Milano-Venezia A/R (prima parte)

Antonella era giunta a Venezia quella sera stessa, sull’onda di una di quelle imperdibili occasioni che, col senno di poi, avrebbe fatto meglio a perdere e che avrebbero costellato l’intera sua esistenza. Appena arrivata e già pronta a ripartirne, dopo appena poche ore, con l’ultimo treno disponibile.

L’andata, se si ignora il fatto che prese il treno dopo un’intera giornata di lavoro e senza nemmeno passare da casa, fu alquanto nella norma. A dire il vero non riusciva nemmeno a ricordare cosa fosse accaduto in quel lasso di tempo. Aveva memoria solo della vaga trepidazione che l’accompagnò per tutto il viaggio, delle mille domande che le affollavano la testa e delle mille aspettative che le ingombravano il cuore.

Quella sera, un venerdì sera, ci sarebbe stata l’inaugurazione della Biennale d’Arte della città lagunare più famosa al mondo, e lei era stata informalmente invitata a partecipare alla festa organizzata da uno dei più prestigiosi musei della città: il Peggy Guggenheim.

Era, all’epoca, una giornalistella di riviste di settore, occupata presso uno dei minuscoli editori che affollavano il panorama pseudo informativo-culturale della “capitale morale” d’Italia. Non ancora trentenne, partecipava alle mille opportunità offerte da quella fortuita professione con l’aria straniata e stranita di un’Alice nel paese delle meraviglie: un po’ non riusciva a capire dove fosse e cosa le stesse capitando, un po’ capiva e non poteva crederci. Tutte quelle serate mondane, cene strabilianti, week end completamente spesati nei migliori alberghi delle città di tutta Europa completi di gite culturali, spettacoli teatrali, feste con ricchi premi e cotillon… insomma, un vero e proprio circo delle vanità che, turbinoso e carico di luci e di suoni, la allettava e la ammaliava. Come quella volta che era stata a Rimini, partecipando a una serata con tanto di spettacolo di cabaret e in cui aveva vinto un salame, subito scambiato con un collega che le aveva proposto in cambio dell’olio aromatizzato al tartufo. Quella era stata la prima volta che partecipava a una di quelle kermesse dell’inutilità. Giunta all’albergo andò nella camera che le era stata assegnata che le parve immediatamente stupefacente: mai stata in un posto così elegante prima. Sulla scrivania, dotata di abat-jour, carta da lettera con l’intestazione dell’albergo e penna con uguale logo (cose sempre e solo sentite raccontare), c’era anche un cesto di frutta con accanto un pacchetto regalo che, lei immaginò, doveva essere stato dimenticato lì dal precedente occupante della camera. Quando però scese nella hall, una collega, giornalista scafata di una rinomata testata di settore, le chiese: “Visto che bel cesto di frutta? E cosa c’era nel tuo regalo?”  capì che difficilmente in un albergo ti lasciano della roba appartenuta ad altri, in camera. Quelli erano cadeauxs per gli esimi giornalisti in loco convenuti! Perciò, non appena le fu possibile, corse in camera, si mangiò dell’uva e aprì il pacchetto dove trovò un set di strofinacci per cucina di altissima qualità, scoprì successivamente dalla collega smaliziata: in lino naturale tessuto a mano e tinto con stampi tradizionali e tinture naturali. A lei sempre strofinacci sembravano. Tuttavia apprezzò: a caval donato…

Da quella volta divenne più scaltra pure lei, aprendo subito i regali che trovava in camera all’arrivo e arraffando quanto più poteva di tutto ciò che le veniva messo davanti. Ai buffet era sempre in prima fila e si riempiva il piatto di tutto ciò che aveva voglia di assaggiare, poi, arrivata al tavolo, si alzava con non-chalance e chiedeva ai commensali se qualcuno gradiva qualcosa, che ne avrebbe preso per tutti. Con quella scusa poteva andare al buffet più volte senza fare la figura di ingozzarsi.

Almeno una volta al mese, in certi periodi, le arrivavano inviti per viaggi in Italia e all’estero, anche di più giorni, e prima di partire poteva già quasi indovinare quale sarebbe stato il regalo (perché oltre a mandarti in gita di davano pure dei regali!) di fine viaggio. Una cuccagna.

Eppure Antonella non era felice: sentiva che quel lavoro non rispondeva alle sue esigenze. Le piaceva scrivere e le piaceva il lavoro di giornalista, ma gli argomenti…! Che banalità, che squallore! Non c’era senso, pensava, in quel lavoro.

Poi, nel corso di una delle più articolate e inutili delle occasioni sopra descritte, ebbe modo di trascorrere un’intera giornata e una serata con cena di gala nel museo Peggy Guggenheim di Venezia. Durante la cena, il suo posto era allo stesso tavolo della moglie del curatore del museo, un signore americano che sedeva, invece, al tavolo delle autorità.

Chiacchierando chiacchierando la moglie, che probabilmente aveva dovuto imparare a rendere il meno possibile noiosi tali eventi, aveva dimostrato un sincero interesse per tutti i presenti al suo tavolo, e nei suoi confronti in forma addirittura speciale. O almeno così le parve. In realtà probabilmente la cortese premura dimostrata dalla signora era più frutto di un’abilità mondana sviluppata negli anni, che di reale attenzione. Tutti coloro che sedettero a quel tavolo, quella sera, si sentirono ugualmente coccolati dalla cinguettante signora, che dispensava gaiamente stupore e ammirazione nei confronti di chiunque emettesse verbo.

Tuttavia la signora, saputo della laurea in storia dell’arte contemporanea di Antonella, della sua tesi su uno dei più famosi artisti contemporanei statunitensi e della sua intramontabile passione per l’arte, aveva mantenuto il discorso su tali argomenti per tutta la serata e sostenuto il desiderio di affrancarsi dall’attuale lavoro della nostra eroina. Lungi dal voler, come s’usa dire, sputare nel piatto in cui mangiava, Antonella era tuttavia stanca di dover spendere la maggior parte delle proprie energie e abilità scrittorie a descrivere sanitari per bagno, elettrodomestici free-standing o da incasso, rubinetterie e quant’altro potesse rendere il vostro bagno o la vostra cucina più à la page e più funzionali possibile.

Sull’onda dell’entusiasmo che, a colpi di “ma perché non ci prova lo stesso, a scrivere d’arte? Ma perché non continua a tentare?”, la gentile signora era riuscita a rinnovare in lei, Antonella chiese apertamente alla signora di indicarle qualcuno da poter contattare, per poter avviare una, ne era consapevole, faticosa ma comunque agognata carriera da critico d’arte.

Più in là nel tempo Antonella si sarebbe chiesta con stupore come avesse potuto desiderare un simile lavoro. Critico d’arte… era una passione che l’animò per un po’ di anni e poi si spense, mentre sempre vivo rimase in lei l’amore per l’arte, per quell’osmosi di emozioni e passioni tra lei e l’autore che un’opera d’arte ben congegnata e realizzata riusciva a scatenare. Avrebbe continuato a ritenere importante l’esistenza di buoni critici d’arte, di persone, cioè, che fungessero da tramite tra lo spesso criptico mondo dell’artista e l’apertura emozionale dello spettatore; persone che, in qualche modo, agissero in qualità di mediatori culturali, capaci di creare un ponte di comprensione reciproca tra artista e fruitore attraverso l’opera d’arte. Ma l’essere critico d’arte, in seguito lo comprese, avrebbe potuto essere solo un elemento aggiuntivo per il suo amore per l’arte, non un’espressione necessaria.

Allora però non la pensava così, credeva che se fosse riuscita a coronare il suo sogno (che già i in un paio di occasioni si era vista scivolare di mano) avrebbe raggiunto l’unica felicità possibile, il suo posto nel mondo.

Ma torniamo alla serata di gala al Peggy Guggenheim Museum: la gentile statunitense, dopo un’intera serata spesa a sostenere verbalmente i sogni della giovane giornalista frustrata, forse anche un po’ scocciata dalle sue ormai reiterate richieste di supporto, chiuse la chiacchierata con un: “Il mese prossimo ci sarà l’inaugurazione della Biennale, e qui al museo terremo una gran festa a cui partecipano tutte le personalità più importanti del settore… Perché non viene? Non serve invito, e può essere un’occasione veramente unica! Venga, mi raccomando!”.

Questi gli eventi su cui la mente Antonella continuava a tornare e a ricamare durante il viaggio di andata Milano-Venezia che aveva programmato con cura. Innanzitutto era alla vigilia di un week end, per cui a fine serata avrebbe potuto prendere l’ultimo treno utile per rientrare a Milano all’alba, senza doversi fermare in un albergo. Eventualità, questa, proibitiva per lei da un punto di vista economico e comunque impossibile, in quanto l’intera città era stracolma di ospiti giunti per l’occasione. Molto meglio farsi quelle poche ore di treno per poi, una volta rientrata a Milano, fiondarsi a casa a dormire con tutto comodo sfruttando la domenica per riprendersi dalla fatica.

Più complesso era stato organizzarsi la giornata, che era stata di normale lavoro. Se voleva arrivare in tempo alla festa, calcolando anche i tempi di spostamento da stazione a museo, doveva prendere il primo treno utile dall’uscita dell’ufficio, perciò già dal giorno prima aveva predisposto il suo guardaroba e in ufficio si ero portata un paio di cose eleganti per cambiarsi. A fine giornata si era perciò chiusa nel bagnetto dei dipendenti, si era lavata e profumata tra una collega e l’altra che aveva bisogno del bagno prima di uscire e si era cambiata. Poi, sistemati i vestiti usati sotto la scrivania, si era precipitata in stazione a prendere il treno.

Come già detto, il viaggio lo trascorse ripassando con la mente gli eventi di un mese prima e cercando di prefigurarsi cosa sarebbe potuto accadere alla festa, come darsi da fare. Si sarebbe mossa nelle piccole sale cercando la sua patrocinatrice e poi le avrebbe chiesto di presentarle qualcuno. Da lì in poi avrebbe agito autonomamente, contando sull’effetto a cascata: conosci uno che ti presenta un altro che poi ti introduce a un gruppetto, si crea una simpatia particolare e allora qualcuno del gruppo chiacchiera con te e poi a tutti i costi ti vuole presentare qualcun altro, e così via.

Giunta a Venezia aveva preso il primo traghetto che facesse fermata al museo e, nel giro di tre quarti d’ora, era arrivata. Una folla cicalante, avvolta dalle luci provenienti dall’interno della villa, animava le finestre e la terrazza che affacciavano sul canale. Ognuno aveva il suo bel bicchiere di vino bianco in mano e chiacchierava allegramente con qualcun altro, singolo o gruppo. Una situazione a lei già nota, il quadro elegante e frivolo di ogni ricevimento ufficiale a cui aveva presenziato per obbligo di rappresentanza professionale.

Entrò nella villa senza che nessuno le dicesse alcunché, semplicemente spezzò il muro di persone che ingombravano l’ingresso e si diresse verso le sale che conosceva già così bene. Decise di gironzolare per un po’, mangiando qualche salatino e bevendo qualcosa, in attesa di incontrare fortuitamente la moglie del curatore. Non riusciva a riconoscere alcuna faccia nota e tutti erano assolutamente concentrati nelle loro chiacchiere.

Niente, da nessuna parte scorse la sua sostenitrice, perciò, dopo oltre mezz’ora che gironzolava a vuoto mangiucchiando e bevucchiando, si rivolse a un uomo che aveva il cartellino del museo appuntato sulla giacca e gli chiese dove fosse la signora in questione, visto che aveva girato dappertutto ma non era riuscita a trovarla: “La signora non c’è. Non presenzia mai alle feste…”

Come ‘mai’? Questo l’amabile signora non gliel’aveva detto! Sussurrò un flebile “grazie” e si allontanò cercando di raccogliere le idee. Innanzitutto Antonella si maledì per non aver mai richiamato la signora, magari per ringraziarla per la bella serata di un mese prima, così, giusto per rinfrescarle la memoria. Poi per non aver chiesto espressamente se lei ci sarebbe stata, all’inaugurazione, cosa che, infatti, non specificò mai. Ma d’altro canto chi poteva immaginarlo che qualcuno la potesse invitare a un party dove non ci sarebbe stato. Alla fine decise che ormai era lì e quindi avrebbe cercato di rendere l’occasione fruttuosa.

Prese ad appostarsi, con un flute in mano in bella mostra, accanto a gruppetti di persone, ascoltandone i discorsi con aria fintamente disattenta: cercava l’occasione per introdursi in qualche dotta, ma anche meno dotta, dissertazione su qualche opera o artista, in modo da poter dare il via in modo autonomo al famoso effetto a cascata.

Il primo gruppetto parlava di un non meglio precisato amico colpito da una malattia mortale. Passò oltre. Il gruppetto successivo, invece, non riusciva a capire di cosa stesse parlando, perciò cercò di avvicinarsi il più possibile e probabilmente si trattenne più dell’accettabile perché, a un certo punto, si rese conto che i componenti del gruppo più vicini a lei si erano voltati a fissarla con espressione poco accogliente. Con la coda tra le gambe si allontanò.

Il terzo gruppetto era composto da signori maturi che si lanciavano battute allegre e che scoppiavano in fragorose risate: sicuramente non parlavano di malattie mortali e altrettanto sicuramente non avrebbe fatto fatica a capire di cosa parlavano, pensò avvicinandosi. Inoltre una battuta lanciata così allegramente d’intorno poteva essere l’occasione per una sua risata e quindi per inserirsi in modo naturale nella conversazione. Perciò si avvicinò. Non fece nemmeno in tempo a portarsi a un paio di passi da loro che uno dei signori la guardò fisso con atteggiamento allegro e le chiese “Possiamo esserle utili?”.

“No, no, stavo solo ascoltando…”

“Ah…” commentò lui facendo improvvisamente scomparire il cordiale sorriso dalla faccia, mentre tutti gli altri si erano ormai girati a guardarla squadrandola da capo a piedi.

Fu un colpo troppo duro, che riuscì a demolire quel poco di slancio che le era rimasto dopo aver saputo che la sua protettrice non era lì a proteggerla. Perciò con passo elastico e distinto si diresse verso il cameriere più vicino, posò il flute sul vassoio con ostentata non-chalance e uscì dalla villa, facendosi largo tra le persone che ancora ingombravano l’ingresso.

Una volta fuori ebbe l’impressione di essersi liberata da un peso. A distanza di anni le fu chiaro di quale peso si fosse liberata, ma allora provò solo la sensazione di maggior leggerezza, di allegria, quasi. Visto com’era andata la serata non riusciva a comprendere il motivo di tale stato d’animo; caso mai avrebbe dovuto sentirsi abbattuta, per l’occasione persa, per la fatica affrontata inutilmente, per i soldi sprecati… e invece si sentiva serena e sollevata.

Più in là nel tempo capì che il peso da cui si era liberata era quella continua tensione interna verso una “carriera” che, dai tempi dell’università, credeva necessaria e che invece non le apparteneva. Non faceva parte di lei tutto quel contorno di mondanità fasulla e corticale che sempre accompagnava il mondo artistico, non faceva parte di lei l’ossequienza verso palloni gonfiati che si credevano e si atteggiavano a depositari di un sapere sublime, mentre in realtà spesso altro non erano se non artisti mancati carichi di gelosia e tronfi per il potere che il titolo di cui si fregiavano offriva loro. Un sapere che invece lei riteneva avesse significato solo se unito a vero amore non tanto verso l’opera d’arte e l’arcano in essa racchiuso, ma verso l’artista che, attraverso la sua creazione, diventava per un attimo rappresentante e portavoce del profondo e misterioso sentire proprio di tutta l’umanità. E invece i critici, fedeli al loro nome, adoravano demolire invece che celebrare. Sennò dove sta in gusto?

Uscita dalla villa, Antonella decise di usare l’abbondante tempo rimastole prima della partenza del treno per raggiungere la stazione a piedi, attraversando quella splendida città, sentendosi accolta dalla magia di una notte ammorbidita dall’eterna foschia che invade i canali e accompagnata dall’eco dei suoi passi, lontana da fragore di motori di ogni sorta.

Fu una passeggiata gradevole, compiuta a velocità di crociera, soffermandosi spesso sui ponti, a riempirsi gli occhi di scorci inaspettati. Giunse alla stazione comunque in largo anticipo e fece un po’ di shopping nei negozietti per turisti che chiudono a mezzanotte, acquistando chincaglieria in vetro per sé e per amici e parenti.

Fatte le sue spesucce, felice di aver reso fruttuosa la serata con la bella passeggiata e l’acquisto di regali, si diresse al treno. Nonostante mancasse mezz’ora alla partenza, il convoglio era già pronto sul binario.

Non sapendo che fare, vi salì per scoprirlo vuoto in modo inquietante. Scelse uno scompartimento a caso, sedette vicino al finestrino e tirò fuori il romanzo che si era opportunamente messa in borsa, proprio per poter affrontare eventualità come quella in serenità. Sulla pensilina poche persone passavano e lei lanciava loro rapide occhiate.

Di quando in quando qualcuno percorreva il corridoio cercando uno scompartimento vuoto. Nella sua mente si faceva largo l’allettante speranza di restare sola per tutto il viaggio, così da poter unire i sedili e farsi un pisolino.

Poi, d’un tratto, un uomo, all’aspetto un nordafricano, passò davanti al suo scompartimento fissandola, fece qualche passo oltre e poi tornò indietro. Entrò nello scompartimento. ‘Accidenti’ pensò Antonella, vedendo sfumare la possibilità del pisolino ‘Vabbé, vorrà dire che leggo fino a Milano”.

L’uomo si era seduto su un sedile vicino alla porta e continuava a lanciarle rapide occhiate oblique. Dopo poco si alzò di scatto e chiuse la porta dello scompartimento tirandone le tendine. Lei pensò l’avesse fatto per dissuadere altri dall’entrare e tenere così lo scompartimento solo per loro due. ‘Strano’ pensò ‘eppure il treno mi pare ancora vuoto. Poteva trovarsi uno scompartimento tutto suo…’ e comunque il comportamento di quel tipo la preoccupava. Era nervoso, continuava a lanciarle occhiate furtive, e poi il modo in cui era entrato nello scompartimento. Ricordò improvvisamente che poco prima era passato lungo la pensilina, si era bloccato sotto il suo finestrino e si era fermato a fissarla.

Dopo un altro minuto l’uomo si alzò nuovamente di scatto e unì il proprio sedile con quello di fronte a sé, creando così una sorta di branda. Il gesto le sembrò molto preoccupante, visto che in quel modo le era praticamente impossibile uscire dallo scompartimento, per non parlare del fatto che le tendine tirate impedivano a chiunque di vedere cosa stesse accadendo all’interno.

Il tipo si sdraiò, sempre lanciandole furtive occhiate di traverso. Lei continuava a fingere un estremo interesse per il romanzo, anche se in realtà la sua mente era totalmente concentrata su ciò che stava accadendo nello scompartimento.

Poi, finalmente, l’uomo, con un forte accento arabo, chiese “Posso spegnere la luce?”. (continua)

 

di Maddalena Gregori

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.