Il mio nome è Meriggio

 

Avvolto nel calore di questa estate rovente mi trovo a ripensare a certi versi che venni costretto a mandare a memoria negli anni del Liceo: “Perduta è ogni traccia dell’uomo, voce non suona se ascolto, ogni duolo umano m’abbandona e non ho più nome…”

Non ho più nome, diceva l’italico Vate… non ho più nome…

Il calore di questa tarda mattinata estiva mi fascia il corpo e il respiro, mi ottunde i sensi. Vaghe mi arrivano le risa ovattate di bimbi dietro la duna di questa spiaggia selvaggia, miracolosamente scampata al delirio turistico. La mia spiaggia, il mio mare.

Non è certo l’unico mare della mia vita. Ne ho visti e assaggiati tanti, uno per ogni stagione della vita.

C’è stato il mare dei centri turistici alla moda della mia adolescenza, dove le calamite erano la musica e i corpi giovani tra i quali mischiarsi, con cui entrare in competizione o in contatto. Un contatto intimo, più spesso sognato, agognato, immaginato che raggiunto.

Poi c’è stato il mare avventuroso dei viaggi di gioventù, quando il corpo rispondeva ad ogni mia richiesta, e il cuore e la mente cercavano ciò che non potevano immaginare. Cercavano lo stupore, la meraviglia. E allora Oceani, onde immense e luoghi antichi e selvaggi.

Poi c’è stato il mare bello e tranquillo degli anni di famiglia, il mare dei viaggi troppo costosi da fare in gioventù, accompagnato dagli agi che la sicurezza economica consentiva e che i bambini esigevano.

E questo è il mare del mio oggi, un cerchio che si chiude: il mare della mia infanzia che è diventato il mare dei miei settant’anni. Il mare puro e selvaggio dove ho trascorso le mie estati infantili, con bande di cuginetti e mamme affannate, impegnate tutto il giorno a lavare e cucinare. Estati di corse e urla e di tuffi nelle onde coi calzoncini di cotone che non volevano mai asciugarsi. Estati passate ad arrampicarsi su e giù per le dune, giocando a indiani e cow boy. E quei pranzi a base di pesce e cozze comprati dai pescatori, e insalate di pomodori, con tutti noi che ci raccoglievamo intorno al tavolo, e le risa, gli strilli, le parole urlate da un capo all’altro della tavolata dagli adulti che apparivano così felici (stupore!), e ancora le risa…

Il capanno da pescatore di nonno era stato riadattato a “casa delle vacanze”, “Dotata di tutte le scomodità!” come diceva mamma ridendo. Non c’era acqua potabile e bisognava andare a prenderla colla Cinquecento Fiat alla fontana del paese. Si partiva ogni due o tre giorni, con le damigiane. E quanto alla luce, ci si arrangiava con le candele e una vecchia lampada a petrolio. Ma era bello così.

Mamma ogni anno sfoggiava quel cappello di paglia a larghe tese che la faceva sembrare una ragazza.

Un cappello che, non appena entravamo nel capanno, prendeva il suo posto d’onore, il chiodo arrugginito proprio a fianco della porta d’ingresso, e lì splendeva come un sole, unico ornamento di quel locale di assi di legno malamente connesse.

Sorrideva sempre, mamma, quando lo indossava, con quel vestitino leggero che le svolazzava addosso mentre attraversava le dune e correva sulla sabbia, spensierata come una ragazzina di diciotto anni. Mamma che correva con un sole di paglia sulla testa, brillante di luce e di gioia, luminosa di sorrisi, fresca dei fiori rossi e azzurri che garrivano al vento su quel vestitino fatto di brezza marina e schizzi d’onda sugli scogli. E io che la inseguivo e mi facevo colpo di vento per catturarla, e colpo d’onda in cui tuffarmi e confondermi e rotolare tra flutti spavaldi e un po’ adirati, scintillanti contro un sole che alto nel cielo lancia i suoi dardi e mi colpisce sulla nuca e mi stordisce e precipito in una vertigine che mi sprofonda nella sabbia calda, e divento sabbia, divento vento caldo, divento raggio e onda e schizzo verso il cielo contro lo scoglio…

“Onno… onno… sonno…” mugola il vento sul mio viso, carezzandomi lieve col suo profumo di pineta. “Onno… sonno… sonno…” insiste scivolandomi sulle guance, sulla fronte umida, sulla gola riarsa. Deglutisco a fatica e mi sento sabbia, mi sento una duna calda e fragile, immanente ed eterna, mutevole ma sempre uguale, come i tratti di un viso che muta e resta uguale, muta e resta uguale, muta e resta uguale, fino a quando non somiglia più a se stesso.

“Onno… sonno… sonno… NONNO!!!!”

Socchiudo appena gli occhi e un raggio di sole affilato come una lama penetra impietoso a ferire la retina. Un’ombra vaga, una sagoma in controluce si agita davanti ai miei occhi. Poi uno sguardo d’acqua limpida, le linee e i colori di una pesca, la luce dorata, velata dall’ala luminosa di un cappello di paglia dalle ampie tese.

Ci metto un po’ a risvegliarmi del tutto. Il sole ferisce i miei poveri occhi e faccio fatica a distinguere la sagoma vibrante che mi sovrasta allagandomi di ombra.

“Ma nonno, insomma!!!! Ti svegliiiiiiiii?!?!?”

Finalmente emergo dal torpore e riconosco Sara, mia nipote, maggiorenne da pochi giorni.

“Guarda nonno, guarda cosa ho trovato!” dice lei mettendomi in mano a forza una bottiglia “Era in acqua!”

Chino lo sguardo e osservo la bottiglia. Ha una forma squadrata. L’etichetta è corrosa ma ha una posizione sbilenca inconfondibile. Sento un aroma antico titillare il mio palato, ma è solo una reminiscenza remota. Da anni i superalcolici mi sono vietati.

“Ma guarda, nonno! Guarda dentro!”

Adoro mia nipote, ma in questo momento la sua voce mi sembra eccessivamente cristallina e mi penetra nel cervello come una lama. Per farla smettere mi decido a prestare attenzione al contenuto della bottiglia. Nessun liquido, bensì un oggetto dalla forma indefinita. Non si capisce bene cosa sia, perché la bottiglia è coperta di incrostazioni e sedimenti salmastri. Con cautela svito il tappo metallico. Capovolgo la bottiglia senza però che nulla esca.

“Prendi questo!” dice perentoria Sara allungandomi un bastoncino di ebano che usa per fermare i capelli sulla nuca.

Inserisco il bastoncino nel collo della bottiglia e faccio leva pian piano, fino a far emergere il capo di un foglio di carta così inumidito da parere di stoffa. Temo che non sia rimasto granché da leggere, per come è ridotto, ma non voglio deludere Sara, che mi è così vicina che sento il suo fiato sulla nuca.

Finalmente riesco a estrarre il foglio di carta e a svolgerlo. È una fotografia e la srotolo con cautela. Purtroppo parte della superficie fotosensibile si appiccica al retro del foglio e della fotografia son rimasti solo alcuni stralci: alcuni visi, un bimbo sorridente, un mezzo viso di donna, le spalle e un braccio di un uomo, e poi lo spazio per qualcun altro, forse un altro bambino. Un classico ritratto di famiglia, direi.

Poi una anomalia della carta attrae la mia attenzione: un sottile strato di carta pare dividere a metà la fotografia nel senso dello spessore, tiro piano e mi rendo conto che è un foglio di carta velina, messo tra due foto come protezione. Pian piano divido i due fogli, facendo attenzione a non togliere la velina.

L’immagine della seconda fotografia è semicoperta dal foglio di carta velina che si è perfettamente appiccicato allo strato fotosensibile, ma per lo meno è rimasta integra. Si intuisce un paesaggio con al centro una casa, davanti alla casa si indovinano sagome umane, un braccio alzato, come per salutare.

“Guarda, nonno, guarda qua!” il dito di Sara indica un angolo della carta velina. Pochi segni sopravvissuti alla forza solvente dell’acqua, segni di inchiostro. Sicuramente un messaggio, lasciato da chissà chi per chissà chi…

SSo… No! Sa… Non si capisce…” comincio a compitare come uno scolaretto alle prime armi “Sa… poi qui è tutta una macchia, non si legge … Sa… poi un p e una e, ma in mezzo c’è qualcosa… pre! C’è scritto pre! Poi questa pare una n, anzi un on e qui… una v e potrebbe essere una o o una a…”

“Aspetta nonno, aspetta, scriviamo” Sara spiana la sabbia davanti a noi e col bastoncino fermacapelli scrive Sapreonvo “Se noi riempiamo gli spazi in mezzo, facendo delle ipotesi, magari riusciamo a capire che c’era scritto. Qui ad esempio, tra i primi due c’è quella grossa macchia, potrebbero essere due parole. Vedi qui? La macchia è una striscia sottile, non c’erano lettere alte né basse. Il pre potrebbe essere la fine di sempre. Poi dopo non c’è bianco, nessuna macchia, e che parola finisce con on?! Non ce n’è tante in italiano”

“Don?” azzardo io ancora intontito.

“Sé, come no! Scriveva al prete, questo qua!” trancia Sara con pragmatismo “Secondo me è una preposizione, con! E cosa può concludere una frase così meglio di voi? Sa… non si sa che, e poi sempre con voiSaSasempre con voi… Che può essere?…  Ma certo! Sarò sempre con voi! È un addio! Ecco, ha messo le foto dei suoi cari e gli ha detto addio…!” di colpo Sara si zittisce, finalmente consapevole di quel che sta dicendo, dell’enormità di ciò che ha scoperto.

Ce ne stiamo lì zitti zitti, fianco a fianco, incapaci di parlare, intenti a osservare quei volti disfatti dall’umidità, quelle vite che come meteore hanno incrociato e sfiorato le nostre in una rovente giornata estiva. Vite fragili come ali di farfalla tra le dita, come carta velina sotto il colpo dell’onda. E ci sentiamo spettatori impotenti di un dolore senza contorni e senza possibile soluzione. Non sappiamo la storia che sta dietro questo messaggio senza mittente e senza destinatario, non potremo mai saperlo, ma ci sentiamo entrambi travolti da un’emozione a cui non sappiamo né possiamo dar voce. E così ce ne stiamo lì, guancia a guancia, con Sara che mi abbraccia le spalle e io che tengo una mano sulle sue, intrecciate sul mio torace, mentre con l’altra reggo le fotografie.

“Nonno…”

“Dimmi cara…”

“Io adesso vado… il pranzo sarà pronto. Però vieni anche tu che hai il naso tutto rosso. Sennò finisce che ti scotti” e prima di andarsene coi suoi tesori ben stretti in mano mi schiocca un bacio sulla guancia.

La osservo allontanarsi a passo leggero, con quel vestitino estivo che le frulla dispettoso intorno alle gambe. E il pensiero mi torna a mamma, al cerchio che ancora una volta si chiude, a come ogni cerchio sia destinato a chiudersi, se si segue l’istinto. E ripenso a quelle vite lontane e sconosciute, mi chiedo se il loro cerchio si sia mai chiuso, se siano mai tornati a se stessi, o gli uni agli altri… se si siano mai ritrovati.  È questo il destino? Il compiersi di un destino? Che senso ha questo procedere circolare, seguendo le vertigini di una spirale di emozioni in cui si sprofonda come tante meravigliate Alici?…

Oddio, ricomincio! Sarà questo sole che picchia come un martello.

Mi decido ad alzarmi dalla sedia a sdraio e mi incammino verso il capanno. Il sole mi osserva imperturbabile e io non riesco a ricambiare lo sguardo. Allora lo stringo nella mano, e diventa più sostenibile, quasi maneggevole… Alla fine scoppio a ridere per questi strani turbamenti senili e mi chiedo se il Vate, prima di scrivere le sue poesie tanto sature di sentimento panico, fosse solito abbandonarsi a pisolini sotto il sole cocente.

“… Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
… Perduta è ogni traccia
dell’uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m’abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio volto
s’indora dell’oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con ‘sì delicato
lavoro dell’onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s’affina.
E la mia forza supina
si stampa nell’arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.”

 

 

di Maddalena Gregori

(la poesia citata alla fine è “Meriggio”, di Gabriele D’Annunzio)

 

 

8 Risposte a “Il mio nome è Meriggio”

    1. Nostalgia ma non solo. Il ricordo del passato fa da ponte verso un futuro ancora da disegnare.
      Grazie per la visita e per il commento. Alla prossima

  1. chiedo scusa, mi ritrovo in questi paraggi su consiglio di Francesca, e riflettevo fra le varie mentre scorrevo questo post avvolgente (come proprio può essere il mare) che è proprio vero che ci sono molti lidi più o meno conosciuti, e non tanto per collocazione geografica, ma anche per collocazione interiore; e qui se ne riescono ad identificare davvero svariati, distesi ed estesi nei loro tempi, ad esaltare la risacca della coscienza nella consapevolezza di aver saputo domàre tante onde, senza mai sottovalutarle. E anche le bonacce in “stasi apparente”
    Complimenti – Raymond

    1. Grazie Raymond per la visita, per la lettura attenta e per il commento. Sì, sono numerosi i luoghi che nella vita ci capita di esplorare. E a volte è bello naufragare tra ricordi, sogni e desideri.
      Spero di poterti ancora vedere tra i miei lidi!

  2. Un bel racconto, dibattuto tra tenerezza e curiosità, tra poesia e mistero.
    Sai che anche io avevo il vezzo, qualche tempo fa, di prender spunto da poesie per costruire una storia?
    La figura del nonno è tratteggiata davvero bene, ricca di mille sfaccettature come lo è quella delle persone che hanno vissuto…

    1. Sei tornata alla tecnologia! Il pc si è rinfrescato? Grazie cara, della tua cortese presenza.
      I nonni, si sa sono figure mitologiche.

        1. E’ un nonno-tesoro. Un tesoro di ricordi, emozioni, pensieri tutti da scoprire.
          Grazie della visita e del commento!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.