La pecora che si credeva un cane

Sono nata in una fredda mattina di inizio primavera. Ma forse mi sembrava tanto fredda perché nessuno si era messo di fianco a me per tenermi al caldo.

Appena nata, mia madre mi aveva lasciata lì a terra sulla paglia: mi aveva annusata a lungo, ma poi aveva deciso che no, non si sarebbe presa cura di me. Io mi si ero alzata a fatica sulle zampette, avevo cercato di attaccarmi alle sue mammelle, ma lei mi scansava, mi allontanava a colpi di muso. Belavo disperata, cercando testardamente di raggiungere l’agognata mammella, ma mia madre mi allontanava, le altre pecore pure, infastidite dal fatto che mi infilavo tra le loro zampe. E così, dopo un po’, mi ero accovacciata in un angolo dell’ovile. Ero rimasta lì, raggomitolata, belando debolmente: avevo freddo, avevo fame, avevo tanto bisogno di coccole. Dopo un po’ mi ero assopita, avvolta da una pesante cappa di sconforto.

Mi svegliarono all’alba le mani rudi del pastore, che mi vide solo dopo che tutte le pecore erano uscite dall’ovile. Dapprima mi aveva scossa per capire se fossi morta, poi, visto che ero viva, mi prese sottobraccio e andò a cercare la pecora del gregge che avesse sgravato da poco. Appena mi mise vicina alla mia mamma cominciai a belare e cercai di attaccarmi alle mammelle, ma lei mi rifiutava scalciando, anche se il pastore cercava di tenerla ferma. Niente da fare: mia madre proprio non mi voleva.

Il pastore allora mi prese in braccio e si incamminò su per la collina fino a casa. Lì mi accolsero, tra grida di gioia, alcuni ragazzini e una donna.

“Non facciamoci troppe illusioni” sentii dire al pastore “È probabile che muoia, perché è troppo piccola per riuscire a sopravvivere senza il latte della madre”.

“Ma noi le daremo latte di pecora” disse la donna afferrando il secchiello di latte che il pastore aveva portato con sé, per intiepidirlo e metterlo in un biberon.

“Glielo do io!” gridò una ragazzina dall’aspetto gentile.

“Ma perché la madre l’ha rifiutata?” chiese la donna al pastore.

“Che ne so, forse perché è nera”.

“Nera come la pece!” fece eco la ragazzina.

E così, col mio primo pasto ricevetti anche il mio nome: Pece.

Vissi in quella casa, in una scatola strategicamente posta di fianco alla stufa economica e piena di morbida e calda lana, per il tempo necessario a permettermi di reggermi sulle mie gambe. Tutti i giorni, a orari regolari, la ragazzina, che chiamavano Mulin, mi dava biberon colmi di delizioso latte. Finito il biberon la ragazzina mi teneva tra le sue braccia fino a quando mi addormentavo, e io vivevo beata e serena.

Col tempo però notai che la donna si lamentava del fatto che doveva continuamente pulire e che la cucina non era una stalla. E, visto che il clima non era più così rigido e io non avevo più bisogno del biberon, la mia scatola venne posta appena fuori dalla porta di casa, dove divenne presto il luogo di riunione preferito dai tre cani della casa. All’inizio avevo un po’ paura di quei tipacci dalle fauci adorne di dentacci, ma presto apprezzai il calore che mi donavano la notte e le lunghe e affettuose leccate che mi dispensavano di giorno. E poi erano dei veri compagnoni, sempre allegri e pronti a scherzare e a giocare.

Di fianco alla casa del pastore correva una strada sterrata e una o due volte al giorno capitava che passasse di lì un’auto dalle giunture cigolanti e dal motore scatarrante. Poteva essere il contadino del podere accanto, o qualcuno dei rari personaggi che abitavano la valle, tutte persone semplici e dedite al loro faticoso lavoro quotidiano. Comunque sia, non appena si sentiva il rombo asfittico di uno di quei mezzi a motore, i cani cominciavano ad abbaiare tra di loro ripetendosi “È la macchina di Lucio” “Sì è Lucio” “È Lucio” “È Lucio” “È Lucio” “È Lucio” “È Lucio” “È Lucio”.

Certo, siccome le loro corde vocali non sono proprio adatte a pronunciare i nomi umani, a orecchie poco avvezze quel vociare poteva sembrare un latrare sguaiato, ma vi assicuro che per ogni auto il latrato era lievemente diverso, a seconda di chi stava passando.

All’inizio mi divertiva guardarli accogliere con gioia e scortare fino alla fine della proprietà i nostri visitatori. Ammiravo l’ardore, l’entusiasmo e il coraggio con cui si lanciavano verso le ruote di quei catorci a motore quasi a voler dare loro la spinta necessaria a superare l’erta che c’era poco dopo la casa del pastore. Poi, poco alla volta, imparai anche io a distinguere dal ringhio dei motori le auto delle persone che abitualmente passavano di lì e, dapprima timidamente, poi sempre con maggior impeto, imparai pure io a lanciarmi verso le ruote accompagnando il passaggio dei ferrivecchi con belati ardimentosi. Perché, sì, le corde vocali di una pecora non sono adatte a riprodurre i latrati dei cani, perciò io mi ingegnavo a ripetere “È Lucio!” (quando era Lucio a passare) a modo mio.

L’unico cambiamento fu che, quando io presi a inseguire le auto lungo la strada belando a gran voce, per un po’ accadde che i guidatori frenassero per la sorpresa, come per cercare di capire se per caso avessero le traveggole, per poi riprendere a fatica la salita scoscesa.

Fu quello il periodo in cui il pastore, d’accordo col resto della famiglia, decise che avrei dovuto tornare all’ovile a vivere coi miei simili. Per tre o quattro volte, la mattina presto, mi prese sottobraccio e mi portò all’ovile, posandomi in mezzo a una folla di pecore puzzolenti che gironzolavano a testa bassa e con un’espressione idiota stampata sul muso. Cosa potevo avere in comune con quelle bestie insulse? No no, grazie, quello non era il posto per me.

Perciò tutte le volte io fuggivo appena possibile e me ne tornavo belando a piena voce verso casa, verso i miei amici cani. A casa mi accoglievano le risate della donna, che, sentendomi belare a gran voce, si affacciava sulla veranda che ospitava la mia famiglia canina, e i latrati felici dei cani.

Ma anche l’epoca della libertà e delle corse lungo la strada finì. In poco tempo ero diventata molto più grande dei miei amici cani e così venne costruito un recinto, di fianco alla conigliera, in cui venivo rinchiusa ogni notte. Di giorno però potevo gironzolare liberamente e così continuavo le mie scorribande dal prato al bosco soprastante, dal ruscello che traversava la valle fino ai pascoli più lontani. A volte mi accompagnava quella ragazzina che per prima mi aveva nutrita, e con cui amavo giocare a “cornate”. Lei fingeva di incornarmi e io fingevo di incornarla: la cosa la divertiva tantissimo e tutto sommato mi costava poco ed era pure poco pericolosa, visto che nessuna delle due aveva le corna.

Molto spesso però passeggiavo da sola, tenendomi tuttavia ben distante dal gregge: quelle babbione proprio non le sopportavo, sempre lì a belarsi addosso, raccontando i fatti delle altre in un pettegolezzo continuo. E quello che proprio non sopportavo erano i loro sguardi di fronte al mio mantello nero. Strabuzzavano gli occhi come se si trattasse di una cosa anormale! Ma anormali erano loro, che credevano che il mondo fosse fatto in un solo modo, di un solo colore.

Ogni tanto mi attraversava una pena sottile, per quella madre che mi aveva rifiutata per il colore del mio vello, ma quando succedeva correvo belando verso casa e i cani mi correvano incontro, la voce della donna mi accoglieva con un allegro “Peceeeeeee!!!”. E allora mi sentivo a casa! Perché casa è dove ti senti amato.

Il mio recinto non lo vivevo come una prigione, ma come una protezione, dove potevo godere di una discreta privacy; e poi la posizione era strategica, visto che lo sgabuzzino di fianco alla conigliera ospitava enormi sacchi di gustoso mangime proteinico per conigli: una prelibatezza su cui mi precipitavo appena possibile! Provarono a chiudere lo sgabuzzino con un gancio, ma imparai presto ad aprirlo a colpi di muso. E così misero un catenaccio, che proprio non riuscii più a scassinare. Ma quando venivano a prendere il mangime da dare ai conigli io riuscivo a infilare il muso nei sacchi un paio di volte e a mangiarmi ampie boccate di quella delizia.

Fu poco prima dell’inverno che gli umani decisero che non potevo dormire sola e così un giorno il pastore portò una capretta. Me la misero nel recinto e tutta la famiglia rimase lì a guardare da sopra la recinzione.

“Guarda come stanno bene insieme” diceva Mulin.

“Già, Pece è tutta nera e la capretta è tutta bianca” fece eco il pastore.

“Bianco e nero come il sale e il pepe!” disse la donna.

E fu così che mi diedero il mio secondo nome: Pepe, mentre la capretta venne chiamata Sale.

Quella capretta non era tonta come le pecore del gregge, era allegra e ardimentosa, saltava come un grillo e belava con una voce armoniosa (la mia voce era potente e stentorea, ma di sicuro non armoniosa). Mi piaceva avere Sale attorno e in poco tempo costruimmo un buon rapporto. Di notte dormivamo abbracciate e di giorno uscivamo insieme a fare scorribande, a volte in compagnia di Mulin e dei cani, altre volte da sole.

Poi però al pastore venne un’altra idea: decise che dovevamo diventare entrambe madri, perciò in una bella giornata di primavera portò Sale nell’ovile delle capre e mise nel mio recinto un montone, che snobbai apertamente fin da subito, senza nemmeno tentare di nascondere il mio disgusto. Era un fesso con le bave alla bocca che stava perennemente attaccato al mio didietro. Cioè, non attaccato, perché mantenevo sempre la distanza di sicurezza di uno o due metri, ma lui era sempre dietro a me pronto a cogliere l’occasione per montarmi in ogni istante.

Lasciarono quell’idiota di maschio nel mio recinto per un paio di settimane e ogni giorno guardavano sconsolati il nostro balletto: io davanti e il beota di dietro.

Non mi davo pace: ma possibile che non fossero stati capaci di trovare uno con cui fosse possibile scambiare due idee, un paio di opinioni? Invece mi avevano messo lì un buzzurro che non aveva mai messo il muso fuori dall’ovile se non per andare ai pascoli lì intorno. E sempre col gregge!!!! Un pecorone fatto e finito!

Poi, finalmente, un giorno il pastore venne al recinto, scrollò le spalle e si portò via il maschio, con mio estremo sollievo, visto che potevo nuovamente rilassarmi e smetterla di passare le intere giornate a guardarmi le spalle. Nel recinto tornò Sale, con cui riprendemmo la vecchia routine come se nulla fosse accaduto.

Ma dopo un paio di mesi fu evidente che entrambe eravamo incinte. Sinceramente non sono mai riuscita a spiegarmi come io avessi potuto accettare di venire montata da quel pecorone insulso e privo di ogni fascino: probabilmente fu a causa della stanchezza. Oppure forse qualche attrattiva ce l’aveva pure lui.

Perché, ad essere sincera, a Sale era andata anche peggio, visto che nel recinto delle capre dove l’avevano trasferita per quelle due settimane c’era un caprone puzzolente che andava in giro a sputare per tutti i pascoli per rilasciare il suo odore di maschio. Lo si sentiva arrivare da decine di metri, quel puzzone!

Ciononostante Sale non aveva disdegnato le attenzioni del caprone e ora aspettava con serenità di dare vita al suo piccolo. Io invece non riuscivo a darmi pace: non avevo avuto una madre che mi avesse insegnato come si fa con un piccolo e non sapevo cosa aspettarmi. E se fosse nato bianco e mi avesse rifiutata in quanto nera, come aveva fatto il resto del gregge?

Sia come sia, dopo all’incirca tre mesi diedi alla luce un’agnellina candida e dolcissima. La famiglia del pastore mi osservava titubante, non sapendo cosa aspettarsi, ma appena nata la piccola io, con loro e mia grande sorpresa, seppi esattamente cosa dovevo fare: la leccai pulendola e la lasciai attaccare alla mammella gonfia e dolente; mi sentivo sciogliere di gioia di fronte alla mia piccolina, che mi donava un infinito amore. Il sollievo maggiore fu il fatto che a lei del mio colore non interessava minimamente! Era docile e rispettosa, mi seguiva ovunque con totale fiducia.

Naturalmente il recinto fu presto pieno: io, Sale e le due piccole. Le nostre scorribande fuori dal recinto diventavano sempre più avventurose e a volte duravano più di un giorno, scatenando l’ansia della famiglia del pastore.

Un giorno dell’estate successiva riuscii a scassinare il catenaccio di una cantinetta dove venivano riposte le provviste di frutta e verdura e con tutta la banda entrammo, facendo fuori tutto quello che potemmo mangiare. La porta si apriva a spinta dal di fuori e così  non riuscii a riaprirla per uscire e restammo prigioniere per due giorni di quello che, però, ai nostri occhi era un vero paradiso: fresco e pieno di cibo delizioso.

Per due interi giorni il pastore aveva vagato in lungo e in largo attraverso tutti i suoi pascoli, nel boschetto, lungo il torrente, ma senza riuscire a trovarci. Mulin era inconsolabile e tutti temevano che fossimo state tutte e quattro rapite e portate altrove. Poi un giorno la donna dovette venire alla cantinetta a prendere delle patate, spalancò la porta e venne colpita da una zaffata di pessimo odore e dalla vista di un vero e proprio cataclisma: cassette rovesciate, frutta e verdura morsa, semimangiata, sparsa ovunque, e cacca dappertutto! “Eccole!!!!” gridò. E poi “Dio mio che disastro! Si sono mangiate tutto! E senti che puzza! Teppiste!!!!”.

Dapprima restammo lì tutte e quattro stordite dalla luce improvvisa, ma immediatamente dopo ci riprendemmo e io, con un belato potente, mi lanciai fuori dalla cantinetta travolgendo la donna, seguita subito dopo da Sale e dalle due nostre figlie. Una volta fuori fuggimmo verso il bosco, lasciando dietro a noi le urla furiose della donna e la voce di Mulin che chiamava “Sale! Pepe! Tornate!”.

Tornammo a casa solo il giorno successivo, dopo che le acque si erano calmate. Alla porta della cantinetta era stato messo un nuovo catenaccio e tutto era tornato lindo e pulito, con nuove casse di frutta e verdura.

Riprovai più volte a scassinare nuovamente, ma senza successo, la porta di quel paradiso e venni colta sul fatto più volte intenta a dare musate e spinte di testa alla porticina, che però ora non cedeva più, resistendo anche ad assalti costanti. Privata della possibilità di accedere al mio paradiso, mi restava però il piacere del mangime dei conigli, che ogni giorno veniva alleggerito di qualche boccone da tutte e quattro noi, inquiline del recinto.

In tutte queste ardite azioni venivo accompagnata dalla mia figlia-ombra, che se ne stava  sempre a testa china a pochi centimetri dal mio culo, la posizione che quella viziatella pareva aver deciso di tenere per il resto della sua vita, senza mai prendere un’iniziativa di sua sponte. Quello era il mio unico cruccio, ma per il resto le nostre vite trascorrevano tranquille.

Fino a quando, un giorno di metà autunno, vidi partire l’intera famiglia del pastore. Lui, la donna, Mulin e gli altri ragazzi salirono sulla loro auto lasciando le chiavi di casa al nonno.

“Torniamo tra due giorni” mi sussurrò Mulin carezzandomi la testa.

Poi l’auto partì col codazzo dei cani che l’accompagnò latrando fino al confine della proprietà. Rimase solo il nonno che al mattino prima pulì e diede da mangiare ai congli e al recinto, e poi andò all’ovile a badare a capre e pecore.

Il nonno si muoveva lentamente e quando aprì lo sgabuzzino di fianco alla conigliera io, Sale e le figlie riuscimmo a mangiare ben più di un paio di bocconi di mangime. Ficcammo i musi nel sacco e non li togliemmo finché il nonno non arrivò a staccarci con la forza e a chiudere a fatica lo sgabuzzino.

Poi lasciò il recinto aperto e noi quattro ovine casalinghe cominciammo a gironzolare bellamente lì intorno a casa, con poca voglia di avventurarci oltre perché gli stomaci erano pieni e una pennichella ci stava solo bene.

Il giorno dopo però accadde che il nonno, nella foga di allontanare me e Sale, che eravamo le più grosse e testarde, dal sacco del mangime, chiuse il catenaccio dello sgabuzzino con minore cura, lasciandolo appena appoggiato. La cosa non passò inosservata al mio sguardo sempre attento e così, non appena il vecchio scese all’ovile, a colpi di muso riuscii ad aprire la porta dello sgabuzzino. In poco tempo noi quattro divorammo un’enorme quantità di mangime e, quando finalmente ci ritenemmo sazie, andammo a sdraiarci sul prato davanti casa. Quella che aveva mangiato di più ero io e, oppressa da tutto quel cibo, mi sdraiai e non mi alzai per l’intera giornata, se non per andare a bere un po’ d’acqua. Al tramonto il nonno non riuscì a farmi rientrare nel recinto e decise di lasciarmi lì senza riuscire a capire cosa mi fosse successo. Io stavo malissimo, lo stomaco mi faceva male da morire e mi pareva di avere dei sassi dentro, che mi trituravano le budella. La testa mi girava, mi mancava il respiro e volevo solo dormire. Avevo sonno, tanto sonno.

Mi svegliai la mattina dopo, ma era così strano: la famiglia era tornata e se ne stava  sotto di me, disposta attorno al corpo di una grossa pecora nera raggomitolata sul prato davanti a casa. Mulin piangeva abbracciando la donna che cercava di consolarla. Il pastore scrollava il capo sconsolato mentre il nonno continuava a ripetere che gli dispiaceva tanto.

“Pece…” continuava a ripetere singhiozzando Mulin e io le rispondevo come facevo di solito, belando forte, ma lei sembrava non sentirmi e piangeva, piangeva. Io mi sentivo così disperata, come quel giorno in cui la mia mamma mi aveva rifiutata: ‘ma come?’ pensavo ‘come mai non mi sentono? forse non mi vogliono più bene’.

Belavo, belavo e più belavo più mi sollevavo e li vedevo allontanarsi sotto di me. Poi, poco più in là sul prato vidi il corpo di mia figlia, anche lei rannicchiata e immobile.

D’istinto mi girai e la vidi dietro di me, nella sua solita posizione testa (sua) – culo (mio). E insieme ce ne volavamo sempre più in alto, sempre più lontano dalla mia amata famiglia umana che stava lì a piangere sui nostri corpi esanimi.

“Beeeee, beeeee!!!“ gridavo “Beeeeee… Beeeeneeeee, vi voglio beeeeeneeee” riuscii finalmente a proferire. Una cosa che avevo sempre voluto dire loro, fin dal primo biberon che mi avevano dato, fin dalla prima carezza che mi avevano donato. E, volando sempre più in alto, continuai a belare loro tutta la mia gratitudine, sperando che un giorno la mia voce, cadendo con la pioggia, potesse raggiungerli e coprirli col mio amore.

 

4 Risposte a “La pecora che si credeva un cane”

  1. Ah, ecco, sarebbe bastato tener sempre presente che parlavi di una pecora nera, fuori dal gregge. Sulla morte, perdonami: certo che si è già morti alla nascita, come dimenticarlo. Pensavo che senza abbuffarsi fino a crepare forse sarebbe vissuta un pochino più a lungo, intendevo questo.
    Comunque, sarò stata suggestionata dalla morte della figlia che ai miei occhi ha dato al finale una connotazione per lo più negativa. Magari se fosse morta solo Pece avrei interpretato diversamente. Mi attengo, ovviamente, alle intenzioni dell’autrice. Grazie della spiegazione. 🙂

    1. Scusami, Antonella. Non volevo negare spazio alla tua interpretazione, anzi. E non era certo mia intenzione importi una pedante spiegazione: volevo solo esporre il mio parere relativamente alle tue considerazioni.
      L’unica cosa che posso dire è che Pece è stata decisamente una pecora fuori dal gregge: dapprima scacciata, ha poi rifiutato più volte nel corso della sua esistenza di fare ritorno all’ovile. La storia reale è molto più complessa e ancor più drammatica: non ricordo se la figlia sia morta con lei; tuttavia la figlia era una pecora in tutto e per tutto, sempre a capo chino e appiccicata al deretano della madre: avrebbe mai potuto fare scelte autonome? 😀
      Scherzi a parte, Pece/Pepe è stata davvero una pecora straordinaria, che rispondeva quando la chiamavi e che ti correva incontro. Quanto al rincorrere le auto in corsa, è stata una fase ma tutti, lì in montagna, la ricordavano come la pecora che si credeva un cane.

  2. Sai che questo racconto mi ha lasciata un po’ sospesa nei meandri delle riflessioni?
    Sono arrivata ad una pacificazione dei pensieri e dico questo: non sempre la famiglia di origine è quella che significa casa, e questo è un dato di fatto che riguarda tutte le specie animale, ahimé e per fortuna (nel caso illustrato dal racconto) non ultima quella a cui apparteniamo. Vabbé, pensiero banale.
    Seconda riflessione: si può morire anche per troppo amore quando non abbiamo gli strumenti per gestirlo. Mi spego meglio. Se la pecora nera avesse fatto la pecora, avrebbe vissuto di pascoli e del cibo razionato che il pastore le avrebbe dato come a tutte le altre pecore. Sarebbe cresciuta imparando a gestire gli equilibri della propria natura, in modo naturale appunto, e probabilmente ancora viva. Snaturata, ha imparato a fare cose meravigliose che le sarebbero state precluse se fosse stata solo pecora, e così, non avendo per sua natura la capacità di amministrarle si è fatta prendere dall’ingordigia dell’abbondanza di generosità a sua disposizione. E ci ha rimesso le penne, trascinando con sè la povera figlioletta colpevole di non aver fatto altro che fidarsi di sua madre. Povera cucciola!
    Però è morta piena di riconoscenza e col cuore colmo d’amore. Questo è bellissimo.

    1. Sai, diversamente dal solito non condivido del tutto la tua lettura, che pare essersi scordata alcuni dettagli. La morte arriva comunque, anche se fai la pecora nel gregge. Pece muore non per troppo amore (che invece le ha concesso di vivere laddove la natura l’avrebbe condannata già alla nascita) ma per un accidente della vita. Non è uscendo dai binari che si rischia di morire, ma semplicemente nascendo. E poi il disegno della nostra vita lo tracciamo passo dopo passo. Natura o cultura, accettazione del proprio ruolo, con l’illusione di essere più “sicuri, o scoperta continua al di fuori degli schemi, assumendosi il rischio di fare la scelta “sbagliata”?
      E poi, alla fine, diciamocelo: era solo una gran ghiottona, e sarebbe riuscita a morire anche di indigestione d’erba!
      P.S: le pecore d’allevamento non hanno una vita lunghissima. Credo che quella di Pece sia stata nella media.

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