La ballata di Assuntina (ultima parte)

Dopo una festa, nel corso della quale tutti avevano bevuto un po’, cugino e cugina furono, infatti, chiusi a chiave nella stessa stanza e ‘accidentalmente’ scoperti dalla di lei sorella che denunciò il fatto costringendo il giovane a ricucire il disonore di cui la cugina era stata fatta oggetto tramite un fidanzamento scopo matrimonio. La famosa cugina era, manco a dirlo, la futura moglie di Pasquale e, colpo di scena, la signora che abitava l’appartamento sotto il mio era la famosa e maligna sorella che li ‘scoprì’ sul fatto. Ecco finalmente spiegate le occhiate di Assuntina, i suoi ammicchi rivolti al piano di sotto.

Ma restava da spiegare per quale motivo tante persone si fossero date tanto da fare per unire due giovani così malassortiti e che si sarebbero in seguito rovinati la vita a vicenda, oltre a quella dei loro sfortunati figli, capitati in questa famiglia ‘sbagliata’. E così Assuntina mi spiegò che il motivo stava nella medievale usanza di sposarsi tra congiunti per non dividere le proprietà di famiglia (la ‘roba’).

E fu così che, nel giro di una settimana, la povera Assuntina, cenerentola della porta accanto, si era vista sottrarre quell’amore su cui la sua fantasia si sarebbe accanita nel corso della sua intera esistenza di adulta. Pasquale fu fidanzato ufficialmente alla cugina, le nozze furono celebrate rapidamente, per rimediare al fattaccio, e Assuntina venne estromessa, rapinata, si può dire, del suo amore.

Lentamente, ai miei occhi molte cose si andavano mettendo a fuoco. Anche accadimenti relativi a fatti apparentemente slegati. Ora mi era più chiaro sia il contegno di Pasquale che quello della moglie, quell’odio assurdo, che aveva le sue radici in un’unione imposta dall’esterno e che si era diramato e ingrandito come un cancro, fino a invadere l’intera famiglia in modo incurabile. Più chiaro era anche l’atteggiamento della vicina del piano di sotto e dei suoi familiari che abitavano lì e che da anni praticavano un feroce ostracismo nei confronti di Pasquale, prima, e di Assuntina, poi. Più chiaro mi fu anche l’eccessivamente repentino cambiamento di Pasquale, che, ai miei occhi, si era mutato da belva feroce in essere umano nello spazio di pochi mesi: era chiaro che, se la causa del malessere che lo aveva portato al bere e alla violenza era quell’inganno perpetrato dalla famiglia ai suoi danni e le relative conseguenze, che gli avevano condizionato l’esistenza, il ‘ritorno’ di Assuntina era stato come una sorta di rifusione di ciò di cui la vita, a suo parere, l’aveva privato.

Ai miei occhi disincantati e poco avvezzi alle magie, quella storia appariva come una sorta di miracolo della vita, un segnale di speranza per tutti!

Eppure Assuntina, nonostante questi avvenimenti da favola, non era felice. O meglio, era sì felice, ma sempre con qualche riserva. Lei voleva, anzi esigeva da Pasquale dei segnali di impegno sempre più forti. Prima fu il fatto di coprire i vari debiti che Pasquale aveva seminato in giro, da quello condominiale ad altri. E Pasquale lo fece, magari in modo poco sollecito, magari a sprazzi e solo per le cose che lo convincevano (alcuni debiti no, non lì coprì mai, perché lui riteneva giusto così), ma lo fece. E Assuntina se ne dichiarava scontenta.

Poi lei chiese un’intesa chiara tra Pasquale e la moglie, perché lei già una volta era stata defraudata di quest’amore perché ‘indegna’, e ora voleva rientrare nella vita di Pasquale per la porta principale, non da quella secondaria. Lei voleva essere futura moglie, non amante (che già al paese si cominciava a sparlare di loro due). Assuntina pretendeva il divorzio, una divisione netta, chiara, sancita dalla legge, non una semplice separazione, che non le bastava a recuperare il ‘posto’ sociale che le spettava di diritto: moglie di Pasquale. E lui, molto lentamente (ci vollero parecchi mesi perché si decidesse), fece anche questo.

Poi Assuntina gli chiese di trasferirsi di nuovo al paese, in casa sua (di lei), che ora era signora e poteva fare marameo a tutti quelli che l’avevano snobbata in passato. Adduceva motivazioni validissime, come, ad esempio, il fatto che quell’appartamento lì di città era piccolo e scomodo, col bagno in comune. “Io giù tengo un palazzo, sto come una regina, e perché me ne devo stare qua in questo porcile, con rispetto parlando” mi ripeteva spesso “Una casa con venti stanze e mobili e armadi pieni di roba, perché a me piace la bella roba e non mi faccio mancare niente. Io giù sono una signora, e chi me lo fa fare di venire a stare qua in questo porcile!”

Ma c’era un problema: da qui Pasquale non se ne voleva andare, non aveva la minima intenzione di tornare in paese e, soprattutto, di andare a vivere nella casa di Assuntina. Infatti, se per lei si sarebbe trattato di una rivalsa, per lui sarebbe invece stata una disfatta: tornare al paese con un matrimonio già molto chiacchierato e fallito alle spalle, con una nomea terribile che sicuramente l’aveva preceduto, a vivere, lui, che una volta era signore, ‘ospite’ nella casa di Assuntina.

No, lui giù non ci voleva andare. Ma Assuntina non capiva, o non voleva capire, perseguendo la sua grande rivincita sociale. E così sosteneva la sua tesi con motivazioni sempre nuove. Una volta il fatto di non avere il bagno in casa, l’altra volta quella di avere paura a stare da sola, con quella porta scassata, che erano entrati i ladri e meno male lei non era in casa, e l’altra ancora di annoiarsi, che lei qui non aveva nessuno con cui parlare e in paese, invece, le volevano bene tutti …

E ogni volta Pasquale trovava una soluzione che non era quella da lei desiderata: fece fare il bagno in casa (glielo fece trovare a sorpresa, dopo un’assenza di Assuntina di qualche mese), fece mettere una porta blindata, cominciò a portarla fuori la sera, in pizzeria, al cinema. E Assuntina era ogni volta lusingata, ma anche innervosita perché lui, in realtà, in questo modo le sfuggiva.

E nacquero i primi litigi: lei insisteva con la sua richiesta di trasferirsi giù tutti e due e lui la ignorava, allora lei partiva col ricatto “E allora me ne vado, una mattina che sei al lavoro prendo il pullman e mi vedi solo se mi vieni a cercare”, e allora lui beveva disperato e un paio di volte arrivò persino a picchiarla. Per carità, niente a che vedere con le botte che propinava alla moglie. Assuntina fu colpita, sì, ma ogni volta, dopo il primo colpo, lui fuggiva di casa, disperato.

Ogni volta, dopo questi episodi lei scappò, per poi tornare, però, dopo alcuni mesi vuoi con la scusa di una visita medica urgente da fare presso certi professori di fiducia, vuoi perché magari lui l’aveva chiamata chiedendole torna, ti prego. Ma ormai l’idillio era compromesso dalle reciproche aspettative. Sempre più spesso Assuntina bussava alla mia porta portandomi in dono intere pagnotte cotte al forno, agrumi e olive dei suoi campi, formaggi caserecci delle sue parti e chiedendo, in cambio, un orecchio pronto ad ascoltarla, a sostenerla. Io cercavo, intuendo quelle che potevano essere le motivazioni di Pasquale, di suggerirle una mediazione, ma mi trovavo davanti il muro della sua cocciuta determinazione. Così, il più delle volte, mi limitavo ad annuire e a sostenere le sue convinzioni: “Io lo mollo, è una bestia, non si accorge di me manco se gli crepo davanti, scusa la parola” e mi raccontava di quanto lui la ignorasse. Tornava dal lavoro, mangiava, guardava la televisione con lei e poi andava a letto, dove dormiva della grossa fino alla mattina dopo. “Io gli vado bene solo come serva” commentava lei amara “L’altra sera stavo male e non m’ha manco guardata! Ah, ma se ne accorge! ’Ché io una mattina, senza dirgli nulla, piglio e me ne vado. E non torno manco se piange!”

La faccenda andò avanti a lungo, per più di un anno, e ogni volta vedevo Assuntina sempre più amareggiata, delusa. Lei se ne andava, stava via qualche mese e poi tornava per qualche settimana. Ogni volta veniva a trovarmi vergognosa dicendo che, sì, non ce l’aveva fatta, che era più forte di lei: era dovuta tornare, nonostante i forti propositi di troncare la relazione. E ogni volta io le dicevo di non preoccuparsi, che nella vita bisogna fare ciò che si sente di fare, soprattutto se non si fa del male agli altri. Lei sorrideva timida e dopo mezz’ora tornava con una bottiglia d’olio di frantoio.

Ma tutto andò peggiorando. Ripensandoci ora, ciò che accadde circa un anno e mezzo fa era un chiaro segnale di ciò che sarebbe successo. Ma io non seppi vedere al di là del mio naso, e poi, comunque, che avrei potuto fare? Ci sono cose, nella vita, in cui non si può intervenire.

Ma torniamo ad Assuntina. Due inverni fa lei rimase ospite da Pasquale per qualche settimana. Era venuta con l’intenzione di trattenersi solo pochi giorni, ma poi, vuoi per una cosa, vuoi per l’altra, si trattenne di più. Venne da me a chiedere qualche maglione smesso da indossare in casa, perché aveva poche cose con sé. Era triste, poco allegra. Era ingrassata, come gonfia, e si vedeva che non era felice. Veniva spesso a trovarmi per parlarmi sempre delle stesse cose: di Pasquale, di com’era diverso da come se l’era immaginato e da come se lo ricordava, e poi di quanto gli voleva bene e di quanto bene lui volesse a lei, e poi di quanto lui l’amasse poco … Insomma, un delirio. Poi un giorno venne da me con la faccia stravolta: mi disse che stava poco bene e che voleva tornarsene a casa al paese, e mi chiese aiuto, un passaggio in auto alla stazione degli autobus la mattina successiva. Le risposi che non c’era problema e restammo d’accordo che l’indomani mattina, verso le otto e mezza, non appena Pasquale se ne fosse andato a lavorare, lei mi avrebbe suonato alla porta.

Il mattino dopo mi svegliai abbastanza tardi e temetti che lei avesse suonato e che io non l’avessi sentita, perciò mi affacciai sul corridoio, ma la porta di fronte era chiusa. Pensai che si fosse arrangiata con un taxi. A un certo punto udii dei rumori sul ballatoio, mi affacciai e scorsi Assuntina sulla soglia di casa, seminascosta da un battente della porta, in una strana posizione pencolante.

La salutai “Ciao Assuntina! Allora non sei partita! … Credevo fossi andata in taxi, alla stazione …. Ho anche guardato, prima, per vedere se eri in casa … Ma cos’hai, … stai male? Assuntina … che ti senti?” mentre le parlavo, Assuntina faceva cenno di sì col capo sorridendo, ma la vedevo scivolare lentamente a terra in modo strano, come se fosse appesa a qualcosa. Corsi da lei e la trovai aggrappata a una barra della porta. Stava svenendo e perciò si era afferrata a quell’affare per non cascare. La acchiappai sotto le ascelle e sentii che era rovente. A fatica riuscii a convincerla a mollare la barra e riuscii a trasportarla fino al letto da dove telefonai alla sua famiglia, in paese, a Pasquale e alla guardia medica. Dopo mezz’oretta arrivarono Pasquale e un’ambulanza e si portarono via Assuntina, che stava letteralmente cuocendo per una febbre di 41 gradi causata da una polmonite non curata. Nel delirio, infatti, Assuntina fece in tempo a spiegarmi, tra un’assurdità e l’altra, che lei apposta non le aveva prese le medicine, per vedere fino a che punto quella bestia infame di Pasquale se ne sarebbe fregato di lei, che anche nel corso della notte lei si era alzata per prendere dell’acqua ed era caduta appresso al comò sbattendoci addosso e facendosi pure male (aveva infatti una vistosa ecchimosi sulla coscia) e lui, bestia, non s’era manco svegliato. Dal canto suo, Pasquale appariva confuso: sopportò i rimbrotti del medico, che lo accusò di negligenza, e seguì Assuntina all’ospedale.

Una volta guarita, Assuntina tornò al paese dove rimase a lungo. Mi telefonava chiedendomi di lui, cosa faceva, se aveva altre donne, accusandolo di non amarla, di averle rubato quattro anni di vita, di essere un egoista privo di cuore, che lei lì in paese aveva tutto quel di cui aveva bisogno, e che persino due uomini, un ragioniere, pensa!, e persino un professore, le avevano chiesto di sposarli, ma lei no, “… figurati che mi frega a me! Io con lui è che c’avevo quella cosa, che lo amavo da quando ero ragazza … ma non lo conoscevo, no, che quello è una bestia e ha fatto bene la moglie a lasciarlo e adesso non mi vede più manco dipinta. E poi è inutile che mi telefona, che mi chiama sempre di notte, ubriaco che fa schifo, a dirmi ‘Torna, torna’, ma se lo sogna che io torno, a fargli da serva a lui, ma che mi frega a me, che qui c’ho i miei figli e la mia casa che è ’na reggia e qui in paese mi vogliono tutti bene …” e così via, ogni volta sempre più amara, tesa ad inseguire quel delirio di nera tristezza che aveva scelto. A nulla valevano i consigli o i tentativi di farla sorridere. Le sue risposte erano sempre amare e, sempre, anche quando relative a tutt’altri argomenti, ricondotte a Pasquale.

E così passarono i mesi, io partii per un viaggio e, al mio ritorno, feci un giro di telefonate di saluti tra cui anche una ad Assuntina. Mi rispose con una voce strascicata e inintelligibile, parlandomi in un misto di italiano e dialetto di cui compresi molto poco. Conclusi perciò in fretta, con dei saluti formali. Ma la preoccupazione mi attanagliava: mi aveva risposto non l’Assuntina che conoscevo ma il farneticare di una pazza.

Dopo un paio di mesi chiamai ancora e, per fortuna, riuscii a parlare con una sua nuora che, con frasi smozzicate per non farsi intendere da lei, mi spiegò che Assuntina stava molto male, molto! Calcò la voce su quel ‘molto’ e così, per capire meglio, mi feci dare il numero di telefono del figlio maggiore, di cui lei era la moglie, per parlargli più liberamente. E il figlio mi spiegò che Assuntina era stata da Pasquale per una settimana, mentre io ero via, e che era tornata completamente sconvolta. Aveva smesso di mangiare e, soprattutto, di curarsi per quella malattia al fegato per cui era stata operata e che la costringeva da anni a una dieta ferrea e a cure continue. Adduceva, a sostegno di questa decisione, scuse assurde e spiegazioni irragionevoli. Arrivò a spiegare al figlio che era perché Pasquale l’aveva picchiata. Non, non quell’ultima volta che era stata da lui, ma prima, anni prima, che quel porco l’aveva picchiata. E per questo ora lei non si voleva curare. E poi prese ad accusare Pasquale di aver fatto di tutto per ucciderla facendola mangiare e bere, lei, per cui anche un solo bicchiere di vino era veleno. Lei cercava di fare la dieta e lui invece la faceva mangiare. E questo era, agli occhi ormai distorti dalla delusione di Assuntina, il massimo segno di menefreghismo. Lui, questo ormai era chiaro, non l’amava. Non quanto lei amava lui, per lo meno. Insomma, smise di mangiare e di curarsi e, nel giro di un paio di mesi, si ridusse in un tale stato che i medici emisero una diagnosi di massimo tre mesi di vita.

Inutile dire che quella telefonata mi turbò. Quanto a Pasquale, mostrava sempre più spesso segnali di regressione verso comportamenti asociali, come ascoltare radio e tivù a tutto volume con la porta spalancata per disturbare tutto il palazzo. A me riservava sempre un sorriso, ma per il resto …

Poi, una decina di giorni fa, ricevetti una telefonata. Era il figlio di Assuntina, con la voce rotta dalla disperazione: “Per favore, vedi se c’è Pasquale, perché mamma è in ospedale ma fa la matta, non vuole curarsi. Dagli il numero di telefono che magari, se lo sente, si fa convincere”. Corro da Pasquale, gli spiego la situazione, ma lui non riesce a richiamare, il numero è sbagliato o il telefono è rotto. Così, la sera, il figlio mi richiama, chiede perché Pasquale non si sia fatto vivo, gli spiego perché e chiedo di passarmi Assuntina, per vedere se riesco a convincerla a farsi curare. Ma lei, a un mio “Come stai?” di cortesia, risponde con una vocina fragile di foglia, tutto d’un fiato, un secco “Io sto bene, benissimo!” e mi passa il figlio. Quella voce, quella frase, ancora oggi mi risuonano nelle orecchie, vibrando della fredda determinazione racchiusa in esse: quella di non tornare di indietro. È come se mi avesse detto: “Ho scelto così, non cercate di farmi tornare indietro. Ora so cosa devo fare, ora ho fatto finalmente la mia scelta”.

Due giorni dopo, infatti, è arrivata la notizia della sua morte, ricevuta di balcone in balcone dalla fonte meno prevedibile: la vicina di sotto, che, ammiccando e cercando di farsi sentire anche dalle altre vicine, mi ha comunicato “Ma lo sai chi è morto? Assuntina!”.

Assuntina, che ha deciso di morire, che ha scelto di morire perché il suo amore non era come lei aveva creduto, perché il suo amore non era stato degno delle altezze che lei aveva deciso. Assuntina che aveva voluto vivere quella passione fino alle conseguenze più estreme, senza mediazioni: quell’amore avrebbe rappresentato la sua rivalsa di fronte a una vita e a una società ingiuste e impietose, oppure niente, il niente assoluto. E chi se ne frega della casa in cui era come una regina, delle venti stanze piene di mobili pieni di vestiti e di cibo, dei campi e dei possedimenti, degli uomini che la amavano e che volevano sposarla. Lei se ne sbatteva dell’Assuntina di adesso, quella che ormai aveva un certo peso in paese, che tutti amavano, che faceva volontariato e che aveva saputo tirare su quattro figli maschi, tutti sposati, con famiglia. Lei voleva riscattare l’Assuntina oltraggiata della sua gioventù, quella ragazzina ferita nel cuore da un tradimento atroce, tramato nell’ombra e perpetrato con costanza da una famiglia intera contro di lei, ragazzetta dallo sguardo di mandorla caramellata, colpevole solo di essere povera, di non essere all’altezza. Ma la vita è amara, è ‘rugosa’, come diceva il poeta, e non lascia spazio ai sogni di rivalsa di una ragazzina tradita rimasta sepolta in fondo al cuore di una signora di cinquant’anni. E così quel sogno si è infranto, e con esso sono svanite tutte le ragioni di una vita. Assuntina. Eri riuscita a dimostrare che non eri una nullità, eri diventata ricca, stimata, amata. Ma ti restava un altro pezzo di vita da risolvere, e non ci sei riuscita, e allora perché vivere?

Te lo dovevo, questo canto…

Prima stroffa!!! “Unna donna tagliattaa pezzetti

futtrovatta inunna valiggia

con la testa staccata dal busto

ohi che gusto, che gusto, che gusto!”

Fatto di sangue e di raccapriccio!

Seconda strofffa ancor più dramatttica!

“Unna donna tagliattaa pezzetti

futtrovatta inunna valiggia

con la testa staccata dal busto

ohi che gusto, che gusto, che gusto!” …

(sfumando)

 

di Maddalena Gregori

4 Risposte a “La ballata di Assuntina (ultima parte)”

  1. Concordo, commossa, con Rosina.
    La “fantasia di Pasquale”, da sogno infranto a ossessione divorante, passando attraverso l’inganno e la perdita, la conquista di un’esistenza dignitosa e il riscatto, di nuovo il sogno a portata di mano e la manipolazione di Pasquale, la sconfitta, l’inferno e la rinuncia. Tristemente incredibile, eppur succede ad alcune anime.

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