La ballata di Assuntina (prima parte)

 

Prima strofffa!

“Unna donna tagliattaa pezzetti

futtrovatta inunna valiggia

con la testa staccatta dal busto

ohi che gusto, che gusto, che gusto!”

Fatto di sangue e di raccapriccio! Nella figura vedettte

come il corpo fu trovattto …

Seconda strofffa!

“Unna donna tagliattaa pezzetti

futtrovatta inunna valiggia

con la testa staccatta dal busto

ohi che gusto, che gusto, che gusto!”

Nella figura vedettte, come essa fu rapitta … “Unna donna tagliattaa pezzetti …”

Ehi, … ma perché ve ne state andando?

Che c’è? Vi annoiate?

Sì, è vero, i cantastorie non sono più di moda, e in effetti da un pezzo non venivo più in piazza a cantare le mie storie. Stavo, silenziosamente, uscendo di scena. Senza strepito, intendo. Nessuno se ne sarebbe accorto. Anzi, nessuno se ne stava proprio accorgendo. Stava accadendo in modo del tutto naturale: la gente aveva smesso di ascoltarmi e, così, io avevo, poco alla volta, smesso di cantare. E il mio silenzio era passato abbastanza inosservato. A dire il vero, era proprio passato inosservato. E io avevo accettato quello che pareva un destino segnato, contro cui non valeva la pena di battersi.

Si ha un bel dire che bisogna lottare per ciò che si ama, ma se il mondo non ci vuole più, vale la pena, per noi cantastorie, imporsi, urlare per farsi notare?

In fondo, un mondo che non vuole più i cantastorie vuol dire che non ne ha più bisogno. Troppa concorrenza! Giornali, TV, cinema, … troppa concorrenza!

Così avevo deciso di uscire di scena con stile, come fosse cosa voluta da me e da me solo.

Eppure, nonostante tutte queste premesse, non si può ignorare che in ognuno di noi, dietro ogni nostra azione, si cela una vocazione. E io non posso ignorare la mia. Soprattutto quando mi imbatto in una storia così… una storia come quella che sto per raccontarvi: la storia di Assuntina.

Una storia che non posso tacere, per dovere nei confronti di Assuntina che fece della propria vita un romanzo, che plasmò i propri giorni come uno scultore la plastilina o uno scrittore le parole, fino a darle la forma tragica che andrò a narrarvi.

Quando penso ad Assuntina, vedo in lei l’ultima di quelle eroine romantiche che erano tanto in voga sul volgere del diciannovesimo secolo. Una sorta di sopravvissuta, un po’ come noi cantastorie.

E forse lei è veramente l’ultima di un certo tipo di eroi, capaci di giocare tutta la propria vita sul tavolo verde dell’amore, rischiando anche di perderla. E, chi lo sa?, può darsi che non a caso la sua storia si sia compiuta proprio ora, nella calda estate del 1999, appena in tempo per non passare al prossimo millennio, quasi volesse restare aggrappata a questo bislacco e sconsiderato ventesimo secolo; aggrappata a un ideale ormai finito, rifiutando la saggezza che il futuro, più sereno, forse, ma più piatto, ci propone.

Conobbi per la prima volta Assuntina in un giorno di ‘agitazione’. Certi lavori di ristrutturazione mi costringevano a trascorrere la notte presso un albergo, ma ogni mattina dovevo tornare a casa mia per portare avanti le faccende. Ormai, dopo settimane, ero in dirittura d’arrivo, ma quella mattina accadde un imprevisto, problemi condominiali. Non ci voleva proprio!

Uscii nel pianerottolo cercando qualche vicino a cui chiedere spiegazione sulla questione e mi ritrovai davanti questa signora bassotta, lo sguardo dolce come di mandorle caramellate, il sorriso quieto, un visetto buffo, da criceto, un corpo materno.

Sentivo delle vere e proprie vibrazioni d’amore provenire da lei. Così forti che non ebbi il cuore di interromperla, nonostante la furia che mi torceva le budella per la questione che tanto mi stava a cuore e a cui lei non dava alcuna risposta. Perciò non l’interruppi quando prese a raccontarmi, non richiesta, l’intera storia della sua vita con frasi sibilline che solo negli anni successivi, frequentandola, avrebbero assunto un significato compiuto. Capivo poco di quel che mi diceva perché aveva un modo così vago di raccontare. Le poche frasi di senso compiuto erano immerse in un limbo di ammicchi, sottintesi e “Tu sai com’è”.

No, io, a dire il vero, non sapevo com’era né, tantomeno, a cosa lei si riferisse. Ma annuivo all’incantevole dolcezza che proveniva da lei e contro cui la mia inquietudine rimbalzava priva di scopo e ragione.

E mi incantava la fiduciosa apertura con cui mi confidava, in quel suo modo un po’ svagato, fatto ad arte per far perdere le tracce a eventuali inseguitori, quello che era il più grande segreto di tutta la sua vita, il sogno di un amore coltivato per decenni in fondo al cuore, nutrito con fedeltà inattaccabile, certa di una futura rinascita.

Se io affermassi di aver capito tutto ciò dalle sue parole, mentirei. In realtà mi pareva una dolce, piccola signora vaneggiante. Ma percepivo, intuivo tutto ciò che vi dicevo da qualcos’altro. Più che una comunicazione, quella avuta con Assuntina quel giorno, era stato un travaso di emozioni, una sorta di osmosi narrativa. Era il suo atteggiamento, più che le parole, a dirmi quanto fosse importante il miracoloso segreto che mi stava (a me, che vedeva per la prima volta) rivelando.

Mi raccontò di giù, del paese da cui proveniva, del fatto che Pasquale (questo il nome del mio dirimpettaio presso cui era ospite) era fatto in un certo modo, che “tu sai com’è fatto, no?” (veramente no!, non sapevo, perché, nonostante io abitassi lì da sei anni, non avevo avuto modo di conoscere nulla di quell’uomo) e poi del fatto che lei e Pasquale erano stati fidanzati tanti anni prima, che non avevano ancora vent’anni, giù in paese, e poi c’era stato quell’avvenimento oscuro, velato di malignità, che li aveva separati ma che lei, nonostante un marito e quattro figli, aveva sempre avuto “la fantasia di Pasquale. E lui pure di me!”. E quest’ultima frase, pronunciata con tono di trionfo, mi appariva, pur in questa forma stravagante, la più bella dichiarazione d’amore che avessi mai udito e che aveva saputo attraversare venticinque anni e le mille traversie e tribolazioni toccate a due intere vite.

“… la fantasia di Pasquale …”: mi faceva sorridere, quella buffa espressione. E allo stesso tempo risvegliava in me un senso di meraviglia. Sembrava quasi sottintendere che non c’è amore se non c’è fantasia, non si può amare una persona se non la si plasma e la si ridisegna seguendo l’andamento dei propri desideri. “… la fantasia…”: così lontana dal reale che quando diventa realtà, quando l’amore sognato finalmente coincide con l’amore vissuto, la magia pervade l’intera tua esistenza.

Nei giorni successivi a quel primo incontro, in molte occasioni ripensai a quella frase e al sentimento ambiguo che risvegliava in me: da un lato una sorta di ironica presunzione, che mi faceva considerare quella storia come un delirio sdolcinato e romanticoide, e dall’altro uno stupore velato di invidia. Invidia per quella serena credulità, per quella voglia di credere ciecamente all’amore e all’intreccio di vite che la sua forza determina. Una fede che a me era sempre stata negata. E chi poteva dire se fosse più savio il mio modo di vedere le relazioni amorose  – razionalmente analitico, cautamente distaccato – o quello magico a cui Assuntina soggiaceva. D’altra parte, mi dicevo, viviamo una sola vita e allora chi se ne frega se qualcuno cerca di ingannarti: l’importante, forse, è vivere al massimo le nostre passioni, viverle pienamente.

Ma queste erano elucubrazioni marginali, rispetto ai mille problemi quotidiani che in quel periodo mi assillavano. E poi quella strana apparizione pareva essere un semplice e stravagante episodio isolato della mia vita. Per cui, a breve, smisi di pensarci.

Ma un giorno, nuovamente, Assuntina si affacciò nella mia esistenza. Bussò chiedendomi le chiavi della cantina comune e, quando venne a riportarmele, le proposi in dono un calendario che mi era stato regalato e di cui sostanzialmente volevo liberarmi.

Assuntina interpretò il mio gesto come suprema cortesia e così, una mattina, bussò alla mia porta e si presentò, scarmigliata, coperta di farina e dotata di grembiule da perfetta massaia, con un vassoio di pasta fresca fatta in casa in dono. E, in quell’occasione, mi offrì una nuova puntata, o meglio nuovi stralci, della sua misteriosa storia, sussurrati appena, per non farsi sentire dai vicini, e rifiutando cortesemente di entrare in casa per “non disturbare”.

Che potevo fare? Accettai e ringraziai caldamente per il regalo, dimostrai, con la massima sollecitudine di cui fossi capace, di apprezzare quel cibo genuino, quel dono che, ripensandoci ora, faceva profondamente parte della sua natura materna, pronta a nutrire il mondo intero. E prese a raccontarmi che lei faceva sempre la pasta in casa “… e che ci vuole? Mezz’oretta!” e che ne faceva dono anche a un certo ‘professore’ che lavorava in una clinica dove lei era stata operata ‘di fegato’. Professore che le voleva tanto bene “… perché a me vogliono bene tutti, sa?”. E poi che anche Pasquale apprezzava tanto la sua cucina, che, da quando lei veniva a trovarlo, mangiava decentemente, perché prima “… pure quando c’era la moglie …” sussurrava poi, con voce appena percettibile e accennando col capo e con lo sguardo al piano di sotto…

Io non capivo. Che c’entrava il piano di sotto con l’incapacità di cucinare della fuggitiva moglie di Pasquale? Ma rinunciavo a far chiarezza, un po’ perché non volevo dare a vedere di impicciarmi e un po’ perché, in fondo, non me ne fregava nulla. Sorridevo e annuivo. E lei sorrideva e ammiccava come pensando che avessi capito tutto.

E così anche quel secondo incontro se ne andò, concluso da una serie di reciproci salamelecchi e da promesse di future visite.

Che seguirono, a cadenza settimanale, sempre accompagnate da doni gastronomici casalinghi e da una ripresa delle antiche confidenze. Ogni volta un pezzetto del puzzle si andava chiarendo. Ma ce ne volle, del tempo, prima che il quadro della vicenda mi fosse finalmente chiaro.

A distanza di settimane, era chiaro solo che lei aveva amato pazzamente Pasquale, che altrettanto pazzamente l’aveva ricambiata. Ma che una strisciante malizia di paese li aveva osteggiati e divisi, e così lui si era creato una famiglia con una moglie che l’aveva poi lasciato, mentre lei, Assuntina, si era sposata con un uomo da cui aveva avuto quattro figli e che pochi anni prima era morto. La vedovanza l’aveva abbattuta moralmente e lei si era trascinata per mesi nella depressione finché un giorno, per ‘puro caso’, a sentire lei, quasi mossa dal destino, lei aveva ‘sbagliato’ numero telefonico e, con l’intenzione di chiamare il fratello di Pasquale, con cui aveva delle questioni economiche in corso, aveva fatto il numero di Pasquale! E ciò accadde, miracolo!, non una, ma ben due volte di seguito. “Vedi il destino?”

“Forse, in realtà, volevi parlare proprio con lui …” commentai io, chiedendomi che ci facesse il numero di Pasquale, un amore perso a vent’anni, nell’agenda di Assuntina.

“Macché, figurati! Mai nella vita!” fu la sua risposta. E perché non crederle? Non era stata la sua volontà di rivivere l’amore, ma il destino, che ama giocare ai dadi con le vite degli uomini, a muovere i fatti in modo da far incontrare nuovamente Assuntina e Pasquale, gli sfortunati amanti divisi, venticinque anni prima.

Beh, comunque sia, queste due ‘ignare pedine’ del fato si risentirono e, come opporsi al destino?, si incontrarono. “E mo’ sto qua!” fu il trionfante commento finale. E uno sguardo in tralice, rivolto al piano di sotto, mi indicava su chi era operato il trionfo.

E io sorridevo, annuivo, ma dentro di me mi chiedevo cosa o chi ci fosse, al piano di sotto, a parte i condòmini che da anni vedevo, salutavo … mah!

Poi Assuntina partì, tornò al paese dove doveva sistemare tutta una serie di questioni economiche e burocratiche tra cui la pensione del marito morto e certe faccende di vendita di terreni. Mi raccontava della ‘roba’ di verghiana memoria che aveva giù, dei campi, degli olivi, della casa con almeno venti stanze, tutte piene di mobili anche antichi, e degli armadi stracolmi di abiti, biancheria, cibi, conserve … “E se vieni a trovarmi – mi diceva – non ti devi preoccupare di nulla, perché da me sarai ospite d’onore, senza pensieri proprio!”.

Partì, come dicevo, lasciando in sospeso un suo eventuale ritorno perché, da quel che potevo capire, lei si aspettava certe mosse da Pasquale. Per farla breve, lei era venuta fin qua, nella grande città, per dimostrare la sua disponibilità, e ora toccava a lui fare una contromossa. “Giusto? Tengo ragione o no?”

“Mah, non so, dipende da cosa ti aspetti …”, ma, manco a dirlo, era difficile capire esattamente cosa lei si aspettasse.

Una cosa era certa: da quando era arrivata Assuntina, Pasquale era profondamente cambiato, per lo meno come condòmino. Da anni quel tipo, noto per la sua violenza, si rifiutava categoricamente di pagare le spese condominiali, e a nulla valevano le proteste o le raccomandate con minacce di rappresaglie legali inviategli dall’amministratore. Non c’era nulla da fare: non pagava.

Quando lo incontravo per le scale, non salutava e non concedeva nemmeno uno sguardo. In compenso, essendo mio dirimpettaio, avevo potuto essere testimone di tante scenate violente, veri e propri psicodrammi i cui interpreti principali erano l’alcool che lo inebetiva e che ne faceva emergere la parte più nera e violenta, e l’odio che serpeggiava da anni tra i membri della sua sfortunata famiglia. Un odio che, come il famoso serpente che si morde la coda, si nutriva di odio, amplificandosi di ora in ora ed esplodendo in crisi sempre più frequenti e violente. Scenate che andavano dalle botte alla moglie (non a caso se ne era andata), che sentivo urlare ma che non vidi mai una sola volta, ai pestaggi col figlio ventenne, che cercava di difendere la madre.

Si narrava che una volta, in piena ubriacatura, Pasquale avesse gettato il cane del figlio dalla finestra, dal terzo piano. Non mi era difficile crederlo perché, una notte, mi svegliai a causa di rumori violenti: rientrato a casa, Pasquale aveva trovato la porta di casa sbarrata e moglie e figli, dall’interno, non gli volevano aprire perché era completamente ubriaco. Lui prese a dare spallate alla porta urlando di aprire, porco d…!, di aprire o li avrebbe ammazzati tutti. Ma loro non aprivano e la porta, per quanto sgangherata, resistette. Così Pasquale non trovò di meglio da fare che entrare in una stanza disabitata attigua ma non comunicante col suo appartamento, scardinandone porte e finestre, che mise poi nel corridoio comune dove rimasero per settimane.

Dopo di ché, novello Orlando Furioso, entrò nella stanza e, così com’era, senza porta né finestre (era inverno) ci si mise a dormire sdraiato per terra.

La triste saga di questi poveretti finì il giorno in cui il figlio morì per un incidente. Forse perché consapevole di non avere più nessuno a proteggerla, lo stesso giorno del funerale la moglie prese le sue cose e se ne scappò con la figlia. E da quel giorno Pasquale continuò solitario il suo sentiero di abbrutimento, finché non comparve Assuntina.

Già: difficile immaginare uno come Pasquale con ‘la fantasia’ di qualcuno. Difficile immaginarlo ventenne e innamorato. Difficile capire come facesse Assuntina a viverci accanto. Ma tant’è…

Da quell’appartamento non giungevano più grida e pianti, perciò non mi preoccupavo più di tanto. E comunque, non appena raggiunta una certa confidenza, avevo messo in guardia Assuntina raccontandole i fatti di cui ero stata testimone. Ma lei faceva spallucce, sorrideva, non dava peso. Al massimo faceva qualche confuso commento sulla moglie.

Ma d’altra parte forse aveva ragione lei perché quest’uomo che, come dicevo, rifiutava di pagare le spese condominiali da anni e teneva lontani i condòmini con la sola fama di uomo violento, in seguito a un solo intervento di Assuntina, da me sollecitata, si era messo d’accordo con l’amministratore per coprire il suo debito condominiale. Un vero e proprio miracolo, ai miei occhi: la buona e la bestia!

A questo seguirono altri miracoli, come dei “Buongiorno” di risposta bofonchiati a mezza voce da Pasquale quando lo incrociavo per le scale e, in seguito, persino dei mezzi sorrisi. Forse si fidava di me, sapendo che Assuntina mi era amica (“Come una sorella!” ci teneva ogni volta a ribadirmi lei, sottolineando che il nostro legame era tanto forte quanto uno di sangue, degno di totale e reciproca fiducia).

Comunque sia, Assuntina partì, dichiarando che non sapeva se sarebbe tornata, come fece tutte le volte che sarebbe ripartita nei cinque anni successivi.

Per un motivo o per l’altro, infatti, Assuntina tornava, si fermava per qualche tempo (settimane o mesi) e poi ripartiva in seguito a litigi o esasperazione, dichiarando che ora sarebbe toccato a lui andare in paese. Una volta per una visita di controllo dal famoso ‘professore del fegato’, un’altra per questioni burocratiche, ma Assuntina tornava sempre e, quando se ne stava via per un po’, mi telefonava chiedendomi notizie di Pasquale, che faceva, come stava, se portava altre donne in casa, eccetera. Per un po’ resisteva e poi, inevitabilmente, tornava. Aggiungendo, di volta in volta, qualche nuovo particolare alla saga della sua vita.

Dopo un paio d’anni dal nostro primo incontro, ogni particolare della turpe truffa di cui i due fidanzatini erano stati fatti oggetto nel paesino d’origine mi fu finalmente chiaro. Rampollo di famiglia dai ricchi possedimenti, Pasquale si era fidanzato con questa ragazzina della porta accanto. Ma lei non era ben vista dalla famiglia di lui, perché nullatenente. Per questo motivo, alcuni familiari ordirono una tresca infame cercando dapprima di far innamorare Pasquale di una sua cugina (di primo grado! a rischio di incesto! “Manco le bestie!”, sottolineava Assuntina) più vecchia di lui di qualche anno (fatto, questo, già di per sé scandaloso e sufficiente a invalidare un’unione tra uomo e donna!, a detta di Assuntina), e poi mettendo in atto un tranello in cui Pasquale cascò, trascinato dalla focosità giovanile. Dopo una festa, nel corso della quale tutti avevano bevuto un po’, cugino e cugina furono, infatti, chiusi a chiave nella stessa stanza e ‘accidentalmente’ scoperti dalla di lei sorella che denunciò il fatto costringendo il giovane a ricucire il disonore di cui la cugina era stata fatta oggetto tramite un fidanzamento scopo matrimonio. (continua)

 

di Maddalena Gregori

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