Il soldato (seconda parte)

 

(continua) Fu solo quando capimmo che ci stavano portando via da casa che cominciammo a preoccuparci. Io piansi, anche, ma di nascosto, perché avevo paura che i soldati mi prendessero in giro.

Dopo questo giorno, però, i miei ricordi si fanno confusi. Non ricordo le cose in fila per come sono successe, ma tutte mescolate alla rinfusa. Ricordo che la sera piangevo di nascosto, perché se si accorgevano mi picchiavano con un filo di ferro intrecciato che usavano come frustino. Faceva molto male e lasciava certi segni rossi e gonfi che ci mettevano dei giorni a passare. Perciò, se ti avevano appena picchiato con quello, era meglio non farsi picchiare di nuovo, perché faceva male il doppio, se ti colpivano nello stesso posto.

Ricordo anche che avevo sempre fame, e che mi davano da mangiare solo dopo che avevo fatto le cose che mi ordinavano, e allora io ho imparato a obbedire. All’inizio facevo fatica a farle perché non capivo perché dovevo fare delle cose che mi parevano brutte, come dare fuoco alle capanne con dentro la gente, ma poi un po’ per volta mi hanno spiegato, e ho capito che dovevo fare il mio dovere per salvare la mia famiglia. E anche per vendicare le famiglie degli amici che erano state uccise dai nemici.

Ricordo che certe volte stavamo nascosti ai bordi del deserto per giorni e giorni, con un caldo che si moriva, e niente acqua, e allora bisognava bere persino la nostra pipì. Faceva un po’ schifo, ma la sete era peggio. E poi bastava non respirare mentre bevevi e non sentivi l’odore. E anche la roba da mangiare era poca, soprattutto per noi piccoli, che eravamo sempre gli ultimi a servirci dai piatti comuni.

Io avevo fame, sete, le botte mi facevano male, ma un po’ alla volta ho imparato a comportarmi nel modo giusto, e i miei nuovi amici hanno cominciato a trattarmi meglio; soprattutto Mholo, che mi teneva vicino la notte così non avevo paura, mi sceglieva da mangiare dal piatto, mi passava la sua borraccia. Io in cambio dovevo solo comportarmi bene, non piangere, andare a prendere l’acqua quando passavamo vicino a un pozzo o a un fiume, trasportare le armi, e fare esercizio col machete.

Allel, invece, non capiva, non imparava. Tutti i giorni prendeva tante di quelle botte che faceva fatica persino a muoversi. E per punizione gli davano anche poco da mangiare e da bere. Così lui diventava magro magro, debole e triste. Gli vennero quegli occhi spaventati da gazzella e continuava a ripetere che voleva tornare dalla mamma. Poi un soldato un giorno gli disse che se non la piantava di fare la femmina lo avrebbe trattato da femmina. Allel si mise a piangere e il soldato lo prese per un braccio e lo trascinò al di là di alcuni cespugli. Lo sentii gridare, chiamare la mamma, piangere, e gridare ancora. Poi il soldato tornò, ma Allel non era con lui. Lo sentivo piangere, ma non tornava. Doveva averlo picchiato forte!

Io aspettai la notte e, di nascosto, andai a cercarlo con un po’ di cibo che ero riuscito a nascondere in un angolo della camicia. Arrivai ai cespugli e cominciai a chiamarlo piano “Allel! Allel! Sono io, Ageb. Dove sei?” ma non rispondeva, poi sentii un respiro, un singhiozzo, e lo trovai. Era sdraiato a terra, tutto nudo, arricciolato su un fianco, col dito in bocca come un bimbo piccolo. Se ne stava lì con gli occhi spalancati, grandi grandi e bianchi di spavento. Puzzava come di cacca. Io mi avvicinai e gli dissi piano “Dai, Allel, che ti ho portato da mangiare” e gli porsi il cibo. Ma lui non si mosse, non mi guardò nemmeno. “Allel!” dissi di nuovo toccandogli un fianco, ma lui, invece di guardarmi, chiuse gli occhi e si arricciolò ancora di più stringendosi forte alle ginocchia con la mano libera e gemendo forte. Ebbi paura che mi scoprissero e così mi alzai di scatto e corsi a nascondermi. Poi, non appena fui sicuro che nessuno stava venendo a controllare, me ne tornai al campo, mi sdraiai accanto a Mholo e finsi di dormire.

L’indomani mattina il soldato che aveva trascinato Allel dietro i cespugli andò lì a pisciare e tornò abbottonandosi i calzoni e dicendo: “Uno di meno, cibo per iene”. E così  capii che Allel non sarebbe tornato.

Capii anche che dovevo stare attento a non fare arrabbiare troppo i soldati grandi, e anche che non bisognava comportarsi da femmina, sennò ti trattavano da femmina.

Le femmine servono a poco, però ne avevamo sempre qualcuna con noi. Ricordo che a volte i soldati, quando andavamo nei villaggi di notte, prendevano delle ragazze. Avevano la mia età, o poco più, e le chiamavano ‘mogli finte’. La sera se le giocavano a carte, perché non ce n’erano mai abbastanza. Perché a prenderne una ogni due o tre soldati poi bisognava trovare troppo cibo per mantenerle, e così le usavano a turno, in due al massimo per notte. E poi quando era il loro turno, alcuni se le giocavano, per provare a vedere se riuscivano magari a vincere delle sigarette, o del liquore. Così si divertivano il doppio. Oppure perdevano e dovevano aspettare il turno dopo per divertirsi.

Queste ragazzine erano uno strazio, all’inizio, piangevano, di notte le sentivi gridare, e allora volavano sberle. Quelle che erano con noi da qualche mese erano le migliori, sapevano cosa dovevano fare e lo facevano e basta, senza far storie. Ma poi quelle sceme a volte si ammalavano, altre volte si mettevano a fare bambini, e così bisognava cambiarle.

Una sera me ne fecero provare una, mi fecero vedere cosa bisognava fare e poi mi dissero: “Dai, Ageb, ormai sei un uomo, hai ucciso il tuo primo nemico. Puoi scoparti una donna!”. Io mi calai i pantaloni e mi sdraiai sulla femmina che mi avevano messo lì, però poi non sapevo cosa fare. Cominciai a muovermi come mi avevano fatto vedere, sudavo come un matto, ma mi pareva che fosse una cosa stupida. La ragazzina stava lì ferma, a gambe larghe, con le ginocchia piegate e col viso rivolto di lato, senza guardarmi. Io mi muovevo, mi agitavo. Poi un soldato grande scoppiò a ridere e disse: “Troppo piccolo, deve aspettare ancora un po’. Però ha già capito. Bravo Ageb!” e mi sollevò afferrandomi sotto le ascelle. Io tirai su i pantaloni mentre tutti ridevano, e mi vergognavo da morire, così presi a calci in mezzo alle gambe quella puttana che si mise a strillare. Gli altri mi trascinarono via ridendo e mi diedero da fumare una sigaretta. “Dai che te la meriti! Sei stato bravo oggi, sei diventato un uomo”.

Sì perché quel giorno lì avevo ucciso il mio primo nemico, ma non è che mi ricordo tanto bene. Ricordo solo che facevo fatica, le prime volte, perché col machete ci vuole tanta forza. E così sudavo e dovevo colpire varie volte, prima di staccare per bene il braccio, o la mano, o la testa. Però non ricordo bene chi è stato la prima volta. Facevo fatica con tutti: ‘manica lunga’, ‘guanto’, ‘cappello’… ogni volta tanti e tanti colpi prima di riuscire a tagliare per bene. E ogni volta, sia prima che dopo mi davano le sigarette “speciali”. Poi ci sono anche le pastiglie, certe medicine dei bianchi che ti fanno stare sveglio anche per dei giorni e delle notti di seguito. Però poi quando finisci dormi per due giorni! E allora bisogna usarle solo quando hai una battaglia importante. Oppure le prendi e poi bevi del liquore, così poi dormi.

Ormai anch’io ho la mia bottiglia per il liquore, e quando è fine mese mi danno la mia razione, come ai grandi. La medicina e le sigarette, invece, me le danno i grandi quando pensano che ne ho bisogno. E comunque tra poco, secondo Mholo, potrò anche scoparmi le puttane, che sono il premio dei guerrieri…

Anche se adesso non so se e quando potrò davvero scopare, perché qui dove sto non ci sono puttane, e neanche soldati grandi. Qui dove sto è un posto che chiamano “istituto di recupero” e ci sono solo bambini come me, che stavano coi soldati. Anche loro hanno ucciso uomini e donne, anche loro sanno usare bene il machete e sono forti abbastanza da staccare una gamba con due colpi soli. Alcuni di loro sono pieni di cicatrici, hanno occhi scuri e stretti, e si guardano attorno come leoni in gabbia. Non ridono mai e stanno seduti in un angolo del cortile, e litigano con tutti. Alcuni invece girano felici, giocano con gli altri con giocattoli nuovi e colorati che i grandi del campo ci danno ogni giorno e ogni sera ripongono in certi armadi con la chiave.

Ad alcuni capita che vengono i genitori a trovarli, ma quasi sempre poi li lasciano qui, non se li portano a casa perché dicono che hanno fatto cose troppo brutte, che non sono più i loro bambini, e che se li portassero a casa la gente del villaggio li caccerebbe via o gli farebbe del male. Insomma, allora è meglio che non vengano neanche, i genitori. Però ogni tanto ne arriva qualcuno lo stesso: arriva, incontra il figlio, ci parla, piange, e poi se ne va dicendo che non può portarselo a casa. E così ogni giorno io guardo il cancello e spero di veder comparire il mio papà o la mamma, ma spero anche che non vengano, perché se venissero e dicessero che non possono portarmi a casa io sarei ancora più triste di adesso. Sarebbe peggio che sapere che sono morti.

A volte infatti i grandi del campo vengono e dicono a un bambino: “Abbiamo fatto le ricerche, ma il tuo villaggio è stato attaccato e la tua famiglia è tutta morta”. E allora quel bambino piange, si rattrista, non mangia per dei giorni, e i grandi del campo gli danno delle medicine non per farlo sentire un leone, ma per farlo dormire. Dormire, dicono, lo fa riposare, lo aiuta a far passare la tristezza.

Però quando vengono i genitori che poi se ne vanno lasciando il figlio qui nell’istituto non gli danno medicine. Si mettono invece a parlare con lui, gli raccontano di tante cose, gli spiegano perché i genitori non lo vogliono, gli spiegano cosa possono fare per aiutarlo a diventare grande, dimenticare quello che è successo, rifarsi una vita…

Io, se dovesse venire la mia mamma e mi dicesse “Non ti voglio”, preferirei le medicine per dormire. Vorrei dormire per sempre, così non sentirei la tristezza che sento scendere fino in fondo alla pancia; mi sdraierei su un fianco tutto arricciolato fino ad avere le ginocchia sulla fronte e mi succhierei un dito, come quando ero piccolo. Starei lì, aspettando le iene.

Però penso che se dovesse venire a trovarmi la mia mamma mi prenderebbe tra le braccia, mi stringerebbe, e mi porterebbe quei dolci di farina di manioca che fa sempre nelle feste importanti e che a me piacciono tanto. Se la mamma venisse a trovarmi io saprei convincerla, l’abbraccerei forte forte, respirando il suo odore dolce, e la riempirei di bacetti, come piace a lei, e le direi quelle cose buffe che la fanno sempre ridere. E allora lei non potrebbe mai andarsene lasciandomi qui, seduto in un angolo del cortile, con gli occhi scuri e stretti. Lei mi porterebbe con sé, al nostro villaggio, dove potrei giocare coi miei amici nei cortili delle loro case, con Naghef, Ehioze e Mholo, e persino Allel.

Se invece sapessi che la mia famiglia è stata uccisa, allora vorrei le sigarette speciali, e anche quelle medicine che fanno stare svegli. Ne prenderei cento, così potrei stare sveglio fino a quando non avessi ucciso tutti i nemici. Tutti, uno per uno, fatti a pezzi col machete. Per vendicare la mia famiglia. Perché io sono un soldato, e non ho paura di nessuno. Per questo i nemici hanno paura di me.

 

di Maddalena Gregori

2 Risposte a “Il soldato (seconda parte)”

  1. Impossibile commentare, lo sapevo ma voglio dirlo. Sono due settimane che giro attorno a questo racconto ma mi fa troppo male. Sono squassata in modo violento e non riesco neanche a piangere.
    Sento tutto il tuo dolore mentre ti leggo.

    1. Le storie di migliaia di bambini e bambine a cui è stata rubata l’infanzia raccolta in una storia sola. Ho dovuto raccontare perché non è giusto che certe vite non vengano testimoniate, non è giusto che il loro sacrificio non venga riconosciuto.

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