E tu… come sei pallida! e stanca, e muta, e bella

Mamma adorava la lirica e amava i melodrammi, e così lo aveva chiamato Otello. Non era mai riuscito a capire cosa le piacesse di quel personaggio violento e stupido.

Lei una volta gli aveva detto che lo considerava taaaanto romantico. Ma ad Otello un uomo che ammazza la donna che ama e che poi subito dopo piange perché l’ha uccisa più che un romantico gli pareva un deficiente, e non certo uno a cui ispirarsi per dare il nome a un figlio. Ma tanto mamma si era sposata uno stronzo come papà, cosa ci si poteva aspettare da lei?

Se proprio doveva scegliere un personaggio da usare come modello, sarebbe stato meglio D’Artagnan, uno che era riuscito a diventare protagonista di un romanzo nel cui titolo c’erano altri tre. “I tre moschettieri”, che uno pensa che la storia riguardi ‘sti tre tizi e invece no, alla fine il personaggio più figo è D’Artagnan, che non è neanche uno di loro: arriva da fuori, ne sa meno di tutti e alla fine ci fa un figurone da dio.

A Otello piaceva talmente tanto, D’Artagnan, che da bambino ci si faceva chiamare da tutti. Girava sempre con la cappa in raso, il cappellaccio di cartoncino con la piumona di lato e uno spadino di plastica che si piegava tutto e che nel tempo si era ridotto a un fulminello argentato.

Anche adesso che bambino non è più gli amici al bar lo chiamano ancora D’Artagnan e sotto sotto un brividino lo prova ancora. Però un brividino di rabbia, perché gli pare che lo piglino un po’ per il culo.

Sì perché lui protagonista non ci si sente proprio.

Ormai è più vicino ai 40 che ai 30, non ha un lavoro, non ha una casa sua, non ha una donna.

A scuola non è mai riuscito a fare niente di che. Bocciato, rimandato a settembre, ribocciato. Alla fine non era nemmeno riuscito a ottenere il titolo di meccanico all’Accademia Formativa Martesana di Gorgonzola. Lui avrebbe preferito fare il florovivaista, ma suo padre aveva insistito. Diceva che il fiorista era un lavoro da froci e lo aveva iscritto a meccanico d’auto. Risultato: odia talmente le automobili che non sa nemmeno dove mettere l’acqua per il tergicristallo!

Ma d’altro canto non ce l’ha neanche l’auto. Come potrebbe mantenerla?

Fino all’anno scorso ha vissuto con i suoi genitori, ma le cose andavano male, molto male. Lui e suo padre proprio non si pigliano e così erano urla ogni giorno, e pure botte da orbi. Finché non ci si era messa in mezzo la zia di mamma, chiedendogli di andare a vivere con lei perché ormai è anziana e ha bisogno di qualcuno che le faccia compagnia la notte, che la aiuti di giorno. E così è venuto a vivere con lei ma ne ha già i coglioni pieni.

Certo, rispetto all’inferno della vita coi suoi ora sta meglio, ma non è certo un paradiso.

Un purgatorio, ecco. La vecchia di notte si lamenta, sempre verso le quattro, quando lui si è giusto giusto addormentato dopo aver passato ore su internet a giocare, guardare siti porno, chattare con certe carampane zozzone che fanno mille moine in cam. Tra una cazzata e l’altra, lui tira fino a tardi, fino a quando le palpebre gli si incollano una all’altra. Allora si butta sul lettino e sviene sognando un sonno nero e vuoto. Invece la vecchia si mette a gridare chiedendo aiuto e lui, come uno zombie, si trascina fino alla sua camera, chiede che c’è e o la solleva o le scopre i piedi o glieli copre. Insomma, sempre per delle cazzate lo chiama, che pare stia morendo e invece ha caldo ai piedi, freddo al naso, prurito tra le scapole.

Lui torna a letto ma poi alle sei e mezza la vecchia chiama perché lei si sveglia a quell’ora. Anzi, resta sveglia dalle quattro, come gli spiega ogni volta, ma non vuole disturbarlo per cui resiste nel letto fino alle sei e mezza. A quel punto deve aiutarla ad alzarsi, a scivolare sulle pattine fino alla cucina, le prepara il latte caldo con le fette biscottate. Poi alle otto e mezza arriva la donna che pulisce casa, lava la nonnetta, cucina e lui può tornare a svenire su quel lettino da bimbo fino all’ora di pranzo.

Al pomeriggio va al bar per un paio d’ore, intanto che la vecchia si sciroppa telenovelas alla tivù, e poi rientra per l’ora di cena. Dopo cena la prozia recita un rosario per i fatti suoi e poi è già ora di metterla a letto. La aiuta a sfilarsi i vestiti, a infilarsi la camiciona da notte in flanella, e poi la fa sedere a letto. Ma prima di tirare su le coperte deve massaggiarle le ginocchia coll’unguento all’arnica, altrimenti di notte il dolore non la fa dormire. In quei momenti prova un misto di affetto e di pena, per quel corpo debole, la pelle soffice e cascante, la carne che pare volersi staccare dalle ossa. Gli sembra di maneggiare un uccellino, la testolina minuta, dai capelli fragili e sparacchiati qua e là. Un pulcino, pare, e a lui viene voglia di abbracciarla, di dirle che deve stare tranquilla perché ora non è più sola e c’è lui a prendersi cura di tutto.

Dopo averla messa a dormire resta per un po’ sdraiato sul letto, le mani sotto la nuca, lo sguardo sperduto tra le macchie del soffitto. Su quelle ombre proietta la propria vita vuota e senza futuro, e in quei momenti gli pare quasi che solo la prozia gli voglia bene, che, se non ci fosse lei, lui sarebbe solo al mondo. Dalla camera vicina arriva il suono sommesso del sonno affaticato di zia, e allora gli sgorgano le lacrime al pensiero che lui ha solo lei e che lei ha solo lui. Ma a quel pensiero gli viene il nervoso, si alza di scatto, si asciuga le lacrime e si mette al pc, a riempire le ore successive tra film, chat e seghe, fino a quando non arriva l’ora di sbattersi su quel lettino da bimbo. E poi zia lo chiama, e ricomincia la solita solfa.

Una vita strana, insomma, su cui non c’è certo da costruirci sopra un futuro. In cambio del suo aiuto la prozia gli offre ospitalità, linea adsl e una mancetta con cui Otello a malapena riesce a pagarsi le sigarette e le puntatine al bar.

Ha provato a chiederle dei soldi in più, ma lei non la capisce, ragiona con la testa di una volta. Ancora fa i conti con le lire, figuriamoci!

Insomma, una situazione da far andare ai matti chiunque.

A metterci il carico ci pensano poi gli amici al bar: “Ehi, D’Artagnan, dov’è la tua Duchessa?” “Ti piacciono le tardone, ormai!” “Dì un po’, il tuo spadino continua a piacerle?” “Ti tiene a stecchetto, eh? Ti dà la mancia ogni volta che glielo fai vedere?”.

Hai voglia a spiegargli che la vecchia è solo un ripiego del momento: “Allora lo fai per soldi!” “Una vecchia sola avrà un mucchio di quattrini da lasciare dopo morta” “Che fai? Te la coltivi per l’eredità?” “Se continua così fai in tempo ad invecchiare prima di vedere un quattrino” “Ma no, che dici? Gli dà la mancia, no?” E giù risate. Allora lui si incazza e gli altri, per fare ammenda, gli offrono da bere. Così, di battuta in battuta, certi giorni si tracanna delle gran birre e arriva a casa misurando la strada da un marciapiedi all’altro, più e più volte, come se ogni volta perdesse il conto e dovesse ricominciare da capo a contare i passi. E strada facendo ripensa alle battute e gli viene il nervoso all’idea di rientrare in quell’appartamento dall’odore di verdure lesse, dove lo aspetta la solita minestrina serale, il mormorio del rosario, una cameretta da bambino che lo trascina indietro nel tempo, a quando suo padre rientrava ubriaco e menava sua madre, e se lui si metteva in mezzo allora suo padre menava anche lui. Certe sberle che gli venivano i conati di vomito, che gli facevano sgorgare il sangue dal naso a fiotti, a schizzi, e lui metteva le mani sotto come a cercare di fermare l’emorragia, ma quella non si fermava e il sangue schizzava tutto intorno, sulle pareti a disegnare geroglifici dal significato oscuro, segni fatti di paura e di rabbia repressa, urla scomposte.

Con le mani Otello cerca di cancellare quei segni orrendi che imbrattano la parete del tinello: li odia, non vuole più vederli, ma più sfrega più quelle macchie si fanno grandi e allora si protende con tutte e due le mani e cade sulle proprie ginocchia, ma non perché è ubriaco: perché c’è qualcosa ai suoi piedi che lo fa inciampare. Stacca le mani dal muro e abbassa lo sguardo, resistendo alla nausea da sbronza. Sotto di lui giace il corpo minuto della zia, ovunque c’è sangue! Alza lo sguardo spaventato: “Papà! Stronzo del cazzo! Guarda che hai fatto!” urla brandendo il coltellaccio da cucina che gronda sangue, ma suo padre non risponde e non si fa vedere: dev’essere fuggito, quel vigliacco. “Brutto stronzo, guarda che hai fatto!” strilla con una vocetta acuta che non si riconosce. “Zia, zietta” comincia poi a piagnucolare piano cercando di sollevare quel corpicino da pettirosso “Zietta per favore apri gli occhi! Zia, cazzo, non fare la stronza! Porca troia, zia, ora la pianti di fare la vittima, ora la pianti, ecco! Io son stufo, stufo marcio di starti dietro, mi hai rotto le palle… Apri gli occhi, zia… dai non fare così, mi fai paura… Ti prego zia!…”

 

di Maddalena Gregori

4 Risposte a “E tu… come sei pallida! e stanca, e muta, e bella”

  1. Penso sia difficile equivocare le tue intenzioni, cioè pensare che tu voglia dire che la follia sia giustificazione della violenza, o sinonimo di violenza. I tuoi racconti sono finestre sul mondo prive di giudizi preconfezionati.
    Sul “Ma la follia è certamente sempre sinonimo di dolore. Ecco, questa non ha nulla a che vedere con la dolce follia di Clotilde. Là la follia è fuga, qui è prigione.” è un po’ come dire “Cinquanta sfumature di… micio!” Sembra una battuta allegra, ma rubo titolo e senso (per me) di quel racconto per le infinite declinazioni del dolore e le infinite reazioni della mente e dell’anima che le prova. Credo che nel blog tu offra una ampia lettura di sfumature del dolore.

    1. Sì, devo dire che mi piace raccontare i moti dell’anima di ognuno di noi, le infinite sfaccettature di cui brilliamo o dietro cui ci nascondiamo

  2. Mamma mia che angoscia! Un racconto diverso dagli altri anche nello stile. È fortemente claustrofobico, come l’insania di Otello che compie il destino omicida del suo odiato nome. Non so cosa dire, sono disarmata dalla crudezza e dal dolore che ho provato per questa vita infelice. Bellissimo racconto, brava, davvero brava nel trasmettere la tragedia di una esistenza.

    1. Grazie, ho sofferto per Otello, imprigionato nella sua incapacità di uscire dal dolore di una vita fallimentare, da outsider. Un fallimento che è sintomo di un disagio più profondo, che trova le sue radici in un’infanzia dolente e che confina con quella che chiamano follia e che gli altri, gli “amici” del bar, sanno benissimo riconoscere. Con questo racconto non voglio dire che la follia sia giustificazione della violenza, e nemmeno che la follia sia sinonimo di violenza. Ma la follia è certamente sempre sinonimo di dolore. Ecco, questa non ha nulla a che vedere con la dolce follia di Clotilde. Là la follia è fuga, qui è prigione.

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