Moriturus te salutat!!!!

Bene, ci siamo.

Ormai non si torna più indietro.

Fuori sento la folla che rumoreggia, dentro sento le budella che si torcono. Accanto a me il lanista mi passa la tunica di lino, gli schinieri,  l’ampio cinturone di cuoio, le fasce con cui avvolgere il braccio sinistro e poi il parabraccio in metallo, che sale fino a ripararmi collo e faccia.

Mi tremano le mani ma cerco di mascherare questo antipatico movimento involontario al lanista, che mi fissa dritto negli occhi con espressione poco gentile.

So cosa pensa di me, me lo ha detto mille volte, e ieri mi ha anche detto che questa è l’occasione che ho per dimostrargli che non gli ho fatto sprecare tempo e denaro.

Da fuori arrivano urla, boati, silenzi improvvisi. Quelli che mi mettono più agitazione sono i silenzi: mi blocco, mi metto in ascolto, e il lanista mi strattona stringendo decisamente troppo i lacci del parabraccio.

Un boato improvviso costringe pure lui a girarsi verso il passaggio di comunicazione tra palestra e arena. Poi la folla comincia a urlare delle cose, prima voci isolate poi gruppi di voci, ma non si capisce cosa stiano dicendo. Devo dire che il fatto che parlino una lingua diversa dalla mia non aiuta. Allora osservo il lanista per cercare di capire dalle sue espressioni cosa stia capitando ad Antus, il mirmillone della nostra compagnia che si sta misurando con un colosso del doppio del suo peso.

Come un lampo, mi torna in mente il sorriso che Antus mi ha rivolto non più di un’ora fa mentre varcava il passaggio che lo conduceva all’arena. A lui è sempre piaciuto combattere, in palestra è il più coraggioso, azzarda mosse e agili scarti, risponde con fendenti pesanti e diretti. È coraggioso, e la cosa piace al lanista, mentre a me pare un po’ imprudente. Ogni sera mi ritrovo a curargli sbucciature, tagli, bernoccoli, e lui ride raccontandomi per filo e per segno ogni mossa sua e dell’avversario, scherza sulle sue ferite di combattimento e sembra non sentire il dolore. Una volta gli ho cucito un taglio sul mento e lui non smetteva di parlare, così mi è venuto un po’ male; e ora ha quella buffa cicatrice a forma di fiorellino che gli decora la parte destra del mento. Ma lui se ne infischia, perché più cicatrici ha, più le donne gli cascano ai piedi.

Ci sono certe signore, sposate, anche di nobili famiglie, che lo vengono a cercare e se lo portano via per notti intere. Poi lui, quando torna, mi racconta tutto: le richieste delle signore, le perversioni dei mariti (che quasi sempre sono a conoscenza della cosa e trovano un loro modo di godere degli incontri con Antus), i posti, il lusso, oppure lo squallore, a seconda dei casi. Ma, sia come sia, Antus torna sempre con un sorriso splendente, che gli fa arricciolare il fiorellino sul mento come stesse per sbocciare.

A lui piace questa vita e continua a dirmi che è molto meglio così che dove stava prima, in una casa piena di figli, con poco cibo e genitori sempre pronti a menare le mani, con la fatica nei campi che non dava tregua. E quando suo padre aveva deciso di venderlo non avrebbe potuto fargli regalo migliore, continua a dirmi.

Un po’ lo invidio. Invidio la sua capacità di godersi quello che questa condizione di schiavi privi di qualunque diritto sulla propria vita offre. Forse dovrei imparare da lui a vedere il positivo. Ma non ci riesco.

In fondo lui non ha perso niente, non aveva nulla da perdere. Io invece a casa ho lasciato una moglie giovane, sposata da pochi mesi, e non passa giorno che non ripensi alle mie montagne, al gregge di mio padre con cui ho trascorso l’infanzia, gironzolando per boschi e prati, suonando il flauto. Un paradiso da cui mi hanno strappato quel giorno in cui i soldati romani hanno attraversato il nostro villaggio spavaldi e aggressivi. Hanno aggredito mia madre e mio padre è corso in suo soccorso. Le sue grida mi hanno attirato verso casa dove l’ho visto in ginocchio, di fronte a un militare con le mani sporche del suo sangue. Mio padre, in ginocchio, teneva il viso rivolto verso l’alto con espressione stupita, e il soldato rideva.

Non so, non sono mai stato un coraggioso, ma in quel momento la furia mi ha accecato: ho afferrato con entrambe le mani il tridente in metallo che stava ancora appoggiato sull’incudine, in attesa che mio padre ne completasse la forgiatura per farne un forcone, e l’ho infilato con tutto il peso del mio corpo nel fianco del soldato. Lui si è girato, con un’espressione infastidita, come se una zanzara l’avesse punto. Poi una smorfia di dolore gli ha deformato il volto, mentre le ginocchia cedevano facendolo crollare sotto il peso della morte. In ginocchio, di fronte al corpo di mio padre.

Di lì a pochi minuti altri soldati giunsero, mi acchiapparono e mi trascinarono via, tra le urla di mia madre  e di mia moglie. I giorni successivi furono un inferno: botte, marce estenuanti, niente cibo, poca acqua sporca una volta al giorno. Tutte le sere mi riempivano di bastonate, per fiaccare ogni mia eventuale volontà di fuga. Avrebbero anche potuto evitarsi la fatica, ma mi era difficile spiegarglielo, visto che non parlavo la loro lingua. Quando arrivammo alla prima città, venni ceduto come schiavo a un mercante che mi portò al mercato della capitale, dove venni acquistato dal lanista, che si era invaghito di me per via della storia del forcone. Gli era sembrato un segno del destino e aveva deciso di fare di me un reziario.

E lì cominciò la mia nuova vita, spesa tra palestre, combattimenti, botte, sangue, e tanta tanta nostalgia per i miei monti e la mia vita. Non riesco proprio a rassegnarmi a questo inferno di paura e di dolore.

Ora il lanista è uscito per vedere che succede e io me ne sto qui seduto, anzi, forse è meglio dire accasciato, in attesa del mio turno per entrare nell’arena, per affrontare Barosus, l’inseguitore a cui sono stato abbinato nel mio primo combattimento con armi vere.

Un tramestio all’ingresso mi distoglie dai miei pensieri. Due schiavi travestiti da dei degli inferi trascinano il corpo esanime di Antus. La scia di sangue che lascia non fa presagire niente di buono, e men che meno l’espressione del lanista, che entra nella sala con le mani nei capelli. Antus era il suo campione, e vederlo morire così giovane, solo al terzo combattimento, è una bella botta.

Il silenzio di tomba viene rotto proprio dal lanista che, rivolto verso il corpo martoriato di Antus, mi dice “Ora tocca a te, Kritos” e poi, guardandomi finalmente negli occhi, con voce roca aggiunge “Cerca di resistere almeno qualche minuto e non farti ammazzare subito”.

Dalla saletta accanto vedo la sagoma di Barosus attraversare l’atrio diretto verso l’arena: un marcantonio alto come un gigante, massiccio come l’Olimpo. Si ferma un istante davanti all’ingresso della nostra saletta e mi rivolge un ghigno beffardo e offensivo. Sento la rabbia ribollirmi in corpo, come quel giorno, davanti alla risata di quel soldato romano.

Con uno scatto mi alzo in piedi cercando di assumere un atteggiamento fiero. Afferro il pugnale e lo infilo nel cinturone, poi acchiappo tridente e rete, le mie uniche armi, e saluto con uno sguardo il corpo di Antus, il mio giovane amico che tanto amava la vita.

Prima di uscire mi fermo di fronte al lanista e lo guardo dritto negli occhi: “Vetius, moriturus te salutat!”. Lui mi osserva con occhi nuovi, come se mi vedesse per la prima volta. Poi torna a sedere di fronte al corpo di Antus, le mani nei capelli. Senza badargli oltre mi incammino verso l’atrio: alla mia destra si scorge il chiarore provenire dall’arena, si ode il vociare del pubblico; immagino Barosus fermo davanti alla tribuna del governatore locale.

Devo andare: ora o mai più! Mi fermo solo un attimo, riempio i polmoni di aria, mi giro un attimo verso la saletta dove immagino il lanista seduto a fissare la propria disfatta e parto come un razzo, di corsa, verso sinistra, dove so esserci l’uscita dall’arena.

So che ci sono due guardie a controllare, ma sono armato e ben allenato, e poi conto sull’effetto sorpresa!

Il primo dei due mi si para davanti: con un abile lancio lo avvolgo nella mia rete, poi lo trascino usando il suo corpo come scudo contro il secondo, che nel frattempo è sopraggiunto. Raggiungo l’uscita e corro verso un carretto dotato di cavallo che vedo poco distante. Col tridente trafiggo alle gambe una figura che scorgo con la coda dell’occhio alla mia sinistra. Qualcosa urta con forza il mio paraspalla. Assorbo il colpo e riprendo a correre con foga maggiore. Intorno a me odo un urlo, molte urla, ma non ci bado. Corro come un ossesso, salto sul carro e incito il cavallo che parte al galoppo, quasi non stesse aspettando altro. In corsa, dal carretto salto sulla schiena del cavallo, taglio i finimenti che lo legano al carro.

Ora l’animale, liberato dal peso, sembra volare. Dietro di me sento altre urla: mi giro e scorgo due soldati a cavallo piroettare su se stessi con le loro bestie, travolti dal carretto.

Dietro di loro solo alcune figurine a piedi, che si agitano e urlano minacciandomi con ampi gesti impotenti. Rido forte, ormai certo che non riusciranno a fermare la mia corsa verso la libertà e, aggrappato alla criniera del mio compagno di evasione, con tutto il fiato che ho in gola urlo: “Ve salutoooooo, ‘a morituriiiiiiiiii!!!!!!!”

 

di Maddalena Gregori

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