La farfalla – I

 

Il lembo di un mantello che svolazza. Nero su nero. Ali di falena che sbattono sul viso. Un lamento lontano, che s’avvicina, si fa gemito, e poi pianto. L’angoscia sale. Il cuore batte al ritmo concitato di quelle ali… Nero su nero.

Filippo si sollevò a sedere di scatto sul letto, la fronte bagnata da un velo di sudore, le braccia tremanti che lo sorreggevano a stento.

Ancora una volta quel sogno. Ancora una volta una notte davanti a sé da lasciar trascorrere nella dolorosa spossatezza degli insonni.

La sveglia segnava le tre. L’angolo retto disegnato dalle lancette gli provocò una fitta al cuore. Si sdraiò lentamente, si accovacciò nel calore accogliente della nicchia scavata dal suo corpo tra materasso e coperte, pregando mentalmente di riprendere sonno.

Era così stanco… così stanco. Così stanco che, pensò, non poteva che riaddormentarsi. Chiuse gli occhi, ma il nero della notte si mise a sfarfallare concitato nella sua mente.

Innervosito, si girò dall’altra parte, con un profondo sospiro. Di nuovo la stanchezza lo avvolse come un bozzolo e di nuovo lui provò la meravigliosa sensazione di perdersi nel nulla… dormire… svanire… morire… sognare forse… “e proprio qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte tutti i sogni che possono giungere quando ci saremo liberati dalle ambasce della vita…”. Come continuava? “… dalle ambasce di questa vita mortale…”. Niente, non riusciva a ricordare.

Si girò sbuffando a pancia in giù, tirandosi la coperta fin sopra la testa. “Morire per dormire. Dormire e sognare, forse. E proprio qui è l’ostacolo… dalle ambasce di questa vita mortale noi dovremmo…”. Basta!

Con un gesto dall’enfasi eccessiva, lanciò le coperte da un lato e si gettò fuori dal letto. Andò alla libreria e afferrò l’Amleto, ma per quanto sfogliasse non riusciva a trovare il famoso monologo: era in centro? O all’inizio dell’opera? Forse più verso la fine…

Innervosito, ripose il libro e andò ad accasciarsi sul divano del salotto. Sentiva la sommità del capo pesante, come se in quel punto il cranio contenesse una pietra. Si mise a sfregare la testa con entrambe le mani, poi il viso, gli occhi lacrimosi… Quella rude carezza gli diede un po’ di sollievo, ma sapeva che sarebbe durato poco. Avrebbe reclinato la testa all’indietro, si sarebbe lasciato avvolgere dallo stordimento senza mai riuscire a prendere veramente sonno. Ormai conosceva tutti gli illusori stratagemmi degli insonni. E ne conosceva tutti i fallimenti.

Per un bel po’ rimase lì seduto lasciando ciondolare il capo, a destra, a sinistra, in avanti, per, ogni volta, risollevarsi di scatto, in un brusco risveglio accompagnato dalla penosa sensazione di stanchezza senza speranza di riposo. Poi, con un profondo sospiro di rassegnazione afferrò il telecomando, accese la televisione e lasciò che il resto della notte trascorresse scandita dai baluginii azzurrognoli.

Poco prima dell’alba aprì penosamente gli occhi; era semiriverso sul divano, col corpo completamente attraversato da brividi di freddo. Non ricordava quando si fosse appisolato. Forse un’ora, o forse solo pochi minuti. Comunque fosse, si sentiva esausto.

Si alzò stancamente e tornò a letto. Le coperte ormai gelide poco a poco si intiepidirono e lo riscaldarono. Rimase lì a guardare la luce dell’aurora farsi sempre più chiara, ascoltò il coro degli uccelli, l’allegria insana dei loro cinguettii.

Quando finalmente la sveglia risuonò, si alzò grato e si lasciò trascinare dall’onda opaca delle cose da fare: doccia, barba, caffè, ufficio.

Sulla soglia di casa si bloccò all’improvviso, un senso di vuoto, qualcosa di cui sentì la mancanza. Si girò lento, il cuore colmo di speranza, la mente di amara disillusione: “Lisa…?” mormorò piano. Ma nessuna voce rispose “Sì caro?…”, nessuna sagoma si stagliò in fondo al corridoio, nessuna bocca si posò sulle sue guance per il saluto del mattino.

A capo chino, con le spalle ricurve, chiuse la porta dietro di sé e il clac secco gli rimbombò dentro, il cuore omise un battito, un’ombra oscura frullò veloce ai lati degli occhi. Nella cassetta postale alcune lettere, opuscoli pubblicitari… Infilò tutto nella ventiquattrore e si avviò verso l’ufficio.

Come ogni giorno, da quando soffriva di quella insonnia senza requie, si trovò ad avanzare lungo la strada immerso nella liquida confusione di una mente stremata, tra sensazioni e pensieri che si intrecciavano l’un l’altro in nessi insensati e paradossali, come in un sogno permanente. Si scopriva ad osservare stralunato le cose più banali che si alteravano, davanti a lui, fino a prendere i contorni dell’assurdo. Come un viso di donna dal trucco un po’ troppo pesante, che lentamente mutava in un ammasso di colori che pian piano inondavano tutto il viso, trasformandolo in un informe garbuglio.

Tutto avveniva davanti ai suoi occhi senza provocargli reazioni. Di quando in quando, però, alcuni dettagli insignificanti lo scuotevano, scatenando in lui ansie inspiegabili.

Come l’imboccatura dell’ascensore, che si spalancò davanti a lui con un sibilo maligno, ostentando l’esiguità del cubicolo in cui avrebbe dovuto infilarsi. Con un sospiro rassegnato si diresse verso le scale.

Da mesi non riusciva a prendere l’ascensore, e ogni mattina preferiva farsi a piedi i sette piani necessari a raggiungere l’ufficio. Le ultime volte che aveva provato a prendere l’ascensore si era sentito invadere da un’oscurità cupa e intensa, un’ombra nera che lenta invadeva il suo campo visivo partendo dagli angoli degli occhi e scendendo poi come una cappa asfissiante a paralizzargli l’intero corpo. E da qualche tempo alla claustrofobia si era aggiunto il terrore per il tram e per il treno. L’ineluttabile procedere parallelo dei binari, quelle due linee oscure e aguzze che perforavano lo spazio fino a congiungersi verso l’infinito, gli procuravano un terrore profondo e allo stesso tempo lo attraevano, come un maleficio a cui non poteva sottrarsi; si sentiva attratto e trascinato verso il punto finale in cui le due linee si congiungevano, a formare una punta acuminata capace di straziare le carni, di dilaniare il corpo. Mentre aspettava l’arrivo del tram doveva fare attenzione a evitare che il suo sguardo incrociasse i binari, per non subirne l’atroce malìa. Perciò di solito se ne stava di spalle, osservando le vetrine dei negozi posti sull’altro lato della strada. E se per caso, sedotto dallo sferragliare stridente della carrozza in arrivo, si girava di scatto a osservarla e l’occhio incrociava le due linee nere, una vertigine lo coglieva e si sentiva scagliato verso i binari, come un pezzo di ferro attratto da un magnete. Una volta salito sul tram il problema era risolto, purché se ne stesse nella parte centrale della carrozza, fissando il vuoto davanti a sé. L’importante era evitare di guardare lo scorrere esterno dei binari.

Era così faticosa, quella lotta contro la forza d’attrazione delle rotaie, che da settimane preferiva percorrere a piedi il tragitto tra casa e ufficio. Un tratto di strada tutto sommato breve, che però, aggiunto alla straziante scalata fino al settimo piano, lo sfiniva.

‘Strano’, pensò quella mattina una volta giunto nel suo ufficio ‘da quassù non mi fanno effetto’. Dalla finestra accanto alla sua scrivania poteva godere di un esteso paesaggio cittadino e da quell’altezza, notò, la doppia linea nera dei binari del tram che correva nella via sottostante perdeva la sua natura spietata e riprendeva l’aspetto di due semplici righe nere affiancate sul grigio dell’asfalto.

“Sei in ritardo…!” gli sussurrò con sguardo di severa riprovazione il caposettore.

“…le scale…” sussurrò lui per scusarsi. Ma il capo era già almeno a dieci passi da lui, la larga schiena avvolta dalle bianche pieghe della camicia. Sempre più larga, fino a passare a stento tra le file di archivi che scandivano l’open-space dell’ufficio. Così larga e pesante da sbilanciare l’andatura dell’uomo, fino a farlo sbattere contro a una fila di archivi, e poi di rimbalzo contro quella opposta, e poi di rimbalzo, come la pallina di un flipper: la larga schiena sbattuta qua e là, da archivio ad archivio, alla fine venne ingoiata dalla porta dell’ufficio del capo, l’unico con il lusso della privacy offerta da pareti in cartongesso.

Filippo scacciò quella strana allucinazione strofinandosi la testa con entrambe le mani. La sommità del capo pesava come un macigno. Sedette con un tuffo pesante sulla sedia che scivolò sulle rotelle andando a sbattere contro la scrivania. Rimase lì per un po’, con la testa tra le mani e un sonno malato che gli invadeva la mente.

“Caffè?” “Sì, dai! Non sono ancora del tutto sveglio!”.

Le voci dei colleghi provenienti dai cubicoli vicini lo fecero riprendere. Di nuovo si strofinò rapidamente il volto e cominciò a studiare le pratiche da evadere. Con metodo, si tuffò in quel lavoro di routine, così semplice da occupargli solo metà dell’attenzione. L’altra metà poteva metterla a riposo, inseguendo le stralunate fantasie che gli si affacciavano improvvise alla mente trascinandolo in un mondo delirante e folle.

La stanchezza e quegli strani sogni a occhi aperti lo opprimevano, ma aveva imparato a governarli, lasciandoli scorrere liberamente quando poteva permetterselo e sopprimendoli quando invece doveva impegnarsi in qualcosa che richiedeva tutta la sua concentrazione. All’esterno, poco o nulla traspariva delle assurde costruzioni di quel mondo onirico.

Il suo aspetto, però, era cambiato, e non poteva fare nulla per mascherarlo: aveva sempre delle terribili ombre scure sotto gli occhi e uno sguardo sperso e opaco. La pelle era giallastra e così sottile, come di carta velina. A volte rimaneva sorpreso del fatto che non si strappasse tutta quando si strofinava la faccia.

Da qualche tempo, tra l’altro, si rendeva conto che gli altri si dimostravano infastiditi dal suo aspetto. In particolare il suo caposettore: gli capitava spesso di coglierne lo sguardo contrariato, quei piccoli gesti di stizza con cui accompagnava le parole che gli rivolgeva, il serrarsi delle mascelle quando ne incrociava lo sguardo. Più volte il capo lo aveva invitato ad andare da un medico per farsi curare. “Ma io non sto male” gli rispondeva Filippo, e queste parole parevano avere il potere di far spazientire ancora di più il capo, che serrava le mascelle, batteva con stizza la mano sul tavolo e si girava senza dire altro, allontanandosi tra vapori di rabbia.

A volte erano i colleghi a fargli notare che il suo aspetto non era ‘normale’. Chi gli chiedeva se stava male, chi attaccava bottone parlando del più e del meno, ma scrutandolo di soppiatto. Più spesso, invece, a Filippo capitava di cogliere le occhiate di sguincio che gli venivano rivolte da colleghi che bisbigliavano tra loro con aria sospetta.

Ma la cosa lo toccava poco. Il perenne intontimento provocato dall’insonnia lo avvolgeva come un bozzolo, proteggendolo dagli aguzzi spigoli dei conflitti relazionali. Quelle occhiate, quei gesti di stizza gli rimbalzavano addosso. E quella mattina il bozzolo era particolarmente spesso. Il sasso sulla sommità del suo capo premeva come mai prima.

Seduto stancamente alla scrivania, Filippo aprì la valigetta cercando una bustina di analgesico e adocchiò le missive che vi aveva frettolosamente infilato uscendo di casa. Mentre scorreva velocemente il tutto, gettando direttamente gli opuscoli pubblicitari nel cestino, una busta attrasse il suo sguardo: “… Studio legale…”

La aprì con cautela. Conosceva quell’avvocato e già poteva immaginare di cosa… “Istanza di separazione.

Oggetto: proposta per separazione consensuale avviata dalla sig.a Annalisa…”

Così lei lo aveva fatto per davvero! Voleva divorziare…

Filippo chiuse di scatto la lettera e la ripose nella busta. Sentì una mano serrargli il cuore, un dolore acuto sul lato sinistro del petto. L’aria non entrava nei polmoni, si sentiva soffocare. Allontanò la sedia dalla scrivania e si piegò in avanti, il torace poggiato sulle gambe, il viso tra le ginocchia. L’aria entrava a fatica nei polmoni, emettendo un fischio rauco. Stava per morire, lo sentiva. Intorno a sé udiva un vociare confuso, ma lui non ci faceva caso, tutto concentrato com’era a sopravvivere e a far entrare dell’aria nei polmoni.

Sentì qualcuno che gli toccava la schiena, una voce che reclamava un’ambulanza. Il fiato stava tornando, ma sempre a fatica. Aveva paura di rialzarsi a sedere normalmente, temeva che la crisi tornasse, perciò rimase lì, in quella posizione scomoda ma protetta, in cui si sentiva al sicuro. Pian piano tornò anche l’udito, sentiva i commenti dei colleghi, chi arrivava in quel momento e chiedeva cosa fosse successo, chi era lì da un po’ e commentava: “Non so, ho sentito che ansimava forte e l’ho trovato così…”  “Bisognerà chiamare un medico…” “Già fatto, dovrebbe arrivare un’ambulanza…”

Filippo ascoltava e sperava che si stancassero di stare lì tutti intorno a lui, ma lo spesso muro di persone che lo circondava si aprì solo all’arrivo dei paramedici. Venne fatto adagiare su una barella. Una rapida auscultazione del petto, un “Che si sente?” e subito venne portato via.

Uscire dall’ufficio fu una liberazione, sfuggire agli sguardi curiosi dei colleghi, a quello corrucciato del capo, alla curiosità delle persone che stazionavano nella hall del palazzo. Solo durante il tragitto in ambulanza si rese conto che nella mano stringeva ancora la lettera dell’avvocato della moglie.

E così Lisa l’aveva fatto… per davvero. (continua)

 

di Maddalena Gregori

4 Risposte a “La farfalla – I”

  1. Maddalena, buon giorno. Rileggo tutto dal principio perché son passati mesi dall’ultima volta. Intanto faccio una prova commento, speriamo funzioni.

  2. Mi ci sono messo a leggere questa storia, finalmente.
    Insonnia, ho avuto anch’io i miei periodi, brevi, per fortuna. Insonnia da mancanza della persona amata. Ma era vero amore? e perché l’ha lasciato? Colpa di… e se non ci fosse nessuna colpa? A volte le storie finiscono, sembrava che, e invece…
    Però, povero Filippo! Insonnia, stanchezza, pelle gialla, ansia, infarto?
    Passo subito alla seconda parte, speriamo che non finisca malamente, se ne sentono tante di storiacce.

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