La farfalla – II

 

(continua) Tornò con la mente all’ultima volta che si erano visti, lei era uscita di casa sbattendo la porta: “Non ce la faccio più!” gli aveva sussurrato con furia, gli occhi colmi di lacrime.

Lui era rimasto lì, sprofondato in poltrona, senza riuscire a trovare nella propria mente una risposta alle domande che lei gli aveva fatto. Da mesi non riuscivano più a comunicare, da mesi lui era cambiato: cos’era successo? C’era un’altra? Forse lui non l’amava più!

Lui faceva di no con la testa, no, no, e poi ancora no. Ma questo non le bastava, anzi. La faceva infuriare ancora di più: “E allora cosa? Cosa non mi dici? Tu stai male, non te ne rendi conto? Non mangi più, non dormi più, e vuoi farmi credere che stai bene, che è tutto normale! Cosa è successo? Perché non me lo dici?”

E lui se ne stava lì seduto a testa bassa, sprofondato in una poltrona che si era fatta larga, in quei mesi… O forse lui si era ristretto… Stava lì a capo chino e scuoteva la testa: no, no, no, no… Però lui sapeva che era vero, che qualcosa era successo, ma non riusciva a capire cosa. Un’ansia profonda, un dolore nel petto, e quella incapacità a reggere lo sguardo di lei.

“Basta!” Sussurrava lei. “Se continui così sappi che è finita, perché io non ce la faccio a vivere accanto a un uomo che non mi ama più, che non mi parla più. Forse tu stai impazzendo, ma io non ho certo intenzione di impazzire accanto a te… Se solo tu mi dicessi, mi spiegassi cosa posso fare per aiutarti! Ma così no! Così non ce la faccio!”

E se ne era andata, aveva sibilato la sua rabbia e lo aveva lasciato lì solo, affondato nella poltrona fin quasi a scomparire. E lui avrebbe voluto davvero scomparire, in quel momento, avrebbe voluto che quella poltrona lo ingoiasse. Un velo di freddo era calato sulla sua testa e uno sfarfallìo di ali notturne aveva avvolto il suo campo visivo. Si era alzato solo quando la sera era calata, l’intero appartamento era immerso nell’oscurità e nel freddo della notte incipiente. Aveva acceso il riscaldamento e si era gettato sul letto, coperto da un plaid di fortuna. Ma non aveva dormito, no. Neanche quella volta ci era riuscito.

 

All’ospedale gli fecero gli esami di prammatica, gli chiesero se fosse accaduto qualcosa di particolare prima della crisi, che poteva averla scatenata, e lui rispose di no, infilandosi la lettera nella tasca dei pantaloni.

“Lei è sotto peso” gli disse il medico mentre esaminava la sua cartella “C’è qualche motivo, che lei sappia?”

“Non ho molta fame, ultimamente… Nausea” rispose Filippo.

“Ah, beh… Ha fatto qualche esame medico per capire a cosa è dovuta la sua inappetenza? Per lo meno per capire se è a causa di qualche problema fisico.”

“No… ma non mi sento male… anzi…”

“Comunque non va bene. Ora le prescriverò alcuni esami clinici e, se dovessero dare esito negativo, le indicherò anche un neurologo a cui potrà rivolgersi per capire se c’è qualcosa di più specifico.”

“Ma cosa ho avuto?”

“Un attacco di panico, direi. Dagli esami eseguiti non è emerso nulla al cuore. Non sembra neanche asma. Se dovesse ricapitarle a breve un altro attacco, faccia presente il ricovero di oggi e si approfondiranno gli esami. A mio parere, comunque, è un semplice attacco di panico. Se vuole può andare subito a casa: le compilo il certificato medico per l’ufficio.” e ciò detto il dottore si alzò, porse a Filippo la mano da stringere e il certificato e se ne andò.

A lui non rimase che uscire, cercare un taxi e farsi portare a casa.

Era frastornato. Non riusciva a capire cosa gli stesse accadendo: da mesi la sua vita si stava lentamente sgretolando, cadendo a pezzi. L’insonnia, la stanchezza e quel silenzio assordante che non riusciva a rompere e che si frapponeva come un muro tra lui e gli altri. Poco alla volta aveva visto allontanarsi le persone che aveva più care. Gli amici dapprima avevano smesso di cercarlo, poi erano arrivati persino a negarsi. Qualcuno aveva provato a parlargli, ma lui non sapeva che dire e quel silenzio duro come un sasso aveva distrutto quel poco di sollecitudine che ancora era rimasta a nutrire un rapporto di amicizia. O un amore. Era così che aveva perso Lisa.

Lui lo sapeva, se ne era accorto, ma non aveva potuto farci nulla, non era riuscito a impedire che la frana lentamente sgretolasse la sua vita, la trascinasse verso il baratro.

Prima i conoscenti, poi gli amici, poi Lisa e poi il suo corpo, che gli era sempre più alieno e distante, e poi il lavoro, che vedeva sfuggirgli di tra le dita. Capiva che anche il lavoro sarebbe presto sparito… e non sapeva che farci.

Giunto a casa si gettò sul letto e si coprì col plaid, avvolgendocisi come in un bozzolo. La stanchezza di quella giornata sbagliata pesava come un macigno. Chiuse gli occhi grato e si abbandonò al sonno.

Ai lati del viso il lembo di un mantello nero che sventola e gli sfiora gli zigomi. Il mantello sbatte, mosso da un vento inconsulto, si allontana e si avvicina al ritmo di un battito di ali leggere come polvere. Tra un battito e l’altro emerge la schiena di una falena testa di morto: un teschio stilizzato che sogghigna e spicca, bianco su nero. Sogghigna e geme, geme piano come un bambino e chiama “mamma, mamma, mamma…”.

Filippo si svegliò di scatto. Il sole era ancora alto. Intontito, guardò la sveglia sul comodino: aveva dormito un quarto d’ora. Si accasciò sul letto in posizione fetale, raccolto dentro al plaid caldo. Si sentiva così stanco!

Tornò con la mente alla lettera dell’avvocato di Lisa. Tornò al senso di ineluttabilità che da troppo tempo sentiva pesare sulla propria vita. Sapeva che sarebbe successo. E sapeva anche che non poteva farci nulla. La vita gli stava sfuggendo di mano, come quando cerchi di trattenere un pugno di sabbia, e quella invece sfugge tra gli interstizi della mano, fino a lasciarla vuota. Un pugno chiuso a stringere il vuoto. Quella vita non era più sua, ma sotto il controllo di una forza superiore che gliela stava lentamente sbriciolando e che ne disperdeva i brandelli nel vuoto.

Aveva letto i segni della disfatta nello sguardo dei suoi amici, nello loro espressioni stupite e ferite. Li aveva letti nello sguardo addolorato prima e poi furioso di Lisa. Lo leggeva nelle espressioni stizzite del caposettore… Si tirò il plaid sulla testa, ma quel gesto non bastò a placare i pensieri che si inseguivano frenetici. Si strinse il capo fra le mani sfregando con forza, nel suo solito gesto di sollievo. Quella brusca carezza lo acquietò per un po’.

Eppure non era stato sempre così. C’era stato un periodo della sua vita in cui tutti i tasselli erano al loro posto: un lavoro per cui impegnarsi, in cui far emergere le proprie migliori qualità; un amore capace di riempirgli il cuore, che gli offriva un rifugio sicuro; e poi notti piene di sonno e di sogni; e il suo corpo, una macchina perfetta a cui poteva chiedere persino sforzi atletici non indifferenti. C’era stato un periodo della sua vita in cui lui si sentiva … anzi no, non ci si può “sentire normali”, perché puoi solo sentire che le cose non funzionano più. Quando lo sguardo degli altri segna il confine tra te e loro, quando gli altri ti appaiono come marziani e le loro parole, i loro gesti, si fanno intraducibili, incomprensibili. È solo quando non sei più come gli altri, solo quando si apre quell’abisso invisibile tra te e loro, che ti accorgi di non essere “normale”.

Bene, c’era stato un periodo, dunque, in cui lui era normale, felicemente inconsapevole di esserlo… e ora non lo era più. Lui non era più normale, era diverso, e questa sua diversità dipendeva da un semplice cambio di prospettiva. Era come se, all’improvviso, lui avesse capito il senso nascosto di ogni cosa, ovvero che non c’è alcun senso.

Gli pareva di essere l’unico a capire veramente quale fosse l’essenza nascosta della vita, un mistero che gli altri parevano non riuscire a cogliere. Come potevano non vedere, come potevano non sentire tutto ciò che a lui appariva tanto cristallino? La vacuità di certe azioni quotidiane, l’assurdità di tutte quelle parole che ogni giorno la gente si scambia. Tutti quei blabla privi di senso: a che pro sprecare il fiato?

Uno squillo di telefono irruppe nella baraonda di pensieri facendoli precipitare nel nulla. Si tese stancamente verso l’apparecchio appoggiato sul comodino afferrando la cornetta: “Sì?”

“Accidenti, stai veramente male!” Una voce maschile, vivace…

“Chi parla?” chiese Filippo.

“Sono io, Alberto… Ti ricordi?… Il tuo collega…” il tono tra lo stupito e il preoccupato.

“Certo che ricordo” rispose Filippo alzandosi a sedere per ridare alla propria voce un tono meno fiacco. “Stavo pisolando un attimo… Sono tornato da poco dall’ospedale…”

“Che ti hanno detto? Cos’hai?” incalzò il sollecito Alberto.

“Mah… niente di che. Un attacco di panico, dicono. Però se mi sento di nuovo male mi faranno degli esami più approfonditi…”

“Assurdo! Quanto devi star male perché ti facciano degli esami approfonditi? Devi farti venire un colpo perché si decidano a capire se stai rischiando di morire? Che assurdità! Dovresti denunciarli per incuria…” il tono di Alberto era sempre più alterato. Alle sue spalle si sentivano commenti sussurrati.

“Bah… non credo mi avrebbero lasciato venire a casa se…” provò a intervenire Filippo, senza successo.

“Macché! Figurati!! Ma non li senti i telegiornali, quanti casi di malasanità… Si vede lontano un miglio che non stai ben… Cioè, stavi davvero male, oggi. Lo si vedeva anche senza essere dottori…”

“Me lo passi!” intimò una voce sullo sfondo. Era il capo settore: “Si faccia fare tutti gli esami che le servono, e non torni finché non hanno capito cosa ha, va bene?”

“Sissignore…” sussurrò con un filo di voce Filippo.

“Si curi! E ora torni a riposare. Tutto l’ufficio le manda gli auguri. A presto!” tu-tu-tu-tu-tu-tu-tu. Il segnale di linea interrotta gli trapanò il cranio. Riattaccò col cuore che batteva a ritmo folle.

Il tono del caposettore era di minaccia, più che di augurio, e ancora una volta Filippo si sentì scivolare la vita di tra le dita della mano. La mente gli tornò alla lettera dell’avvocato di Lisa… il divorzio. Quella parte della sua vita era già persa, ora sarebbe toccato anche al lavoro.

La sensazione di fatalistica impotenza che accompagnava le sue giornate si colorò di una rabbia repentina. “Accidenti a me!” urlò con una furia che sorprese anche lui. “È ora di finirla!” proseguì ad alta voce sollevandosi di slancio dal letto per dirigersi verso il soggiorno. Da qualche parte c’erano i documenti che gli avevano rilasciato al pronto soccorso. Ricordava che il medico gli aveva appuntato un paio di nomi con relativi numeri di telefono. Aveva bisogno di aiuto, e doveva darsi una mossa!

Compose il primo numero e si mise diligentemente in attesa.

 

Visi grigi e chiusi in se stessi incorniciavano l’impersonale sala d’aspetto dal carattere cupo e dall’aria stantìa. Di lì a pochi minuti sarebbe toccato a lui. Di cosa mai avrebbe potuto parlare? Di cosa?

La mente gli tornò al sogno che aveva agitato i pochi minuti di sonno della notte appena trascorsa… così pochi e travagliati da essere più faticosi di una semplice veglia. Di nuovo quella cappa oscura e tremolante che lo sovrastava togliendogli il respiro, di nuovo quei gemiti che gli riempivano il cuore di crepe, di nuovo l’oscurità che calava sulla sua mente, come una ghigliottina. Era stanco di quell’opprimente sensazione di ineluttabilità, il sentirsi incapace di fare alcunché.

Si mise ad osservare i visi dei presenti. Una signora dall’aria sussiegosa, impettita sulla poltroncina d’aspetto, che passava il tempo a fare “Shhh!” a un adolescente con un evidente ritardo mentale. Lui giocherellava con le riviste, col posacenere, col bordo del tavolino, con il ficus stentato posto a lato della porta d’ingresso, e la donna subito interveniva con una secca pacca sulle mani del ragazzo e un imperioso “Shhhh!”.

Allora il ragazzo, come risvegliato all’improvviso, chiudeva per un istante la bocca e deglutiva, lanciando intorno a sé brevi occhiate, come a controllare chi altri si fosse accordo della sua malefatta, poi sedeva impettito, le mani raccolte tra le ginocchia, lo sguardo a terra, la bocca socchiusa… Una pace fragile, presto interrotta da un nuovo oggetto che improvviso richiamava la sua attenzione costringendolo nuovamente a giochi subito frenati dalla contegnosa signora.

Filippo tratteneva a stento il nervosismo. Perché mai reprimere azioni assolutamente insignificanti, giochi semplici e fatti di pura curiosità? si chiedeva. La mano dalle unghie curate era sempre all’erta, posata sul grembo della signora solo per pochi istanti, e poi pronta a scattare verso il ragazzo, non appena questi cominciava a dimostrare interesse per qualcosa.

Sull’altro lato della stanza, un uomo di mezza età dall’aria stropicciata e triste osservava con sguardo spento il balletto che si svolgeva tra quei due.

A Filippo parve che la signora si prodigasse ancor di più in quegli agguati repentini e in quei sibili proprio allorché si vedeva osservata, quasi fosse uno show dedicato al proprio pubblico. Per reazione, Filippo si chinò verso il tavolino e afferrò una rivista, mettendosi a sfogliarla con gesti enfatici.

“Può entrare…” la voce della segretaria lo scosse, regalandogli la possibilità di fuggire da quel teatrino da incubo. (continua)

 

di Maddalena Gregori

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