Tra i tasti

 

Plin plin plen…

Due dita affusolate mollemente pigiano i tasti ricavandone un abbozzo di melodia. Restano ferme per qualche istante e poi, come esauste: plin plin plen… ripetono il suono.

Una mano solcata da vene evidenti, alcune macchioline scure qua e là fanno capolino sul dorso e la pelle appare sottile e fragile, come carta velina.

Sono i segni dell’età che, implacabili, denunciano lo scorrere del tempo. Sono però anche i segni di una vita trascorsa tutto sommato nella comodità: non ci sono le nocche nodose e doloranti della nonna a segnare le dita, non i segni di lievi cicatrici da operaia di sua madre a ricamare il dorso.

A lei, insegnante di pianoforte, i lavori pesanti sono stati risparmiati. Una netta differenza di vita nutrita dalla sua ambizione, sostenuta dai tanti passi anche azzardati in cui ha condotto la propria esistenza. Gli studi, il Conservatorio, i primi concerti di provincia, i complimenti, gli applausi, quella sensazione estatica che le gonfiava il petto… e che ora non c’è più. In fondo era brava, ma non abbastanza da diventare una solista. E così, dopo anni da concertista, ha optato per una professione più tranquilla e sedentaria.

Plin plin plen… Il suono si spalma pigro da una parete all’altra della stanza, inutile e vuoto come il cuore della donna. Ma le dita, testarde, ancora cercano, in quella eterea sostanza, una risposta: plin plin plen…

No, non c’è risposta, non ci può essere risposta.

Forse perché lei non si è mai posta la domanda… o se l’è posta male.

Sul ripiano del pianoforte fa bella mostra di sé un biglietto d’auguri su cui si staglia, dolorosamente luminoso, un immenso campo di papaveri. Non lo apre. Il suo contenuto ormai lo conosce a memoria: “A colei che ha saputo darmi la vita!”.

La vita… quante cose sono racchiuse in questa parola, quanti significati le vengono dati. “Dare la vita”, poi!!! Quanta arroganza in quella frase.

Dal giardino giunge un cupo brontolio mentre improvvise raffiche di vento scuotono le fronde degli arbusti fioriti: all’orizzonte si addensa un temporale e, a quella vista, lo sguardo della donna si vela di lacrime. Di colpo si alza, spinge dietro di sé lo sgabello e getta il biglietto d’auguri nel cilindro di plastica nera che funge da cestino sotto al pianoforte; poi, quasi fuggendo, si avvia verso la cucina. Non appena vi giunge si arresta di colpo: per quale motivo è andata lì?

Asciuga rapidamente le lacrime col dorso della mano e afferra un vecchio libro di cucina poggiato sulla mensola. Più che usato, quel libro è stato infinite volte sfogliato, pensato. Ma cucinare non le è mai piaciuto. Per chi, poi?

Crolla a sedere e, le braccia appoggiate al tavolo, la testa appoggiata sulle braccia, si abbandona a un pianto doloroso e rumoroso, carico di singulti e di urla strozzate.

Come un’onda il dolore la travolge, le toglie il respiro. Immagini spezzate si affastellano nella sua mente: la prima volta che ha aperto la porta a quel ragazzo dall’aria spaesata, venuto a chiederle il prezzo delle lezioni di piano, lo stupore di fronte alle capacità naturali che quelle giovani mani racchiudevano che chiedevano solo di venire imbrigliate e domate. Ricorda i capelli perennemente spettinati, lo sguardo mesto e spaventato, che pian piano si era aperto a una confidenza speciale. Ricorda il frullo di quelle dita sulla tastiera, le lacrime di frustrazione di fronte a certi passaggi complessi, e lei che stringeva il suo capo al petto, carezzando lentamente i capelli, le guance.

Erano passati anni, durante i quali i progressi del ragazzo erano diventati veri e propri successi, e poi l’inizio di carriera, le tournée, le folle che non potevano resistere e balzavano in piedi applaudendo forsennate.

E lei che ogni volta si sentiva sempre più fiera di lui, sempre più legata a quel giovane uomo che doveva tutto a lei… La vita, le doveva.

Con l’arrivo del successo avevano smesso di frequentarsi con regolarità, anche se lui, non appena tornava in città, correva da lei, a raccontarle tutto. Sedevano per ore nel salotto, avvicendandosi al piano, discutendo di passaggi e scale, ridendo degli aneddoti da camerino che lui raccoglieva e che, come mazzolini di fiori, le offriva, sapendo quanto le piacessero. E lei si inebriava al profumo del suo affetto, del suo amore.

Sedeva accanto a lui, gli carezzava le guance, lo abbracciava di slancio. E lui, col suo viso luminoso e sorridente, con quello sguardo carico di totale fiducia, di confidenza rara, rispondeva con altrettanto slancio.

Poi un giorno lui venne a trovarla con una ragazza, una violoncellista incontrata in tournée. Lunghi capelli biondi inanellati, occhi color ardesia, elegante e soave. Una ragazza dolce e divertente, che le aveva portato in dono un mazzo di fiori e una scatola di biscottini. Sedettero, lui e la ragazza, sul divano, uno accanto all’altra, stretti stretti, stringendosi la mano, scambiandosi certi sguardi da colombi. Mentre lei, seduta in poltrona, da sola, sentì sfuggire dalle proprie mani quell’amore così a lungo coltivato e tenuto nascosto in fondo al cuore.

Come aveva potuto illudersi così? Come aveva anche solo potuto immaginare un’assurdità come quella? Lei era solo una donna mai stata moglie né madre, eterna ragazza. Ma ragazza non lo era più, e insieme alla giovinezza se ne erano andate anche le infinite possibilità d’amore che questa porta con sé. Era rimasta lei, da sola.

Un ultimo singulto e la donna solleva il capo dal tavolo: l’espressione del suo volto è affranta, esausta. Stancamente, va a sciacquarsi il viso al lavandino della cucina e torna in salotto. Dal fondo del cestino il rosso dei papaveri squilla come la risata allegra e pura di un bimbo. Un sorriso dolente le piega le labbra mentre si china e raccoglie quel grido rosso fuoco, lo stringe tra le dita e poi lo va a posare sulla trave del caminetto, accanto alla foto con dedica che lui, scherzando, le ha donato qualche mese prima.

Sulla finestra le gocce di pioggia rigano i vetri, mentre il brontolio di tuoni lontani accompagnano il temporale che va a scompigliare altre vite, in altri luoghi.

Con un sospiro che sigla la chiusura della sua follia amorosa, la donna siede al pianoforte, apre lo spartito della Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven e inizia a suonare, con calore, con dolcezza, con dolore, come mai prima. Anche se nessuno è lì ad ascoltarla.

 

di Maddalena Gregori

6 Risposte a “Tra i tasti”

  1. Non ho molto da aggiungere allo scambio di commenti tra te e Francesca. Rifletto.

    Mi soffermo però a notare che, come sempre nella tua scrittura, il racconto è curatissimo nei dettagli, fino alla scelta finale della Sonata al Chiaro di Luna di Beethoven che rimanda ad altri destini uniti dalla musica, altra solitudine e dolore per un amore incompiuto, come fu quello che Beethoven provava per una sua giovane allieva a cui dedicò la sonata. Pur nella solitudine, le nostre vite e i nostri sentimenti sono sempre “in compagnia”, intimamente connessi con l’intera umanità e qundi, per l’insegnante di piano, magicamente, c’è sempre qualcuno “lì ad ascoltarla”.

    1. Ho riletto il racconto, perché non lo ricordavo proprio. Non è tra i miei preferiti ma, nonostante certe forzature (dovute al fatto che si trattava di un racconto da scrivere usando obbligatoriamente alcune parole spunto) mi è piaciuto riscoprire il cuore eternamente giovane di una donna che ama senza risparmio, disperatamente, con passione. Ma che sa anche trasporre il suo amore in qualcosa d’altro, nella sua arte. Forse un po’ mi somiglia.

  2. Bel racconto, come ormai sono abituata da te, che ripropone l’argomento del post precedente. Esiste una solitudine scelta? Sembrerebbe di sì, a leggere la storia narrata come in filigrana. In fin dei conti lei la ha scelto la sua solitudine, no?
    Oppure è una solitudine imposta dalla vita come risultato delle sue illusioni?

    1. Bellissima analisi: inseguire illusioni non è forse un modo per scegliere i conseguenti fallimenti? O forse è solo un modo per scegliere di non rinunciare a inseguire i sogni e a cercare di perseguirli. Chissà dove si situa il confine tra l’essere fedeli a se stessi e il non saper accettare la realtà.

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