La farfalla -IV (fine)

 

(continua) Aveva poco tempo e, meccanicamente, si avviò verso la fermata della metropolitana più vicina. Da tempo non la prendeva più, e non sapeva perché. Sapeva solo che improvvisamente aveva smesso di usarla. Ma in quel momento non aveva tempo di star lì a pensare, perciò si affrettò a raggiungerla a corsette brevi e affannate.

Folate calde di aria provenienti da alcune grate salirono a riscaldargli le gambe. Era vicino. L’imbocco della metropolitana era lì di fronte a lui, e una ventata di aria lo accolse mentre, aggrappato al corrimano, si preparava a scendere. Fu come un segnale: quella folata calda, innaturale, proveniente dal basso, lo bloccò lì in cima alle scale. Gli parve di sentire delle voci, delle grida venire dal basso.

Col respiro affannato, si fermò ad ascoltare: voci senza forma chiara, mugolii sospirati che pian piano mutavano in lamenti, gemiti. “Mamma, aiutami, mamma!” gli parve di sentire. Aguzzò le orecchie: ora i lamenti gli giungevano più chiari, più netti, ora le voci… no la voce era una sola, piangeva con tono infantile “Mamma” chiamava “Mamma, mi fa male!”. Era sempre più vicina, sempre più nitida e chiara, si avvicinava: ormai la voce era ai piedi delle scale. Terrorizzato, Filippo si aggrappò al corrimano con entrambe le mani mentre le gambe gli si piegavano, incapaci di sorreggerlo.

Lo sorpresero in quella strana posizione le tre ragazze che sbucarono dal fondo delle scale di lì a pochi secondi. Giovani, allegre, con sciarpe e berrettini colorati, emersero dalla voragine ridendo e parlandosi sopra “Ma dai! E tu che gli hai detto?” “Noooo! Non ci credo! Che figura!” “Giuro! Giuuuro! Da seppellirsi per la ver…” le voci si spensero tutte insieme alla vista di Filippo che, aggrappato a quel tubo di metallo arancione e con l’espressione stralunata, pareva un ubriaco.

Le tre ragazze affrettarono il passo e lo superarono di corsa. Filippo, invece, decise che non avrebbe preso la metropolitana. Ormai aveva ben poco tempo e si volse verso la strada alla ricerca di un taxi. Fu fortunato e lo trovò rapidamente, e all’appuntamento ci arrivò con un ritardo tutto sommato accettabile.

Al rientro a casa, si gettò sul divano con tutto il cappotto. Era sfinito. Ripensò con angoscia all’episodio della metropolitana, a quelle voci. Si sentiva in trappola.

Frugò freneticamente in tasca finché non trovò il biglietto: nome e numero di telefono. Prese il telefono e chiamò, prenotando un incontro per il giorno dopo.

Poi, colto da una stanchezza incommensurabile, andò a gettarsi sul letto, dove si arrotolò dentro al plaid. Rimase lì a cullarsi nel dormiveglia per ore e quando si alzò era sera.

Un capogiro gli fece ricordare che non aveva ancora toccato cibo, così andò in cucina dove si scaldò del latte che sorseggiò accompagnandolo con alcune fette biscottate. Come al solito non aveva fame, ma riusciva comunque a mandar giù degli spuntini di quel tipo, purché non avessero l’aspetto di un pasto.

Solo quando la tazza fu vuota si rese conto che indossava ancora il cappotto. Se lo tolse, ma un brivido improvviso lo costringe ad avvolgersi in una coperta e ad accendere il riscaldamento. Trascorse così la sera e l’intera nottata. L’indomani mattina si fece una doccia e si scoprì a osservare per la prima volta il proprio corpo smagrito, che gli ricordava quello di suo padre; di quando, ormai anziano, lui doveva ad aiutarlo a fare il bagno. Filippo era nato da genitori già vecchi: il padre aveva più di cinquant’anni quando lui nacque, e la madre era una quarantunenne. Perciò a trent’anni si era trovato ad accudire un padre ultraottantenne, e una madre settantenne molto malata. I suoi erano morti alcuni anni prima, uno a pochi mesi di distanza dall’altro, e i loro ultimi anni per Filippo erano stati difficili, diviso com’era tra il lavoro, sua moglie e l’accudimento di due genitori anziani. A dire il vero Lisa lo aiutava molto e lo aveva sempre sostenuto, dimostrandosi più una figlia che una semplice nuora con loro. Ma il bagno al padre, per una questione di pudore, era un compito che toccava solo a Filippo. E lui era felice di aiutare quell’uomo che mostrava ancora segni dell’antica eleganza, nei tratti del viso come nel portamento. E il vederlo così, nudo, vulnerabile, glielo rendeva ancora più caro, quasi fosse diventato suo figlio. Gli passava la spugna sulla schiena, facendogli scivolare sopra l’acqua calda, e si stupiva nel vedere come l’intero scheletro fosse riconoscibile senza sforzo, sotto quel sottile strato di carne e pelle. A volte si sorprendeva a chiedersi se non fosse solo quell’involucro sottile a tenere insieme il corpo fragile del padre.

Ora, incrociando la propria immagine nello specchio, vedeva il fantasma di suo padre.

Non che fosse ugualmente ossuto, ma non era mai stato così magro in vita sua. Di solito gli si potevano leggere i fasci muscolari ben tesi, sotto la pelle, non le ossa.

Si asciugò rapidamente, scosso da brividi di freddo, e chiamò un taxi per andare dallo psicoterapeuta.

Stavolta dovette aspettare: lo stesso terapeuta gli aprì la porta e gli fece cenno di accomodarsi nell’accogliente ed elegante studio. “Prego” gli aveva detto indicandogli la stanza.

“Dove mi metto?” chiese Filippo di fronte alla possibilità di scegliere tra una chaise longue, una poltrona, un divanetto o una sedia.

“Dove vuole, dove sta a suo agio” rispose il terapeuta con un sorriso.

‘Che sia già un test?’ si sorprese a pensare Filippo con diffidenza. Alla fine optò per la poltroncina, che gli pareva comoda abbastanza. Non appena si fu seduto, il terapeuta si sedette su un’altra poltroncina di fronte a lui.

“Quello è il suo posto?” chiese Filippo.

“No, io mi siedo semplicemente di fronte alle persone che vengono da me. Sa, per parlare meglio” rispose quello, con espressione serena. Poi rimase lì immobile, guardandolo negli occhi.

“Io… io non so che dire” bisbigliò dopo un silenzio imbarazzato Filippo.

“Non si preoccupi, cominci semplicemente col raccontarmi perché ha deciso di venire qui” gli rispose quello.

“Beh, il neurologo da cui sono in cura mi ha dato il suo numero di telefono…” rispose Filippo, consapevole che quel gioco a rimpiattino doveva finire, prima o poi.

Il terapeuta infatti sorrise divertito: “Va bene, allora provi a dirmi perché è andato dal neurologo”

E così Filippo si trovò a raccontare, tra silenzi e reticenze, della sua inappetenza, dell’insonnia, del perpetuo stato di confusione, delle allucinazioni, e di quegli incubi, quella voce. Anche il terapeuta, come tutti gli altri, cercò di capire quando tutto fosse cominciato: gli chiese se ricordava un qualche evento che potesse essere collegato all’insorgere del malessere.

“No, niente. Non ricordo niente” rispose Filippo con tono sfiduciato. Anche stavolta un buco nell’acqua.

Proseguirono per un’ora, il terapeuta facendo domande e Filippo rispondendo in modo evasivo. Ormai anche la speranza di trovare risposte in quest’uomo era sfumata. Perciò si sottopose a quell’inutile rito con poca attenzione. Con scarsa attenzione ascoltò anche le parole di commiato del terapeuta: “Credo che dietro il suo malessere possa nascondersi un trauma che la sua mente ha poi cercato di mascherare. Forse perché un evento troppo doloroso. Purtroppo in un solo incontro non è possibile dire a quando risalga tale trauma. Avremo bisogno di più incontri”

“Va bene dottore” si trovò a rispondere Filippo con tono poco convinto.

“Comunque” concluse il medico mentre, entrambi in piedi, gli porgeva la mano “credo sia un evento accaduto in una stazione ferroviaria, o che riguarda qualcuno che aveva a che fare con quell’ambiente. Provi a pensarci su. Cerchi di ripescare ricordi su quel tema, anche antichi. E quando le viene in mente qualcosa, se lo scriva e poi me lo porti”.

‘Inutile, tutto inutile’ si trovò a pensare Filippo con un misto di rabbia e disgusto per quell’uomo che cercava solo di spremergli denaro da ora e per i prossimi dieci anni sulla base di presunti traumi infantili! Ne aveva sentite tante di storie su analisi infinite, in cui entravi perché avevi il singhiozzo e finivi col litigare con tutta la famiglia sborsando fior di quattrini ogni settimana a uno che stava lì ad ascoltarti con aria di superiorità.

Tornò a casa carico di un’energia che da tempo non provava. Potenza della rabbia! Ormai aveva capito che non poteva aspettarsi aiuto dagli altri, perciò cominciò col mettere ordine nei documenti, preparando quelli da spedire all’ufficio personale. Non voleva perdere anche il lavoro: quello sarebbe stata la sua fine!

Si sentiva sull’orlo del baratro da troppo tempo e non poteva sperare di restarci ancora a lungo senza rischiare di precipitarci dentro. Andò in cucina e si preparò un piatto di pasta al sugo, costringendosi, lentamente, a mangiarlo tutto. Ci mise un’ora, ma la finì senza sentire nausea. E riuscì anche a non vomitare.

Per un paio di ore si sentì anche libero dai soliti capogiri e dalla confusione. Si ritrovò, suo malgrado a pensare ai treni, alle stazioni, alle persone o agli eventi della sua vita in cui fossero coinvolte persone legate ai treni e al loro complesso mondo. Ma per quanto indietro cercasse di andare coi ricordi, non c’era niente che gli venisse in mente. Perciò presto archiviò l’argomento nella cartellina ‘stronzate’ e telefonò al neurologo chiedendo se avevano ricevuto i risultati degli esami fatti il giorno prima.

Poi quell’energia innaturale si placò e Filippo andò ad accucciarsi sul divano. Non riuscì a cenare ma si costrinse a ingoiare una tazza di latte con un paio di fette biscottate. Trascorse la serata e buona parte delle prime ore della notte rotolandosi nei vaneggiamenti televisivi. Infine andò a letto colto da una stanchezza invincibile.

Dietro di lui la farfalla agitava le sue ali provocando un vento caldo e soffocante che lo spingeva verso il basso e gli toglieva il respiro. Lui scivolava giù, sempre più giù, senza toccare la terra coi piedi, senza riuscire a frenare la sua corsa, sospinto da quelle due ombre oscure che si muovevano ai lati dei suoi occhi, lungo cunicoli oscuri in cui, a tratti, si accendevano luci abbaglianti. Terrorizzato lui allungava le braccia ai lati, cercando di aggrapparsi prima da un lato e poi dall’altro a figure che rapidamente apparivano e poi sparivano, persone distratte, che sbadatamente gli lanciavano sguardi vuoti e poi proseguivano, senza ascoltare le sue grida: “Mamma” chiamava rivolto a tutta quella gente “Mamma, aiutami”. E intanto quel vento caldo lo spingeva, lo soffocava, lo trascinava fino a scagliarlo, senza pietà, su due binari lucidi come rasoi, mentre un clamore stridulo gli perforava le orecchie e copriva le sue urla.

L’urlo proseguì anche dopo il suo risveglio, mentre si sollevava sudato a sedere sul letto, ansimando come un mantice. Nonostante fosse consapevole che trattava solo di un sogno, Filippo non riuscì a placare il terrore. Quella sensazione di precipitare verso la morte senza poter far nulla non lo abbandonava. E ciò che più lo angosciava era la consapevolezza di non poter impedire ciò che stava accadendo. Fare qualcosa, fare qualcosa!

Preso da una incontrollabile frenesia, Filippo si infilò la giacca e si precipitò fuori, in strada. Era l’alba, e già per via si muovevano alcune persone, ancora imbozzolate nel sonno appena lasciato. Filippo si diresse rapido verso la fermata del tram. Non sapeva bene perché, né per andare dove, ma gli pareva la cosa giusta da fare.

Sotto la pensilina tre persone: un’africana dall’aria afflitta per il freddo e due uomini. Il più basso dei due indossava un cappotto e un elegante cappello. L’altro aveva invece l’aria di un operaio di bassa manovalanza: berretto di lana, sciarpa fatta in casa tirata fin sul naso, giubbotto corto e mani affondate nelle tasche, quasi a sfondarle.

Un sibilo lontano annunciò l’arrivo del tram. Filippo si costrinse a guardarlo. Era ancora presto, e nella luce lattiginosa dell’alba il faro anteriore brillava. Avanzava rapido, diventando sempre più grande, sempre più grande e accecante.

I binari parevano voler chiamare a sé Filippo, in un abbraccio crudele. Col corpo completamente contratto, Filippo resistette a quella seduzione, trattenendo il respiro fino a quando i polmoni cominciarono a bruciargli. Le persone in attesa sotto la pensilina presero a muoversi verso i binari, con passetti lievi, lo sguardo fisso al tram come calcolando lo slancio necessario a salire, le distanze, i tempi… E poi fu un lampo.

All’improvviso un lembo del cappotto elegante di quel basso signore svolazzò verso Filippo, oscurandogli la vista: “NOOOOOOO!”

Con un balzo fu sull’uomo, lo afferrò per il bavero, lo trascinò all’indietro. Quello cadde pesantemente sul corpo di Filippo gridando “Aiuto!”. Lo stridìo dei freni, l’odore acre del metallo sfregato sul metallo. E poi le voci, mille ombre agitate che si accalcavano attorno allo strano gruppo scultoreo composto dal signore elegante, che si agitava per rimettersi in piedi e Filippo, sotto quello, immobile e aggrappato al bavero del cappotto come se ne andasse della sua vita.

“Lo lasci, lo lasci”

“Ma che fa? È pazzo?”

“Avanti, molla la presa, stronzo!”

Mille mani lo tastarono, lo afferrarono, lo sollevarono.

“Ma che, sei ubriaco a quest’ora?” era l’autista del tram a parlargli.

“L’ho salvato? Stavolta l’ho salvato? Non sta piangendo, vero?”

“Macchè salvato, delinquente! Guardi come mi ha conciato il cappotto… per non parlare del cappello, che è finito sotto al tram” urlò furibondo il signore elegante.

‘Il cappello è finito sotto al tram’ ripetè mentalmente Filippo ‘Il cappello… non l’uomo’.

E ricordò, ricordò di quella mattina in metropolitana, tanti mesi prima, in mezzo alla solita folla desolata del mattino, quando un uomo, proprio davanti a lui, si era lanciato sotto i binari, all’arrivo del treno alla stazione. Era proprio davanti a lui, ma Filippo si era incantato a guardare le luci anteriori del treno. Poi un frullo improvviso alla sua destra, il cappotto dell’uomo che si alzava nel vento sollevato dal treno e nello slancio della caduta. Filippo si era gettato verso quel movimento d’ombra, aveva sfiorato il lembo del cappotto, ma il treno, che nel frattempo stava arrivando, aveva sbattuto contro la sua mano, facendolo cadere. Lo stridìo dei freni aveva attraversato ogni suo nervo come una frustata e appena quel rumore lacerante si era placato, da sotto il treno avevano cominciato ad levarsi i lamenti dell’uomo, del suicida, che nell’agonia invocava la mamma come un bambino.

Quel giorno Filippo era uscito dalla metropolitana per non metterci mai più piede. Era arrivato al lavoro a piedi, in un ritardo spaventoso. Ma allora era ancora un impiegato modello, e nessuno lo riprese. Da quella notte non riuscì più a dormire, risvegliato ogni volta da quel frullo di ali di falena e da quel pianto di dolore che gli invadevano la mente.

“Insomma, lei me lo pagherà, quel cappello!”

L’omino lo sovrastava furibondo, pretendendo un risarcimento per il terribile affronto, e Filippo cominciò a ridere, rideva e ripeteva “Il cappello, solo il cappello”. Rideva al tiepido sole invernale che stava sorgendo, ai visi stupefatti che lo circondavano, al macigno che sentiva abbandonare la sommità della sua testa. Rideva e piangeva insieme. Finalmente libero da quelle ali di farfalla che da mesi sbattevano ai lati dei suoi occhi. E che fame, aveva! Una fame da lupi. (fine)

 

di Maddalena Gregori

6 Risposte a “La farfalla -IV (fine)”

  1. Lascerò, forse, un commento strampalato. Non mi riesce di replicare quello che scrissi mesi fa, è proprio un rifiuto mentale. Quindi, perdonami se procedo con un confronto tra due stralci di racconti differenti.
    “Da un labirinto è difficile uscire, una volta che se ne è entrati, ma così, visto dall’alto, la via d’uscita appare chiara e facile da trovare. Come ha fatto a non pensarci prima?” tratto da Linee rette spezzate
    “‘Strano’, pensò quella mattina una volta giunto nel suo ufficio ‘da quassù non mi fanno effetto’. Dalla finestra accanto alla sua scrivania poteva godere di un esteso paesaggio cittadino e da quell’altezza, notò, la doppia linea nera dei binari del tram che correva nella via sottostante perdeva la sua natura spietata e riprendeva l’aspetto di due semplici righe nere affiancate sul grigio dell’asfalto”, tratto dal primo capitolo di La farfalla.
    Osservo la profondissima differenza tra Davide di Linee rette spezzate e Filippo. A Filippo non basta cambiare prospettiva, probabilmete neanche troverebbe la forza di farlo, visto il suo livello di alienazione. Filippo non può distaccarsi dall’alto come Davide; Filippo ha bisogno di starci dentro fino al midollo e riprodurre il trauma per uscirne. Interviene il caso, sua fortuna, ad offrirgli una risoluzione.
    Mi chiedo se, come e quando, senza l’episodio finale del tutto fortuito sarebbe guarito dal suo male. Sospetto che ne sarebbe morto. E allora mi chiedo ancora: a prescindere dalla volontà (che, come per Filippo, anche se forte è fiaccata dal dolore, non è lucida) quanta parte di fortuna ci vuole nell’esistenza “anche” per risolvere un conflitto interiore?

    Racconto, come sempre, bellissimo e cinematografico. Il primo capitolo mi ha fatta impazzire di godimento perché è tutta una sequenza di suoni importanti, dal frullo d’ali al battito cardiaco, dal clap della porta al sibilo maligno dell’ascensore. Sei proprio un’artista, Maddalena. Ti sei messa pure a comporre colonne sonore! 🙂

    1. Bellissimo parallelismo tra i due racconti: il guardare dall’alto come necessario distacco da ciò che ci opprime per trovare la via d’uscita oppure semplicemente per percepire che, da una prospettiva distaccata, ciò che ci terrorizza diventa gestibile.
      Per quanto riguarda Filippo, è vero, il suo livello di, come la chiami tu, “alienazione” da se stesso gli rende impossibile trovare una via d’uscita, ma d’altro canto ha anche cominciato, dopo lungo tempo a guardare al centro del suo caos. All’inizio, come è normale, non riesce a capire, non vede nulla. Ma pian piano alcuni segni cominciano a palesarsi, dei segnali cominciano a distinguersi dallo sfondo, a diventare sintomi che indicano l’origine del male. Tu dici che l’episodio finale è fortuito e casualmente rivelatore, io invece credo che, senza il lavoro apparentemente privo di direzione che Filippo ha cominciato a fare su se stesso e il suo malessere, quell’episodio non avrebbe risolto proprio nulla, ma sarebbe stato solo l’ennesimo episodio terrificante per la sua mente confusa e dolente. Ora invece è come se, inconsapevolmente, Filippo avesse pian piano forgiato la chiave in grado di decriptare il caos che lo imprigiona.
      E non è fortuna: è capacità di accettare il dolore e di guardarlo dritto negli occhi. Fino a quando riesce a confonderlo e a sfuggirgli.
      Grazie per la bella lettura!

  2. L’afflizione e l’angoscia di Filippo, così precisamente descritte anche nei gesti più ordinari, mi hanno accompagnato sin dall’inizio. L’epilogo fortunatamente é positivo e lascia ben sperare!
    (A volte anche una sola chiacchierata può fornire “la chiave” di una questione complessa, certo dipende anche da con chi la si fa!)

    1. Ma la chiave dei nostri segreti l’abbiamo sempre noi. Gli altri possono, al massimo, suggerire dove trovarla. Grazie Gabriele

  3. Beh, è finita bene, per fortuna. Non bene per il poveretto che si è buttato sotto al treno, ma forse Filippo ce la farà, ha scoperto cosa lo opprimeva, e magari riesce anche a recuperare la moglie.
    Auguri.
    (e grazie per la bella storia, lìho letta tutta d’un fiato.)

    1. Come accennato, la storia nasce dall’esperienza avuta realmente da un mio collega milanese. Entrò stravolto in ufficio, in massiccio ritardo, senza dire nulla. Rimase seduto in silenzio senza fare niente per ore, poi, nel pomeriggio, non so come, finalmente mi disse, sussurrando, che quella mattina, davanti a lui in metropolitana uno si era buttato sotto il treno. Che aveva visto con la coda dell’occhio lo svolazzo del cappotto e che istintivamente aveva cercato di afferrare quel lembo di stoffa. Ma il treno era già arrivato e aveva travolto l’uomo. Che però non era morto e da sotto il treno lo si sentiva invocare la mamma. Molti mesi dopo ricordai quella storia e chiesi al mio collega se avesse più preso la metropolitana e lui rispose di no, abbassando lo sguardo come se se ne vergognasse. Una storia che mi rimase dentro a lungo.

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