MM (Momenti metropolitani)


 

Passo lesto, quello di prima mattina, quello del timbro d’ingresso in ufficio: la donna fruga nella taschina esterna della borsetta, ne estrae due biglietti, li scruta, uno lo rimette in borsa e poi si avvicina all’obliteratrice con un’espressione sospetta. I suoi occhi corrono al viso del controllore, poi fuggono verso il tornello, poi di nuovo lo sguardo scivola di sbieco verso il controllore, come a verificare se la stia guardando.

Piermario li riconosce a distanza, quegli sguardi che fuggono come ladri, quegli sguardi da ladri. Oramai sono sette anni che fa il controllore alla stazione metro di Porta Venezia e un po’ di esperienza l’ha accumulata: lo capisce in un lampo quando uno sta per obliterare un biglietto già usato, o scaduto, così, giusto per risparmiare un euro e mezzo. Ne coglie le espressioni tese, spaventate, o falsamente spigliate, ma sempre troppo cariche. E questa donna ha lo sguardo fisso, teso, di chi sta per…: “Signora, mi scusi, mi mostri il biglietto”. Lei rapida glielo porge e Piermario lo afferra con un sorrisetto, pronto a sentire la classica sequela di scuse e spiegazioni, di falso stupore. Ma stavolta lo stupore tocca a lui: il biglietto è valido!…

“Mi scusi” dice Piermario restituendo il biglietto con un’espressione a metà tra l’incredulità e la contrizione.

“Si figuri” risponde vaga Marta riponendolo nella tasca esterna della borsetta. ‘Che strano’ pensa tra sé e sé mentre si avvia verso le scale mobili che conducono ai treni ‘è bastato immaginare di avere un biglietto scaduto in mano per avere l’espressione da truffatrice’.

Mentre si intrufola tra le persone che si accalcano lungo la pensilina sorride, Marta, ripensando all’espressione stupita del controllore; sorride come per una personale rivalsa, per quella volta, parecchi anni fa, in cui la beccarono senza biglietto e le fecero una multa con ramanzina che ancora le brucia. Un vento caldo e un fischio metallico annunciano l’arrivo del treno già colmo e che, miracolosamente, riesce ad accogliere anche tutte le persone in attesa. A fatica, spingendo e strusciandosi contro corpi sconosciuti, Marta riesce a conquistare un angolino di fronte al sedile occupato da un bell’uomo in abito scuro, cravatta e una valigetta ingombrante posata a terra, che quasi la fa inciampare. L’uomo si avvede della cosa e afferra la valigetta posandosela sulle ginocchia. Ha l’aria scocciata, come se tutta quella gente che si mantiene a malapena in piedi aggrappandosi ai sostegni in metallo del treno si fosse raccolta lì, a quell’ora, apposta per fare dispetto a lui.

Con un violento scossone il treno riprende il viaggio lungo le oscure gallerie che si diramano nel ventre della città. Stefano stringe con forza la maniglia della sua valigetta e non riesce a smettere di pensare alla riunione che lo aspetta. Tutto il suo futuro è racchiuso in quel pezzo di pelle di vacca cucita a mano da un artigiano fiorentino: progetti, prospetti, preventivi. Con ansia tiene sott’occhio i nomi delle fermate che lo avvicinano alla sua meta sbirciando tra i corpi delle persone che si frappongono tra lui e il finestrino di fronte: ecco, la prossima è la sua!

Con fatica si alza ritagliandosi uno spazio tra i corpi: riesce a raggiungere dieci centimetri liberi da mani della barra di sostegno, si solleva e, usando la valigetta come fendifolla, conquista un posto di fronte alla porta d’uscita. Dietro di lui un’anziana signora sovrappeso scivola con una fluida torsione del busto sul sedile che ha appena lasciato. Il viso, deformato dai tessuti ammorbiditi dagli anni che avanzano, è quello di una donna che non è stata bella nemmeno da giovane, un viso perfettamente in tono con gli abiti modesti e senza eleganza. Ma quel viso anonimo è illuminato da uno sguardo attento e curioso, che sa di vita e di amore per tutto ciò che sfiora. Non appena seduta, Miriam si infila gli occhiali da lettura che tiene perennemente appesi al collo con una catenella e apre il libro che stringe tra le mani. La ragazzina al suo fianco sbircia senza troppa intenzione il contenuto del libro: poesie… che noia!

Ma Miriam ama la poesia, adora la poetessa che sta leggendo, assapora le parole una ad una, gode della magica commistione di suoni e senso, delle improvvise epifanie che solo una buona poesia riesce a offrire. Una buona poesia: sorride, Miriam, della stupidità del suo pensiero. Quante volte le è capitato di trovare, anche in un componimento globalmente scadente, un punto di eccellenza, un’immagine capace di infondere suggestioni uniche, di dare un nuovo senso al mondo, di illuminare recessi reconditi dell’anima, di… chissà se le sue poesie riescono a comunicare qualcosa anche solo vagamente simile a ciò che questa poetessa trasmette a lei. A volte, rileggendo i propri versi, ha l’impressione di aver còlto il punto, il nòcciolo di un tema. Altre volte invece vorrebbe gettare nel fuoco ogni suo libro. Ma tutti dicono che siamo i peggiori giudici di noi stessi, e d’altro canto i suoi libri vendono, le sue letture pubbliche sono sempre affollate e alla fine delle serate la gente si accalca per farle i complimenti. Eppure, eppure, un dubbio la rode sempre da dentro: il dubbio di non riuscire a penetrare il segreto fino in fondo, di restare suo malgrado sempre troppo in superficie a questa vita così ordinaria e meravigliosa insieme.

La ragazzina al suo fianco si alza di scatto, dandole una gomitata involontaria: “Mi scusi!” le dice con sguardo dispiaciuto mentre corre verso l’uscita, appena in tempo per sgattaiolare fuori prima che la porta scorrevole si chiuda.

“Niente, figurati” fa in tempo a dire Miriam, emergendo dai suoi pensieri, mentre la sagoma leggera dell’adolescente le scorre davanti come un sogno allo schiudersi delle palpebre al mattino.

Con passo lesto Laura si avvia verso le scale mobili che conducono all’uscita: ‘Poesia…’ si trova a pensare ‘Che tipa quella vecchia… pareva nonna Abelarda e invece leggeva poesie… di una che manco riesco a dire il nome… magari era una prof di italiano. Certo che non l’avrei mai detto! Pareva mia nonna! T’immagini nonna che legge poesie?’ Un largo sorriso le illumina il viso fresco e giovane, al pensiero di sua nonna, solitamente impegnata a cucinare pasta al forno e polpette, intenta a leggere pallosissime poesie. Giunta in superficie si guarda rapidamente intorno fino a quando non individua la sagoma di Andrea dall’altra parte della piazza, jeans a vita così bassa da poggiare sulle natiche, lasciando in bella vista le mutande, giubbotto di tre taglie in più, berretto americano con la visiera di lato. Proprio in quell’istante lui si gira verso di lei e con gesto indifferente solleva la mano nella sua direzione avviandosi per raggiungerla.

“Ciao amo’!” gli grida lei lanciandosi a baciarlo sulle labbra.

“Bella La’!” risponde lui con aria da duro. Ma poi si prendono per mano e vanno verso il fast food con andatura dinoccolata: due cuccioli imbarazzati.

Siedono a un tavolino vicino al finestrone coi loro due frappé, alla fragola per lei e al cioccolato per lui, perché in fondo sono ancora un po’ bambini e i dolci sono un retaggio dell’infanzia che ancora non hanno voglia di abbandonare. Se ne stanno lì, uno di fronte all’altra, a chiacchierare, a scambiarsi confidenze, oppure semplicemente a parlare di quanto sono rompi i grandi, i genitori, i prof, o forse a raccontarsi gli stupori dell’età, le passioni che ora dominano le loro vite e che pian piano svaniranno per far spazio alle preoccupazioni e alle gioie della vita adulta…

Ilinca, la vecchia accattona romena che ogni giorno se ne sta ammassata come un mucchio di stracci all’angolo di fronte al fast food, li osserva nascosta dal fazzolettone nero che le cinge il capo. Già da prima aveva notato Andrea, arrivato almeno un quarto d’ora abbondante prima di Laura, che aspettava cercando di darsi un contegno, fingendo di essere capitato  lì per caso. Un ragazzino un po’ ridicolo, con quei vestiti che lo facevano assomigliare a uno di quei fantocci che abitavano il centro dei campi di grano del villaggio rumeno in cui lei era cresciuta. E poi aveva visto Laura spuntare dall’altro lato della piazza e lui si era girato, come attratto da una calamita, come chiamato da una voce silenziosa, e il viso di Laura si era illuminato di un sorriso assoluto come un raggio di sole in una giornata di pioggia.

Ora li guarda da almeno mezz’ora, mentre se ne stanno al di là di quella vetrata parlando fitto fitto, tenendosi le mani, incapaci di andare oltre quei primi tocchi timidi.

E prega per loro, Ilinca, nel suo modo un po’ strano, che qui chiamano magia, stringendo nelle mani il suo amuleto, quel piccolo pezzo di ferro che tanti, tanti, tanti anni prima il suo Pavel le aveva donato davanti a quel treno che lo avrebbe portato lontano da lei, in un viaggio senza ritorno, per sempre.

di Maddalena Gregori

10 Risposte a “MM (Momenti metropolitani)”

  1. Unico, serrato, piano sequenza di vite che si snocciolano col loro carico di umanità attraverso un viaggio in metropolitana. Interrotto solo nel finale, da una regia che sceglie di donare al flusso esistenziale uno sguardo autentico di amore e di speranza. Inquadratura fissa!
    Sei da film, rassegnati!

  2. Bellissima, amara e precaria questa umanità che sfila, senza soluzione di continuità, davanti agli occhi del lettore. Quasi a comporre, fotogramma dopo fotogramma, il film della vita.

    1. Fotogrammi, o tessere di un mosaico che, se guardato troppo da vicino, appare caotico, ma se si fa un passo indietro rivela il disegno.

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