La farfalla – III

(continua) Il volto del medico gli ispirò subito simpatia e fiducia: un sorriso tranquillo, uno sguardo pacato e luminoso, due chiarissimi occhi azzurri su un viso arato da mille rughe.

Smilzo e allampanato, il medico si sollevò dalla sedia restando seduto a mezz’aria, porgendo il braccio teso. “Prego, sieda pure” disse dopo la stretta di mano a Filippo indicandogli la sedia “… e mi dica cosa l’ha portata da me”.

Filippo gli porse il lieve fascicolo di documenti medici che gli avevano dato all’ospedale e, mentre il medico li sfogliava con la fronte aggrottata e lo sguardo concentrato, cominciò a spiegare: “Da mesi sono sempre stanco, non riesco a dormire che per pochi istanti, e vengo svegliato da incubi. Sul lavoro combino disastri e ho paura di venire licenziato” disse cercando di interpretare le espressioni del medico, che nel frattempo aveva spostato il proprio sguardo su di lui “Il mio capo è convinto che io mi droghi…” concluse con un sussurro.

“Su questo non vi è dubbio che il suo capo si sbagli.” disse vivacemente il medico con un sorriso allegro “Le analisi sono chiare: niente stupefacenti né eccesso di sostanze psicotrope nel sangue. La causa del suo malessere è sicuramente qualcos’altro”.

Un silenzio inatteso calò tra loro due. Poi la voce del medico, sollecita e gentile, lo avvolse come una calda coperta: “Vuole provare a raccontarmi cos’è successo il giorno in cui è stato ricoverato all’ospedale? È successo qualcosa che l’aveva colpita?”

“Sì… la lettera dell’avvocato di mia moglie… mi chiede il divorzio” sussurrò Filippo, la voce strozzata da un assurdo senso di vergogna.

“Capisco, quindi una notizia terribile…”

“Lei se ne è andata perché io sono cambiato, sono diventato così…” aggiunse Filippo.

“Cioè, la separazione da sua moglie è già una conseguenza di questo suo star male?”

“Sì…”

“Allora provi a ricordare: cos’è successo prima che cominciasse a sentirsi così?”

Spesse lacrime cominciarono a scorrere sul viso di Filippo. “Mi scusi… mi scusi…” balbettò sorpreso da quella assurda reazione: “Non so perché faccio così…. vede? Sono completamente andato…”

Il medico lo osservò con espressione accorata: “Provi a raccontarmi i suoi incubi. C’è qualcosa che li accomuna?”

“Sì, sempre un’ombra che mi sfiora il viso, come le ali di una farfalla… un colpo d’aria, e poi gemiti di dolore, un dolore così intenso che lo sento nel mio corpo.”

“Cioè nel sogno qualcosa la ferisce?…”

“No, qualcuno soffre, piange… non io. Ma io ci sto male… e poi mi sento così impotente… così…” i singhiozzi impedirono a Filippo di finire la frase.

“Così come…? Su, cerchi di spiegarmi…”

“… così… colpevole. Come se fosse colpa mia… come se quei gemiti… come se io li avessi provocati…” Filippo prese a singhiozzare in modo ancora più convulso.

“Su, su, ora si calmi” il medico si mise al suo fianco e gli batté le spalle con tenerezza. Con l’altra mano gli porse una scatola di fazzoletti di carta. Filippo ne estrasse rapidamente una manciata e prese a soffiarsi vigorosamente il naso.

“Mi sento un povero pazzo… non mi riconosco più” disse non appena riuscì a riprendere il controllo della voce.

“Credo, ma non sono la persona più adeguata per dirlo, che alla radice del suo male possa esserci un evento doloroso… Ma io sono solo un neurologo… posso solo farle fare qualche esame, giusto per toglierci il pensiero…”

“Intende dire che forse ho un tumore al cervello?” chiese Filippo con apprensione.

“No, no… per carità! Non ho detto questo. Intendo dire che a mio parere il suo cervello non ha nulla di ‘rotto’, se mi passa la parola. Faremo degli esami che, per esperienza, credo non riveleranno nulla al cervello. Nel frattempo si prenda cura di sé, cerchi di riposarsi… Magari le do l’indirizzo di un mio amico, un altro medico con cui potrà parlare…”

‘Un altro medico’ pensò Filippo mentre riceveva dalle mani dell’insigne neurologo il bigliettino con sopra scarabocchiati un nome e un numero di telefono ‘Un altro medico e sicuramente un altro che non capirà niente…’

“Mi raccomando” insistette il neurologo allungando la mano per la stretta di saluto finale “Telefoni a quel mio amico. Si tratta di semplici chiacchierate, che però potranno farle molto bene”.

Filippo si limitò ad annuire, stringendo con scarso vigore quella mano asciutta e forte.

Uscendo dallo studio incrociò lo sguardo del ragazzo, occhi spalancati, bocca aperta di curiosità. La sussiegosa signora invece evitava di guardarlo: dovevano averlo sentito piangere.

Quando finalmente arrivò a casa si sentiva esausto. Si lasciò cadere sul divano e meccanicamente accese la televisione. Trascorse così il resto della giornata, pregando di cadere addormentato… o almeno morto: gli sarebbe andata bene anche così…

 

Il camice di un medico svolazza vicino al viso, come un’ombra. Al di là del camice una luce accecante che si avvicina, si avvicina sempre più, si fa enorme fino a inghiottirlo. Uno stridio doloroso, come l’urlo di un rapace. La farfalla sbatte lenta le ali, sempre più lenta, e geme piangendo come un bambino “Mamma, mamma…” Però non è la voce di un bimbo, ma di un uomo adulto… “Aiutami, mamma” Il cuore batte e un odore acre, di metallo che sfrega su metallo, invade le narici. Ma non si sveglia, stavolta. Filippo vuole vedere chi piange… ma ora è buio, la luce è andata oltre… troppo buio per vedere chi piange “Aiutami, mamma, aiutami…”

“Chi sei? Chi sei?!?!?” ma il buio avanza, mille ombre affiancano Filippo, lo spingono via, lontano di lì, si accalcano una sull’altra, lo urtano e lo affondano verso il baratro. Lui precipita e apre gli occhi.

Al risveglio, Filippo sentì quell’odore che ancora gli invadeva le narici, un odore non nuovo. Cercò di capire cosa gli ricordasse. Chiuse gli occhi e lasciando che nel cervello rotolassero liberamente immagini su immagini, ma per quanti sforzi facesse non approdava da nessuna parte e, pian piano, i pensieri andarono alla deriva verso una confusione senza direzione. Allora cercò di riaggrapparsi a quella sensazione, richiamò alla memoria l’odore e di nuovo inseguì una strada, un percorso nella memoria, un aggancio qualunque. Ma sempre per ricadere in quella confusione senza nesso. E dopo un po’ anche la sensazione odorifera se ne andò del tutto.

Si costrinse allora ad aprire gli occhi e a sollevarsi dal divano. Fuori non era ancora buio. La televisione continuava a rovesciare nella stanza suoni e immagini più inconsistenti dei suoi pensieri. Si alzò per andare in cucina, dove aprì il frigorifero: desolante. Stancamente si trascinò verso la dispensa, da dove trasse una scatoletta di tonno e una di fagioli. Era dal giorno prima che non toccava cibo. Prese una ciotola e vi versò il contenuto delle due scatolette. Aggiunse del sale e dell’olio e sedette al tavolino che stava accostato al muro del minuscolo cucinotto. Senza alcun appetito cominciò a pescare dalla ciotola con un cucchiaio, ficcandosi in bocca il contenuto di malavoglia. Masticava metodicamente, a lungo, senza alcuna voglia di deglutire. Quando finalmente riusciva a inghiottire il boccone, traeva un lungo sospiro, come dopo uno sforzo fisico smisurato. Se ne stava lì per un po’, fissando il contenuto della ciotola come se si trattasse di qualcosa di mai visto sulla faccia della terra, e poi, con gesto rassegnato, pescava un’altra cucchiaiata.

Dopo cinque o sei bocconi, una nausea fastidiosa lo costrinse a interrompere il suo pasto. Prese un piattino dal pensile e lo pose sopra la ciotola a mo’ di coperchio e ripose il tutto nel frigorifero. Bevve un bicchier d’acqua e sciacquò con cura il bicchiere, prima di riporlo nello scolapiatti. Poi si avviò verso la camera da letto.

Rimase a lungo seduto sul letto, rigirandosi in mano il biglietto col nome e il numero di telefono dell’“amico” del neurologo, l’ennesimo insigne chissaché con cui avrebbe dovuto fare qualche chiacchierata.

Ma chiacchierare di cosa? E a che scopo, poi, per farsi consegnare un altro biglietto con scritto sopra un altro nome e numero di telefono? Rimase a lungo a sedere con la schiena appoggiata alla testiera del letto, quel biglietto tra le mani, mentre la mente si perdeva in mille rivoli di pensieri senza senso compiuto.

Poi, come sempre accadeva, finalmente scivolò in un sonno leggero come un battito d’ali. Si accasciò lento su un lato, scivolando riverso sul guanciale, col biglietto che sfuggiva dalla stretta tra pollice e indice volando a terra di fianco al letto, come una foglia d’albero in autunno.

E di nuovo quel battito d’ali oscure, alla sua destra, a oscurargli la vista, mentre a sinistra un lampo accecante gli impedisce di vedere con chiarezza. Filippo allunga le mani verso l’ombra svolazzante alla sua destra, sfiora un lembo morbido che, come una carezza crudele, scivola via e gli si nega, e il suo pugno stringe il vuoto. Uno stridio acuto gli lacera i timpani e le carni. Ed è lì che comincia il lamento “Mamma, mamma, aiuto” la voce piange, straziante voce d’uomo che si lamenta coi toni di un bambino “Mamma, mi fa male, aiuto, mamma”. E Filippo si lancia nel punto in cui la realtà si spacca, divisa tra la luce accecante a sinistra e il buio che inghiotte tutto a destra; si infila lì in mezzo, ci si lancia come su una lama pronta a lacerarlo, a dividerlo a metà. È da lì che arriva la voce, e Filippo ora vuole vedere chi piange, vuole capire. Si apre un varco tra le ombre che gli ruotano attorno e si sporge verso il baratro, precipitando verso il vuoto, verso due binari luccicanti come rasoi pronti a dilaniarlo.

Il risveglio trovò Filippo nella scomoda posizione in cui era scivolato non più di dieci minuti prima. A fatica riuscì a sollevarsi, con il fianco indolenzito che si ribellava e non voleva riprendere la posizione usuale. Era la prima volta che sognava binari. Strano… Perché i binari erano entrati nei suoi sogni? E d’un tratto ricordò l’odore del sogno precedente: l’odore che lo sorprendeva sempre quando, bambino, aspettava con mamma il treno che li avrebbe condotti, ogni estate, al mare. Il treno arrivava in stazione e si fermava con gran stridio di freni e con quell’odore acre che si rintanava in fondo alla gola del piccolo Filippo, per andarsene solo ore dopo.

Quello era l’odore dei freni di un treno! Ma cosa voleva dire?

Filippo si volse verso la sveglia: solo le undici di sera! Stancamente decise di andare a mettersi sul divano, davanti alla televisione accesa, sperando che la cosa potesse conciliargli un po’ di sonno. Ma nello scendere dal letto, un piede scivolò sul pavimento. Sotto c’era il pezzetto di carta col nome e il numero di telefono che gli aveva fornito il neurologo. Filippo lo raccolse e andò a posarlo sotto l’apparecchio telefonico. L’indomani, forse, avrebbe chiamato.

Poi, strascicando i piedi, andò a buttarsi a sghimbescio sul divano, preparandosi a una nuova notte di martirio. Accese la televisione. Quel baluginio ipnotico lo conduceva sempre a svagare il pensiero. Gli tornò in mente il sogno, quei binari taglienti, l’odore della frenata: quell’odore acre e penetrante gli serrò la gola come se proprio in quell’istante un treno avesse realmente frenato nel suo salotto. Un odore così intenso e reale che lo costrinse a correre in bagno a svuotare lo stomaco nella tazza, scosso da conati convulsi che non lo abbandonarono neanche quando non c’era ormai più niente da vomitare. Rimase lì, accasciato sul pavimento gelido di fianco alla tazza, fino a quando sentì che lo stomaco aveva ritrovato una certa stabilità. Poi si alzò a fatica. La testa gli girava per la debolezza e il sapore acido dei succhi gastrici avevano ormai coperto l’odore ripugnante del sogno. Si sciacquò la bocca ma, nel cercare di fare un gargarismo, sentì nuovamente i conati scuotere il fondo della gabba toracica. Si aggrappò ai bordi del lavandino e riuscì a placare i movimenti involontari, poi andò in cucina a prepararsi una tisana calda. Ci aggiunse del miele, per calmare quei capogiri che quasi non gli permettevano di stare in piedi. Alla fine tornò a sedere sul divano, davanti alla televisione accesa, sorseggiando con cautela il liquido caldo che gli acquietava la tensione nello stomaco.

Tornò a pensare al sogno, a quanto fosse strano che ci fossero i binari, che nella vita reale gli facevano tanta paura. Era la prima volta che li sognava. Pensò anche al fatto che, ora, i suoi sogni non erano più solo oscuri, immersi nel nero della notte. Ora c’era quella luce fortissima, accecante.

“Buio o luce, comunque non vedo nulla!” si trovò a commentare con fastidio ad alta voce.

 

La sua vita proseguì per molti altri giorni in quello stato di galleggiamento tra diversi stati di coscienza. O incoscienza. Poi un giorno ricevette una telefonata.

“Filippo …?” chiese una voce con tono perentorio dopo che lui aveva sollevato la cornetta.

“Sì, sono io…” rispose lui titubante.

“Sono Meletti, il capo del personale. Volevo dirle che non abbiamo ricevuto alcun certificato medico, da lei, nonostante non si presenti in ufficio da più di due settimane!” continuò severa la voce

“Sì… è vero… mi sono scordato…” ribatté Filippo con tono sottomesso.

“So che si trova in una situazione difficile: il suo caposettore mi ha raccontato dei suoi malesseri. Tuttavia lei deve capire che, se non mi manda la documentazione, lei perde i suoi diritti… Capisce?” ora la voce si era un po’ ammorbidita “Come sta ora? Si sta curando?”

Un’improvvisa frenesia colse Filippo: l’appuntamento per la tac al cervello e per l’eeg! Cominciò a frugare tra i fogli che aveva lasciato accumulare sul tavolinetto e trovò l’impegnativa. “Oggi che giorno è?” chiese frenetico pentendosi subito della domanda.

“Il 10 novembre…” rispose dubbiosa la voce “Perché?”

Accidenti, anche la figura di quello che non sa nemmeno che giorno è! Ma d’altra parte per Filippo in quel periodo era difficile ricordare persino che anno fosse. “Perché…, ecco, sì!… Perché proprio oggi ho un appuntamento per degli esami medici e poi faranno una diagnosi” concluse Filippo leggendo l’impegnativa. Accidenti, doveva prepararsi. L’appuntamento era di lì a un’ora e doveva attraversare la città!

“Bene” rispose pacata la voce “Ma lei deve comunque mandarci i certificati, anche quelli dei giorni precedenti, mi raccomando. Lo faccia subito” concluse Meletti con tono un po’ troppo condiscendente.

“Certo, certo. Sarà fatto!” biascicò rapido Filippo riattaccando la cornetta in faccia all’ufficio personale.

Corse in bagno a darsi una rapida ripulita e poi in camera a infilarsi dei vestiti puliti. Poi, cappotto, sciarpa, portafoglio e, di corsa, al volo, l’impegnativa. Insieme a quel foglio ne tirò su anche un altro, più piccolo. Si soffermò un attimo a osservarlo: il nome e il numero di telefono dello psicoterapeuta, o psichiatra, perché di quello doveva trattarsi. Se l’era scordato! Si ficcò rapidamente in tasca entrambi e si precipitò in strada. (continua)

 

di Maddalena Gregori

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