Milano-Venezia A/R (ultima parte)

 

(…) Lei continuava a fingere un estremo interesse per il romanzo, anche se in realtà la sua mente era totalmente concentrata su ciò che stava accadendo nello scompartimento.

Poi, finalmente, l’uomo, con un forte accento arabo, chiese “Posso spegnere la luce?”.

Per lei fu l’occasione. Si alzò di scatto, afferrò la giacca, lo zainetto e disse, mettendosi ritta di fronte a lui: “Io vorrei leggere, ma non si preoccupi, cambio scompartimento…”

Non fece quasi in tempo a finire la frase che l’uomo, spaventato, disse: “No, no, me ne vado io!”. Nel mentre pronunciava quelle parole si era già alzato, aveva sollevato i due sedili, aveva aperto le tendine ed era sparito verso il fondo del corridoio con la velocità di un supereroe. Rimase lì impalata per qualche secondo, osservando il punto in cui un secondo prima c’era quell’uomo e che ora appariva magicamente vuoto. Poi riprese posto nel suo sedile e rimase per un po’ a pensare all’accaduto, senza riuscire a dargli un senso.

Uno scossone le fece capire che il treno era finalmente partito: ancora 4 o 5 ore e sarebbe giunta sana e salva a Milano. Nel frattempo era giunta alla conclusione che non avrebbe dormito: meglio stare all’erta. Si propose perciò di leggere per tutto il tempo.

Incomprensibilmente, data l’ora, a Mestre il suo scompartimento si riempì fino all’inverosimile: una signora con una enorme sporta di plastica piena di vestiti, un uomo infreddolito con un berretto di lana calato sugli occhi, un uomo anziano che scambiò qualche chiacchiera con la signora, che evidentemente conosceva già, e infine una ragazza e un giovanotto dall’aspetto ordinario che sedettero uno di fronte all’altro.

Il giovanotto stava parlando, con voce bassa e monotona, di qualcosa. Aveva l’aria di proseguire un discorso iniziato già in stazione e la ragazza lo ascoltava con attenzione in totale silenzio. Antonella era rimasta colpita in modo particolare dalla bellezza fuori tempo della ragazza, che aveva un viso degno di un quadro del Giorgione: la fronte convessa e ampia, i lunghi capelli lisci e castani divisi da una riga in mezzo e lasciati cadere ai lati del viso, occhi enormi e leggermente sporgenti, come quelli della Gioconda, bocca piccola dalle labbra carnose, guance color pesca. Un viso da quadro su un insieme dozzinale: era vestita in modo triste, senza un minimo tocco di eleganza o di allegria, e stava tutto il tempo a fissare il suo interlocutore annuendo con pacata partecipazione. Il giovanotto, dal canto suo, brillava per una totale mancanza di avvenenza e non smetteva un istante di parlare, con quella nenia lenta e soporifera propria della parlata veneta. Quel giovanotto innervosiva molto Antonella, perché quella cantilena noiosa e ipnotica le impediva di concentrarsi sulla lettura del romanzo e inoltre la induceva al sonno, cosa che, come già detto, voleva evitare.

Cercò più volte di rileggere la stessa pagina, la stessa riga, la stessa parola persino, ma senza riuscirci. Lanciò un paio di minacciosi sospiri, più simili ai soffi di un toro infuriato, ma inutilmente, perciò, per non cadere addormentata, decise di prestare ascolto a ciò che il giovanotto stava dicendo.

Il tono e il ritmo del suo eloquio non erano tra i più stimolanti, ma il viso della ragazza di fronte a lui, quel suo annuire compreso e interessato la incuriosivano: magari il giovanotto parlava di cose interessanti, magari non era dotato nelle arti oratorie ma era capace di contenuti elevati… Perciò si mise ad ascoltare.

Il giovinotto stava parlando di vasche di zinco. Queste parole, ‘vasche di zinco’, venivano ripetute in continuazione, ed erano evidentemente il tema centrale della questione. Raccontava delle virtù delle vasche di zinco, della durata nel tempo delle vasche di zinco, dei costi ridotti di acquisto e di mantenimento delle vasche di zinco, della semplicità di manutenzione delle vasche di zinco, persino delle diverse misure delle vasche di zinco. Ogni singola specifica delle vasche di zinco veniva descritta sin nei minimi dettagli, sottolineando gli indubbi vantaggi offerti dalle vasche di zinco rispetto a qualunque altro possibile sostituto. A un certo punto era persino sceso nei dettagli sui processi di zincatura delle vasche, e ribadendo poi la durata, l’inattaccabilità da acidi e altri elementi corrosivi dello zinco, il ridotto rischio di ossidazione delle vasche di zinco.

Più ascoltava e più, a questo punto, Antonella era esterrefatta dall’atteggiamento della madonna del Giorgione. In questa marea verbale colma di zeta addolcite a sproposito, in questo soporifero ronzare di molesto moscone, la ragazza non aveva mai distolto un attimo lo sguardo dal viso poco avvenente del giovanotto, con aria compresa e attenta, annuendo senza sosta come uno di quei cagnolini di plastica da cruscotto posteriore di automobile.

Ormai l’irritazione provocata dal giovanotto era stata soppiantata in lei dallo stupore nei riguardi dell’atteggiamento della ragazza. ‘È sincera o finge?’ si chiedeva ‘Sarà il suo datore di lavoro o un fidanzato?’ Cosa poteva spingere quella giovane donna a spendere tanta fatica nel mostrare interesse verso un argomento tanto noioso e verso un oratore tanto poco affascinante? Cercava di immaginare cosa passasse per quella testa, cercava di leggere tra le righe di quel suo annuire, cercava di cogliere momenti di cedimento, o un lampo di ironia nel suo sguardo, o una smorfia di fastidio sulle sue labbra. Niente. Il viso perfetto restava perfetto e imperturbabile, lo sguardo sempre attento e concentrato. Sinceramente concentrato, pareva. E a tutto ciò si aggiunga che la ragazza non emise mai verbo, nemmeno un mugolio di approvazione o per dimostrare che aveva capito, nemmeno un colpo di tosse: annuiva e basta.

Alla fermata successiva il signore anziano e la signora con l’enorme sporta scesero, subito sostituiti da altri due passeggeri. E così fu alla fermata successiva. Continuava ad essere molto stupita del fatto che un treno con così tante carrozze, a quell’ora della notte, fosse tanto affollato. Lo scompartimento rimase sempre pieno fino a Vicenza. E fino a Vicenza il giovanotto continuò il suo mortifero e ronzante monologo a base di vasche di zinco, che Antonella aveva da un pezzo smesso di seguire, davanti all’imperterrito pubblico annuente di quel viso da madonna del Cinquecento. Un ronzìo che non si interruppe nemmeno per un istante, né all’arrivo del treno in stazione, né mentre i due percorsero il corridoio verso l’uscita. Semplicemente scemò, sfumò lentamente, man mano che il giovanotto procedeva lungo il corridoio, scendeva dal treno, si allontanava lungo la pensilina. Quando il treno ripartì Antonella lanciò uno sguardo verso l’edificio della stazione e li vide ancora lì, fermi sulla soglia della porta d’uscita, come a voler strappare alla notte ultimi brandelli di tempo da trascorrere insieme, prima di doversi ineluttabilmente separare, intenti in una conversazione a cui nessuno dei due pareva voler dare termine, lui preso dal suo discorrere, di cui si poteva intuire il tema, lei di fronte, lo sguardo fisso sugli occhi di lui, angelicamente senziente.

Dopo che giovinotto e ragazza furono scesi, nello scompartimento restarono solo un altro paio di persone, oltre ad Antonella, immerse nelle loro giacche e intente a sonnecchiare. Questo le permise di riprendere la lettura del suo romanzo, che aveva cominciato a intrigarla.

A Verona, finalmente, lo scompartimento si svuotò del tutto. Trasse un respiro di sollievo: la concitazione inaspettata della prima parte del viaggio l’aveva lasciata svuotata. Un po’ di solitudine non poteva che farle bene, pensò. Ma non fece in tempo a finire il pensiero che sulla porta dello scompartimento si affacciò un uomo altissimo, biondissimo e dal viso così pieno di profonde cicatrici da sembrare più una polpetta di carne macinata che una faccia.

“Is it free?” chiese a voce alta con un allegro sorriso indicando il sedile di fronte alla porta.

“Yes” rispose lei “any place is free”

“Fantastic!” aggiunse lui con tono entusiasta piazzando un enorme zaino sul portabagagli.

Antonella gli osservò con più comodo la faccia. Doveva essere reduce da un terribile incidente automobilistico, visto che non c’era un solo centimetro del suo viso che fosse liscio, inoltre il lato destro della fronte presentava una concavità tipica di chi aveva subito uno sfondamento del cranio. Il resto del corpo, invece, era perfetto: alto, atletico, spalle massicce, muscoli sviluppati. Pareva la faccia sbagliata su un corpo perfetto. Cercò di immaginarselo come doveva essere prima del cataclisma: capelli biondi, occhi azzurrissimi, labbra carnose, naso… beh, quello non si poteva proprio immaginare come poteva essere stato.

Nonostante l’aspetto, il giovanotto era molto allegro e cordiale. Pareva molto eccitato e prese a raccontarle di essere svedese – ‘Bella roba’ pensò lei ‘l’unico svedese che mi capita di incontrare ed è inguardabile!’ – e di essere in Italia per una lunga vacanza che doveva portarlo lungo tutte le principali tappe turistiche della penisola. Lasciava Verona e l’indomani avrebbe visitato Milano.

Mentre le raccontava tutto ciò il giovinotto aveva estratto un piccolo asciugamano dallo zaino, aveva unito a branda due sedili, e ci si era sdraiato chiedendole: “Do you mind if I sleep?”.

“No problem, but I need the light to read” precisò lei.

Lui rispose con un’allegra risata e disse che avrebbe dormito anche con la luce accesa. Ciò detto si accomodò sul sedile, si tolse le scarpe da ginnastica e si sdraiò…

…Non ci sono parole … non ci sono parole per descrivere certe sensazioni e, per quante parole si possano spendere, non c’è modo di descrivere in modo sufficientemente efficace una puzza. In quel caso, la puzza dei piedi di quel novello mostro di Frankenstein.

Antonella non poteva crederci. Cioè, non poteva credere che potesse esistere un odore di tale intensità. Magari non si sarebbe potuto descrivere a parole, ma si sarebbe potuto disegnarlo, per quanto era pregnante e consistente. E la cosa più sorprendente di tutta la faccenda era il fatto che il proprietario di quei piedi e di quelle scarpe pareva esserne completamente ignaro.

Certo, si dice che i nostri odori non ci infastidiscano, anzi, che quasi ci piacciano, ma dev’esserci un limite a tale narcisistico autocompiacimento. Tutti, ad un certo punto, riescono a riconoscere quando il loro odore diventa inconfutabilmente una puzza, un fetore, un tanfo, un miasma insostenibile. E, a prescindere dalle possibili reazioni individuali di chiunque scopra di puzzare al cospetto di estranei, dal fatto che ci si possa o meno sentire in imbarazzo o che si cerchi o meno di rimediare in qualche modo, ciò che appariva incompresibile era che lo svedesone resisteva senza fare un plissé a quell’odore inconcepibile.

Era evidente che la cosa non presentava, per lui, alcun problema, visto che giaceva piegato in tre sulla troppo corta branda dormendo della grossa e persino russando.

L’aria nello scompartimento era irrespirabile e la speranza che il proprietario di quei miasmi ponesse in qualche modo rimedio era nulla, perciò Antonella dovette adattarsi ad aprire di qualche centimetro il finestrino. Venne investita da una folata d’aria fresca che venne però immediatamente viziata dal tanfo che aveva invaso ogni centimetro cubo del cubicolo. Dopo qualche minuto perciò abbassò ulteriormente il finestrino fino a venire investita in pieno volto dalla fresca aria notturna, i capelli scompigliati, il naso gelato, ma almeno poteva respirare. E riprese a leggere, cercando di non pensare al resto.

Con la coda dell’occhio vide passare un controllore nel corridoio, che le lanciò una strana occhiata. Lei continuò a leggere.

Dopo un’altra ventina di minuti passò di nuovo il controllore e lo vide fermarsi con aria interrogativa fuori dalla porta chiusa. La fissava come cercando di capire, lei non capiva cosa. Poi si rese conto di quanto poteva apparire strano una viaggiare su un treno lanciato a tutta velocità col finestrino aperto in piena notte in autunno. Gli sorrise e lui si decise ad aprire lo scompartimento, sempre tenendo lo sguardo fisso su di lei. Non appena aperta la porta, gli occhi del controllore si dilatarono e dalla bocca chiusa gli sfuggì un colpo di tosse involontario. Il suo sguardo si spostò al bell’addormentato che giaceva sotto di lui e alle scarpe abbandonate in mezzo allo scompartimento, poi tornò a guardare lei, stavolta con un’espressione mista di comprensione e pena. Lei gli sorrise nuovamente e gli porse il biglietto, scostando i capelli che le turbinavano in faccia.

Obliterato il biglietto, il controllore svegliò il giovinottone che, sorridendo in mezzo alla foresta di cicatrici, gli porse il biglietto e si rimise subito a dormire. Dopodichè il bigliettaio le chiese: “Lascio aperto?”. “Sì grazie” rispose lei riconoscente. “Oh, please, can you close the door?” fece subito eco il giovinotto, e così, con sguardo colmo di pietà, il bigliettaio chiuse la porta sull’espressione disperata di Antonella, mentre un turbinio di capelli ormai ineluttabilmente scomposti le velavano il viso e lo sguardo.

Che dire, ormai si era rassegnata. Mancavano poco più di mezz’ora a Milano e poche pagine alla fine del romanzo, e non valeva la pena di andare a cercare un altro posto.

Di lì a poco, infatti, il suo compagno di scompartimento (quello umano) si svegliò, si infilò le scarpe, riducendo in modo notevole lo strazio odorifero, e, dopo aver educatamente atteso che lei finisse il romanzo e chiudesse la copertina, cominciò a fare conversazione.

Le chiese curioso cosa stesse leggendo perché, disse, gli pareva strano che avesse viaggiato a quell’ora senza dormire. Per un istante Antonella ebbe la tentazione di dirgli che con quel tanfo si sarebbero svegliati persino i cadaveri, ma poi generosamente decise di sorvolare sulla questione e gli spiegò la trama del romanzo. Allora lui le raccontò del suo viaggio lungo la penisola, le chiese di Milano e dei consigli per altre mete interessanti. Chiacchierarono per il poco tempo che mancava all’arrivo e alla fine lui si complimentò con lei per il suo buon inglese, cosa rara in Italia. Insomma, le parve così ben educato, così gentile e attento, che quella sua palese mancanza di garbo e di attenzione nel ridurre il fetore inqualificabile dei suoi piedi le sembrò ancora più inspiegabile. Probabilmente, si disse, non era più in grado di sentire gli odori, visto che non aveva più un setto nasale.

Finalmente il treno dette uno scossone lento e si insinuò nel tunnel art decò della stazione centrale; finalmente lei poté scenderne e avviarsi verso la sicurezza di casa.

Era stanca ma stranamente ben sveglia, ancora carica di adrenalina. Giunta a casa, infatti, si prese la  briga di sbrigare alcune piccole faccende, sistemando le cose acquistate, sfogliando i depliant raccolti alla festa e finalmente concedendosi al letto.

Il giorno dopo scontò tutta la stanchezza e si alzò dal letto stranita. Davanti alla tazzina di caffè si chiese, sorridendo, se avesse veramente vissuto quella assurda avventura o se si fosse trattato di un sogno. Ripassò nella mente i momenti clou: la festa al Guggenheim, l’arabo timido, le vasche di zinco, lo svedese horror, la puzza di piedi… Dopo qualche minuto rideva come una pazza, piegata in due sulla sedia di cucina, a chiedersi come potesse una notte essere così assurda.

Poi, più o meno un mesetto dopo, quando credeva di essersi lasciata alle spalle quel viaggio lunare con tutte le questioni irrisolte a cui non aveva saputo dare un senso, le capitò di vedere in televisione un servizio giornalistico relativo a quello che venne detto, con una definizione inopportuna, “il treno dell’amore”. Con stupore scoprì che si trattava proprio del treno notturno Venezia-Torino, quello in cui aveva viaggiato lei. Bigliettai e controllori lamentavano le disagevoli condizioni di lavoro su quella tratta causate dalla presenza di prostitute pendolari che, tornando a casa, approfittavano dei vagoni per farsi le ultime marchette, sfruttando gli scompartimenti come budoir.

E all’improvviso tutto le fu chiaro: il comportamento del nordafricano che era entrato nel suo scompartimento, il suo stupore nel vederla, il suo comportamento che al momento le parve stravagante ma che ora le appariva come una serie di caute mosse di avvicinamento verso una prostituta poco conforme allo stereotipo. E chiaro le fu anche per quale motivo, in quel treno praticamente vuoto, il suo scompartimento fosse sempre strapieno: tutte le persone che non praticavano la professione più antica del mondo o non volevano goderne i servigi si rifugiavano in pochi scompartimenti stracolmi. A parlare di vasche di zinco.

Quanto allo svedesone maleolente, quasi certamente doveva essere apparso in un rapporto del controllore, come ulteriore motivo di lamentela, probabilmente di gravità superiore all’attività delle prostitute: “In data ………… settembre, percorrendo il corridoio della carrozza 7 all’altezza di Brescia est, il sottoscritto ebbe modo di notare una passeggera che viaggiava con finestrino spalancato. Trovando inadeguato tale comportamento, soprattutto nei confronti del viaggiatore che condivideva con la succitata lo scompartimento e che giaceva su una cuccetta, aprii la porta ed ebbi modo di scoprire che la ragione di tale eccessivo arieggiamento del locale stava negli effluvi mefistofelici provenienti dalle scarpe del viaggiatore addormentato. Il fetore fu tale da provocarmi un conato di vomito con difficoltà represso, soprattutto per non provocare ulteriore disagio alla già provata viaggiatrice”. Amen.

 

di Maddalena Gregori

6 Risposte a “Milano-Venezia A/R (ultima parte)”

  1. Hai dimenticato di aggiungere un ingrediente fondamentale nel racconto del tuo processo creativo (oltre le lenti, importantissime, per vedere l’avventura): il talento. Penso che certe cose non si possano imparare, sono doni. E come tutti i doni vanno coltivati, con impegno, amore e anche fatica. Però, talento o no, diffido di quegli scrittori che dichiarano di scrivere interi romanzi di getto, senza fatica e come in stato quasi ipnotico.

    1. Brava! Si scrive, si rilegge, si lima, si modifica, si cercano i termini più adatti, i sinonimi, insomma… si fa fatica. Però è una fatica piacevole, almeno per me. C’è poco da fare: scrivere mi piace, mi diverte, mi nutre.

  2. Ho letto il racconto con un sorriso stampato dall’inizio alla fine, interrotto, a tratti, solo dall’evoluzione del sorriso in aperta risata. Mi sono divertita un mondo!
    Sui critici d’arte la penso come la mia omonima della tua storia, pari pari.
    Nel 2008 lessi per la prima volta in vita mia un blog. Capitai per caso nel blog di un aspirante scrittore e ne fui folgorata. A mio avviso era davvero bravo. Tutta questa premessa per dire che il sottotilo del blog riportava una frase che risuona spesso nella mia memoria: “Per fare della vita un’avventura basta raccontarla”. Pensai: “Ti pare facile!” Beh, Maddalena, a te vien proprio facile. Complimenti!

    1. Che bella frase! Però secondo me servono anche le lenti per vedere l’avventura che si cela in ogni istante della nostra vita, altrimenti non riesci a raccontarla. Ci sono persone che pensano di vivere una vita banale, e invece semplicemente non sanno cogliere la meraviglia, l’eccezionalità delle loro vite. Io invece accolgo i racconti e lascio che si depositino nella mia memoria, che si mescolino ad altri eventi, che si esaltino nelle emozioni condivise, e poi scrivo, mi sorseggio il cocktail che si è creato spontaneamente. A volte penso a cose per lungo tempo e poi, all’improvviso, devo raccontarle. Oppure scrivo storie inventate e certi pezzi di vissuto entrano a far parte del racconto, come un patchwork della vecchia America. O come il tappeto del mio salotto, che è fatto di vecchi abiti tagliati a striscioline e intrecciati tra loro.

  3. Racconto molto interessante,con i sogni di una ragazza e la scoperta che questi sogni non erano ciò che Lei cercava, e le avventure di una sola serata,che ci vorrebbe una vita perchè accadano tutte.

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