Rosso che sfuma

Lento il rollio cadenzato del treno mi culla mentre lo sguardo corre sperso sul paesaggio che scivola al di là del finestrino. Una voce, scossa appena da un lieve tono di aspettativa, annuncia: “Ecco San Luca!”.

Guardo incuriosita verso la collina indicata dalla proprietaria della voce. Chissà che mi credevo di vedere. In un primo momento mi ero immaginata un’imponente figura umana circonfusa di luce divina che si staglia sulla collina. Con accanto un altrettanto smisurato bue che placido rumina. Ma non è così. Vedo, invece, sulla cima del colle, un edificio dalle scarse qualità estetiche. Una chiesa, ma più simile a una confezione natalizia per pandoro. Da lì, come un lungo verme di mattoni, si diparte il portico più lungo d’Europa, che striscia lento fino alla città.

La vista del santuario scatena tutta una serie di reazioni tra le persone che popolano lo scompartimento: chi si alza infilandosi la giacca, chi scende i bagagli, chi ripone libro, quaderno, settimana enigmistica nella borsa. Una sorta di serena frenesia colpisce i miei compagni di viaggio e mi viene il sospetto che la fermata sia ormai vicina.

Bologna. Per ora solo un nome, ma presto diverrà la mia patria d’elezione.

Tuttavia, come dicevo, per ora è solo un nome. Il treno scivola senza fretta nell’area della stazione ferroviaria. Poco prima dell’ingresso dell’atrio principale della stazione noto una vistosa spaccatura a “V” nel muro, chiusa da lastre di vetro: il ‘ricordo’ della bomba esplosa nella sala d’aspetto (di seconda classe, chissà perché) il 2 agosto 1980. Quanti anni sono passati da quel giorno. Quanti anni, e quante vite sono passate… eppure il ricordo è ancora vivo.

Ancora oggi ogni tanto capita, qui a Bologna, di incontrare qualcuno che ti dice, con tono sommesso e aria meditabonda “Io c’ero, ero lì”. E ti accorgi che si sente diverso da te. Quelli che ‘c’erano’ si sentono un po’ come i dinosauri, vicini all’estinzione, sapendo che nulla resterà, dopo di loro, del sangue e del dolore che i loro occhi hanno conosciuto in quell’estate lontana.

Lontana nel tempo, sì, ma presente nella mente, nelle emozioni, nelle sensazioni. Quando la memoria ci torna le impressioni sono ancora tutte lì: il boato, così forte e improvviso che ancora non ci credi, che ancora pensi che forse te lo sei solo immaginato, e le orecchie che fischiano e il cuore che romba, mentre un silenzio innaturale ti avvolge.

Poi ti accorgi che un istante prima eri lì in piedi, a parlare con quell’amico incontrato per caso fuori dalla stazione ferroviaria, dove eri andato a fare un biglietto, e ora invece sei sdraiato scompostamente dietro una macchina parcheggiata dall’altro lato della strada. Chi ti ci ha portato qui? Ti senti confuso, pensi di soffrire di amnesie, sei ancora lì che cerchi di capire, quando, dal fischio acuto che ti invade la mente, si distaccano, vaghe e poco distinte, alcune voci che ti riscuotono. Ti giri e vedi un uomo dal volto coperto di sangue che arranca, che continua a ripetere “Oddio! Oddio! La bomba! La bomba! Oddio!”

Cerchi di alzarti, ma ti accorgi che fai fatica, l’anca destra ti duole. Ti tasti con cautela per vedere se la botta ti abbia causato danni gravi. Il silenzio fragoroso che ti occupa la mente viene a tratti interrotto da voci che si accumulano, da un grido un po’ più forte degli altri “Qui, venite ad aiutare!”.

Finalmente ti alzi e davanti a te, al di là dell’auto che ti nascondeva la vista della stazione, vedi solo macerie e alcune persone avvolte da nuvole di polvere che girano lì attorno con l’aria sconvolta, le mani nei capelli, gli occhi sbarrati. Dal silenzio innaturale emergono solo i lamenti e il nome di Dio.

Mai Dio è stato tanto invocato nella città rossa, mai Dio è stato tanto colpevole.

Ti avvicini zoppicando, inciampando nei detriti che hanno invaso ogni angolo del piazzale, tossendo per la polvere che lenta si posa. Un uomo anziano siede su un blocco di  marmo sorreggendosi la testa con le mani. Gli chiedi se sta male, se è ferito. “No, mè sto bén … ma ch’là lé an sò brisa” risponde lui a voce bassa e ti indica un punto a terra un paio di metri più in là. Una mano bianca di polvere emerge da un mucchio di calcinacci e mattoni, un grazioso braccialetto pende a incorniciare il polso sottile.

“Ehi!” chiami urlando “Qui c’è qualcuno!”

Ma alzando il capo ti accorgi che tutti stanno scavando tra le macerie inseguendo i tanti ‘qualcuno’ che sono rimasti sepolti, e allora anche tu cominci a scavare. Sposti i detriti facendo attenzione a non gettarli dove potrebbero esserci altri corpi, e pian piano emerge un braccio, la spalla, il viso di una donna. Tutto attorno solo il rumore cadenzato di detriti rimossi, di gente che scava, e qualche voce che dà scarne indicazioni “Tiralo su dai piedi. Portatelo laggiù!”

Chissà da quanto tempo sei qui che scavi: sembra un secolo. Il silenzio inebetito che ha invaso la piazza dilata i minuti. Ormai hai liberato la parte superiore del corpo della donna e ancora non sai se stai aiutando una persona o se stai solo tirando fuori un cadavere.

Poi, da lontano, senti le sirene che si avvicinano e da quel momento sarà un concerto continuo: pompieri, ambulanze, auto della polizia. Due infermieri ti affiancano: “È viva?” chiedono.

“Non so, non capisco” rispondi facendoti indietro per lasciare spazio. Uno dei due ausculta con lo stetoscopio e poi annuisce. L’altro corre, va a prendere una portantina, ti fa cenno di aiutarlo a sollevarla, piano, senza scosse, mentre il compagno le mette un collare. La caricano su un’autoambulanza che è già piena di feriti, chiudono il portellone e se ne vanno. E tu resti lì, con le braccia che ti pesano lungo i fianchi. Poi ti giri: ‘devo tornare là a scavare’, pensi, ma le gambe non vogliono obbedire. Te ne stai lì immobile in mezzo a quella che era la strada finché qualcuno da dietro non ti urla “Largo!”. Ti sposti incespicando e lasci passare due infermieri che ti guardano di sottecchi. Caricano su un’ambulanza un corpo completamente ricoperto di sangue. Cerchi di capire se è un uomo o una donna, ma non riesci. Poi uno degli infermieri torna verso di te, ti afferra il mento, ti guarda negli occhi e chiede “Che ti senti? Ti fa male da qualche parte?” e, come se non aspettassi altro, scoppi a piangere annuendo disperatamente e indicandoti il torace, a sinistra, dove sta il cuore. Non riesci a parlare. Continui ad annuire e a indicare il cuore e l’infermiere allora ti circonda le spalle con le braccia, ti guida con calma fino a un furgone attrezzato per il soccorso sul posto, ti fa sedere sul bordo del marciapiede e annuncia al vento “Stato di shock”, poi ti dà un buffetto sulla testa e torna verso la stazione. Altre persone si avvicinano, ti danno un paio di pillole, un bicchiere di acqua fresca per mandarle giù. “Dove abita? Ce la fa ad andare a casa da solo?”

“No, no” singhiozzi come un bimbo “Devo tornare là ad aiutare”

“Ha già fatto abbastanza. Torni a casa, invece, che magari la sua famiglia è in pensiero”. Casa, famiglia,… un mondo che fino a un’ora fa era la tua realtà quotidiana, ma ora ti sembrano parole marziane. Casa… famiglia… esistono ancora una casa e una famiglia dopo essere stati immersi in un massacro?

 

di Maddalena Gregori

 

2 Risposte a “Rosso che sfuma”

    1. Il racconto è nato dal racconto di prima mano di un sopravvissuto alla bomba. Suo è il racconto del balzo improvviso da un lato all’altro della strada, suo lo stupore che non trova parole. Quella storia mi è rimasta a lungo sotto pelle, il seme ha germogliato portando con sé altre immagini e impressioni. E alla fine ha preso forma in questo raccontino a metà tra cronaca diaristica e racconto emozionale.

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