liberarsi, ma ormai era impossibile, perché la tenevano ferma in troppi, e dopo un po’ aveva smesso anche di piangere. Gridava solo quando uno si staccava da lei o quando un altro entrava, come se le avessero infilato dentro un coltello. Stava lì cogli occhi chiusi stretti stretti, le lacrime che le bagnavano tutta la faccia. Quando finalmente tutti hanno finito, quello che l’aveva trovata nella capanna mi ha detto “Puoi ammazzarla, adesso!”. Lei era a terra, rannicchiata su un fianco e piangeva. Io mi sono avvicinato e ho sollevato il machete, e in quel momento lei mi ha guardato in faccia, con gli occhi stravolti. Mi ha guardato in un modo che mi ha ricordato la mia mamma. E allora mi è presa una rabbia!, perché quella troia lì non era certo come mia mamma, anzi. E l’ho colpita al collo. Due, tre colpi forti e la testa si è staccata. Ero così arrabbiato che mi sono messo a urlare, mentre tiravo i colpi. Urlavo e colpivo, finché non mi hanno fermato in due, tenendomi fermo per le spalle e strappandomi il machete di mano. La donna ai miei piedi era a pezzi. Vedendomi così sconvolto i miei compagni mi hanno portato in un angolo e mi hanno dato una sigaretta speciale, perché non è bene che il nemico veda che perdiamo il controllo. Perdere il controllo è una debolezza, e non bisogna mai mostrare le proprie debolezze al nemico.

Poi Mholo mi si è seduto vicino e ha cominciato a dirmi di non preoccuparmi, che per ora sono ancora piccolo, ma tra pochi anni anch’io potrò scoparmi le prigioniere. E che non dovevo arrabbiarmi così, che bisognava aspettare che la natura mi desse la forza per essere uomo. Nel frattempo potevo guardare loro e imparare. Ecco cosa dovevo fare.

Mholo è il mio amico più grande nella compagnia, perché non è vecchio come gli altri, lui è come mio fratello maggiore. Mi spiega tutte le cose che non capisco, mi aiuta a capire perché dobbiamo uccidere questa gente che è nostra nemica. Mi spiega cosa hanno fatto di cattivo e perché non dobbiamo avere pietà: perché loro non ne hanno per noi e se gli lasciamo fare quello che vogliono saranno loro a ucciderci col machete, a violentare le nostre donne, a dare fuoco ai nostri villaggi.

Ecco perché faccio questo lavoro.

All’inizio non volevo. Non capivo ancora. Ci ho messo un po’ ad abituarmi a questa vita, ma adesso sono contento di essere diventato un soldato.

È successo quasi per caso. Un giorno io stavo nello spiazzo di casa del mio amico Allel al mio villaggio e stavamo giocando con Naghef ed Ehioze. Vedemmo arrivare i soldati da lontano: erano alti, belli, con dei fucili grandi e pesanti al collo. Vicino a loro c’erano dei bambini come noi, forse un po’ più grandi. Ma anche loro avevano quei bellissimi fucili e potevano giocarci liberamente. Quando passarono davanti al cortile dove stavamo, uno dei bambini fece finta di spararci. Noi scappammo verso la capanna spaventati, ma il soldato che era accanto a lui gli diede uno scappellotto sulla nuca. Però rideva e allora il ragazzino si mise a ridere anche lui.

Io ero stupito: uno grande che era amico di uno piccolo. E poi gli lasciava usare quel bellissimo fucile! Il soldato ci fece cenno con la mano e ci chiamò: “Ehi, piccoletti! Volete venire a provare a sparare?”.

A noi non parve vero e corremmo tutti verso di lui, tranne Ehioze che è un fifone e che si nascose in un angolo dietro il granaio. Il soldato ci fece toccare a turno la sua arma, poi estrasse un coltello da uno stivaletto e ci fece vedere che la lama da un lato era liscia, e dall’altro seghettata, per tagliare di più. Fece anche le finte di colpirci di sorpresa e noi ridevamo forte. Poi il resto del gruppo di soldati tornò indietro, e cominciarono a ridere con noi, mostrandoci le armi. Infine arrivò il capo (quello che adesso è anche il mio capo) che gli disse: “Allora vi spicciate? Caricateli sulla jeep e partiamo, che ormai abbiamo provviste a sufficienza”, poi si avvicinò e ci guardò da vicino, ci tastò le braccia e le gambe e disse “No, questo no, non dura” e spinse via il nostro amico Naghef, che era il più mingherlino di noi. Naghef rimase lì in piedi, piangendo in silenzio, mentre io e Allel eravamo fieri di essere stati scelti. Fu solo quando capimmo che ci stavano portando via da casa che cominciammo a preoccuparci. Io piansi, anche, ma di nascosto, perché avevo paura che i soldati mi prendessero in giro. (continua…)

 

di Maddalena Gregori

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