Un sogno è un sogno è un sogno è un sogn… (seconda parte)

Anselm Kiefer, Untitled, 1995 | Courtesy of Lia Rumma | © Anselm Kiefer

 

Per un bel po’ annaspo nel buio con la mano, senza capacitarmi del fatto che non riesco a trovare la peretta dell’abat-jour. Poi, sempre a tastoni, mi rendo conto che non sono nel mio letto. Mi sforzo di emergere dalla nebbia del sonno e finalmente ricordo: sono dai miei, nella cameretta di quand’ero bambino e di cui i miei non hanno mai voluto cambiare né l’arredamento né la disposizione dei mobili. La sensazione di straniamento è dovuta al fatto che questo letto, abituato come sono a quello a due piazze tutto per me, mi è ormai troppo piccolo. Finalmente, facendo mente locale sulla geografia di questa camera, trovo l’interruttore e accendo la luce.

Mi sento stranito, ho la schiena indolenzita dal materasso troppo morbido e mi sento stanco come se fosse notte fonda. Ma uno sguardo veloce all’orologio mi dice che sono già le nove e mezza. In questa casa le persiane impediscono anche al più piccolo barlume di luce di penetrare. A casa mia è il sole a svegliarmi: qui, invece, sembra di svegliarsi in una tomba.

Un mormorio sommesso proviene dalla cucina. Mi alzo stiracchiandomi e apro una persiana. È una luminosa giornata d’autunno, un sole tiepido accarezza le verdure dell’orto mentre il cane corre lungo il recinto della casa abbaiando ai passanti. Ora ricordo: è domenica e sono venuto in visita dai miei genitori perché dobbiamo festeggiare le loro nozze d’oro. Ieri ho avuto una giornata pessima, e devo dire che la nottata non è stata da meno: ho dormito talmente male che non mi sento per niente riposato. Tutti quei sogni uno dentro l’altro mi hanno svuotato, invece che rigenerarmi. Dopo l’ennesimo smodato sbadiglio davanti alla finestra, mi decido ad andare in cucina. La porta è chiusa e, al di là, si sente il mormorio di prima. Mi fermo a origliare prima di entrare: sono le voci di mio padre e di mia madre e hanno un tono sommesso, come di chi ha una conversazione intima. Temendo di disturbare, torno alla mia camera cercando di non fare rumore e riaccosto la porta.

Coi miei genitori non ho mai avuto molta confidenza e, siccome credo che non mi abbiano sentito alzare e non voglio metterli in imbarazzo, farò un po’ di rumore per dare loro modo di cambiare argomento, nel caso stiano parlando di qualcosa di cui non vogliono mettermi al corrente. Perciò sbadiglio il più chiassosamente possibile, emettendo quasi un ululato, apro con slancio la porta della camera e mi avvio sciabattando sonoramente lungo il corridoio.

Davanti alla porta della cucina ascolto per un istante: le voci si sono interrotte. Risbadiglio rumorosamente, per sicurezza, e apro. Mio padre e mia madre sono seduti, uno di fianco all’altro, al tavolo della cucina e hanno ognuno un libro davanti a sé. I loro visi sono rivolti verso di me, con un’espressione stupita: “Perché sbadigli così?” chiede mio padre “Hai dormito male?”

“No,” lo tranquillizzo “solo che questa settimana ho lavorato tanto che sono distrutto. Evidentemente una notte di sonno non mi è bastata per riprendermi.”

Osservo i loro visi ormai vecchi e mi sento travolgere da un’ondata di commozione. Le loro schiene ricurve, le loro mani intenerite dalla fatica. E solo ora mi rendo conto dei due libri che hanno davanti.

“Cosa sono quei libri?” chiedo “Che state facendo?”

“Ci stiamo leggendo delle poesie” risponde mia madre.

“Poesie?” sono sbalordito “Che poesie? E perché?”

“È che oggi si va tutti al bosco in bicicletta” spiega mio padre “e siccome poi lì si legge tutti qualcosa, noi volevamo preparare qualcosa di bello, di adatto all’occasione.”

“Al bosco?” sono sempre più sbalordito “Ma non dovevamo andare al ristorante a festeggiare le vostre nozze d’oro?”

“Sì,” riprende mia madre “ma poi si va al bosco. È così bello, ora che lo hanno piantumato tutto di nuovo, e ormai ci andiamo quasi ogni domenica. Ci si incontra, si legge qualcosa insieme, ci si scambia delle opinioni … Insomma, si sta un po’ insieme.”

“Ma insieme con chi?” chiedo io non riuscendo a capire molto di queste nuove tradizioni.

“Ma con chi vuol venire.” fa mio padre “Quelli del paese, insomma. Poi c’è zia Lina con zio Alvaro, loro vengono sempre…”

“Ah!” faccio io, come se ora mi fosse tutto chiaro “Non sapevo di queste vostre abitudini. Bello!”

Mi sorridono felici e riabbassano lo sguardo sui loro libri.

“Che vuoi per colazione?” chiede poi d’un tratto mia madre.

“No, non ti preoccupare.” faccio io “Mi arrangio da me.” E, passando loro accanto e sbirciando da sopra le loro teste, chiedo ancora: “Ma che libri sono? Cioè, di che poeti?”

“Il mio è tutto il Pascoli.” fa mio padre “A tua madre, invece, piace di più il Saba”.

“E state scegliendo delle poesie in particolare?” continuo a indagare io lanciando le domande dal cucinotto, dove mi sto preparando il caffè.

“Beh, sì.” fa mamma “Qualcosa di adatto alla circostanza. Al nostro anniversario.”

“Bella idea.” mormoro io, e mi ritrovo a pensare a com’è diverso essere vecchi oggi rispetto anche solo a trenta o quarant’anni fa. Tante cose si sono certamente perse, il grande nucleo familiare, il senso di appartenenza a una comunità ampia e composita, il rispetto per gli anziani. Ma in cambio si è ottenuto parecchio: la possibilità di scelte indipendenti dal condizionamento sociale, quella di mantenere la propria mente sveglia e attiva, attraverso stimoli culturali e intellettuali. Lancio un’occhiata di sguincio e osservo i miei genitori, le loro schiene curve sui due libri ciancicati dall’uso, le loro voci sommesse che si mormorano l’un l’altro le poesie prescelte.

È strano, perché, per quanto io mi sforzi, non riesco a ricordare mio padre con un libro in mano, figuriamoci di poesie! Mia madre, invece, qualcosa leggeva, ma solo qualche biografia di uomini famosi, cose facili, come diceva lei. Ma, d’altra parte, sono talmente tanti anni che vivo lontano da casa che, per quel che ne so io, potrebbero persino essersi iscritti a dei corsi universitari.

Sorseggio il mio caffè commosso dal sentimento di intimità familiare che questa mattinata mi regala e poi, cercando di non disturbare, torno in camera a prepararmi per la grande festa.

Mi sono portato un abito elegante, camicia con sparato a piegoline, gemelli d’oro, scarpe inglesi lucide. Una volta lavato e vestito mi dò un’occhiata allo specchio: un vero damerino. Mi giro un po’ da un lato e dall’altro, per controllare come cade la giacca, ma il mio sguardo viene attratto da qualcosa di insolito sulla mia testa. Se la giro un po’ a destra, mi sembra di notare una chiazza chiara, come una chierica. Per carità, so benissimo che sto andando in piazza. Alla mia età è normale. Ma non credevo di essere ridotto così. Osservo meglio e, con raccapriccio, mi accorgo che si tratta di una zona del cranio completamente priva di capelli, come se avessi perso un’intera ciocca. Sembro colpito da un’improvvisa alopecia. Mi tocco il punto pelato del cranio cercando di capire cosa possa essere successo: la pelle è liscia, morbida e gradevolmente calda. Poi scorgo la ciocca persa. Se ne sta lì, posata sulla giacca elegante, mollemente sparpagliata sulla spalla sinistra. E, all’improvviso, una seconda ciocca la raggiunge. Osservo terrorizzato la mia testa: ma che sta succedendo? Sto perdendo i capelli a vista d’occhio, mi cascano così, senza motivo apparente. Sotto ai miei occhi il dramma si compie: ciocca dopo ciocca, il mio capo si sguarnisce lasciando uno sgradevolissimo effetto spennacchiato. Con un gesto disperato, poso le mani sul capo, quasi cercando di fermare lo scempio, ma ottengo, invece, il risultato opposto. Come stimolati dal contatto delle mie mani, ora tutti i capelli abbandonano la loro sede originaria e vanno a posarsi chi sulla giacca, chi sullo sparato della camicia, chi a terra, chi sulle punte delle mie scarpe inglesi. Spalanco la bocca nel tentativo di chiedere aiuto, di chiamare mia madre, ma invece di un suono, dalla mia bocca escono un paio di denti: un incisivo superiore e un molare. Osservo la gengiva impudicamente nuda, nel punto in cui i denti sono cascati, mentre due grosse lacrime si gonfiano nei miei occhi: proprio oggi che c’è la festa!

Come farò, come potrò presentarmi ai miei parenti?. Già me li sento: “Ecco perché non si è mai sposato. E chi lo vuole? Guarda com’è ridotto. Pare più vecchio dei suoi genitori…” e così avanti fino all’esaurimento dei veleni. I pensieri si accavallano velocemente nella mia testa: la vergogna, la rabbia, la paura, il desiderio di trovare una soluzione. Ma la tragedia è irreparabile: a uno a uno sputo tutti i denti. Me li ritrovo nei posti più impensati, sotto la lingua, tra la guancia e la gengiva, uno quasi lo ingoio. Tossisco per eliminare il corpo estraneo dalla gola e, nello sforzo, … mi sveglio.

Con un sollievo indescrivibile mi rendo conto che era tutto un sogno: tutti i miei capelli sono ancora al loro posto, perfettamente ancorati al cuoio capelluto, e lo stesso vale per i denti, ognuno incastrato nel suo personale alveo gengivale. Dio, che incubo! E che notte terribile. Una sensazione di pesantezza e di nausea mi ricordano quella che è, probabilmente, la causa di tutti i miei mali notturni: il baccalà con la polenta di ieri sera. E d’altra parte ero invitato in casa d’altri: non potevo certo fare il noioso chiedendo un menù a parte! Una sete terribile mi attanaglia la gola (ecco il perché del dente da sputare) e così prendo il bicchiere posato sul comodino. In un lampo mi torna in mente il sogno con l’assassino e la paura provata. Osservo con un flash di terrore il bicchiere e il suo contenuto: nessuna traccia di sangue. Meno male!

Ma mentre sto per accostare il bicchiere alle labbra, odo un frenetico rovistare al piano di sotto. Il cuore mi si blocca. Questione di un attimo: il campanello del gatto mi chiarisce la provenienza dei rumori. Per tranquillizzarmi del tutto, però, lo chiamo: mi risponde col suo tipico miagolio tremulo che vuol dire “Sono qui” e poi sento il suo passo, cadenzato dal campanellino, mentre sale le scale. Entrando nella camera da letto, il gatto alza il muso, mi guarda e mi lancia il suo querulo buongiorno, poi balza sul letto e comincia a strusciarsi contro di me facendo le fusa. Finalmente bevo, placando l’arsura che mi bruciava la gola.

Il sole, già alto, filtra lieve dalle fessure delle spesse tende che ricoprono le finestre e l’orologio mi rivela che sono già le otto. Oddìo! Faccio mente locale cercando di capire se ho scordato di mettere la sveglia o se sono esentato dall’andare al lavoro: oggi è sabato. Bene: l’anniversario di mamma e papà è domani e stasera andrò da loro. Ho tutto il pomeriggio per scegliere loro un regalo, ritirare l’abito dalla lavanderia, organizzare il viaggio. Mi sdraio per un altro po’ nel mio lettone comodo, ancora caldo e così piacevolmente disfatto. È la mia tana, questo letto, il mio rifugio preferito. E dentro di lui accolgo solo chi amo veramente, gatto compreso, visto che ora si è scavato un passaggio sotto le coperte e, seguitando a fare rumorosamente le fusa, si è sdraiato al mio fianco invitandomi a un sonnellino fuori programma. Ma io so che non posso permettermelo, perciò concedo al gatto una decina di minuti di coccole e mi alzo, scendendo al piano di sotto. Come ogni mattina, eseguo le operazioni rituali: pipì, poi i croccantini nella ciotola del gatto, che non ha smesso di strusciarsi per un solo attimo contro le mie gambe, e infine la caffettiera. Accendo il fuoco e sto lì in piedi, appoggiato con le mani al bancone della cucina, a occhi chiusi, aspettando che il caffè salga. Il gorgoglio della caffettiera e l’aroma pungente dell’eccitante bevanda sono, come ogni mattina, il vero momento del mio risveglio. E così, anche oggi, a quel richiamo mi scrollo di dosso gli ultimi brandelli di sonno. Mi verso il caffè, lo sorseggio guardando fuori dalla finestra e …

Mio Dio! Il mondo non c’è più! Tutto è sparito dietro una magica nebbia che pare fatta di nuvole. Sparito il vecchio cortile fatiscente, le ringhiere con i panni stesi, il vecchio albero grigio oppresso dal cemento. Svanito, dall’orizzonte, anche lo squallido profilo dello snodo ferroviario che passa qua vicino, svaniti i fili elettrici, le antenne pendule e i palazzi anonimi dei dintorni. Al loro posto, solo nuvole. Poso la tazzina, mi sfrego gli occhi, spalanco la finestra sbalordito e mi sporgo per guardare meglio.

Al posto delle fondamenta del palazzo, nuvole soffici e bianche, vaporose masse candide. Persino i piani inferiori sono spariti, sostituiti (indovinate un po’?) da nuvole, masse di cumuli e nembo-cumuli che sorreggono il mio appartamento e lo fanno librare nel cielo più azzurro e più limpido che abbia mai visto. Mi precipito nella stanza di fianco, che si affaccia sulla strada e, manco a dirlo, davanti a me solo un paesaggio di nuvole. Spalanco anche quella finestra e una brezza leggera mi scompiglia i capelli. Respiro a pieni polmoni e sento l’odore della libertà invadermi, carezzare la pelle, penetrare nei pori, scivolare nelle vene. Sono solo, ma non mi sento tale. Anzi, mai come ora mi sento realizzato, a posto, completo. Non ho più bisogni e so che questa è la perfezione.

A un tratto la brezza si fa più forte: le due finestre aperte hanno creato una corrente d’aria che sta sollevando la casa trascinandola tra le azzurre immensità del cielo, verso mete che nemmeno riesco a immaginare. E, sarà per quest’aria forte e frizzante, sarà per il movimento improvviso della casa, ma una vertigine profonda mi cattura, mi trascina, e in essa mi disperdo, sereno. E, all’improvviso, mi sveglio ….

di Maddalena Gregori

6 Risposte a “Un sogno è un sogno è un sogno è un sogn… (seconda parte)”

  1. I miei ringraziamenti sono banali ma dovuti. Per me è un onore sapere di averti offerto addirittura qualche spunto con la mia lettura.
    È interessante, e arricchente, conoscere la genesi del tuo racconto e i vari aneddoti che lo animano, compresa la paura alla Dario Argento.
    Mi fa sorridere il pensiero che la giuria dell’ikea non ti ha filato. Diciamo che il racconto ben poco si adatta ad uno schema precostituito e di facile assemblaggio, come i mobili della multinazionale svedese.
    Grazie, Dealma!
    … però in futuro vorrei vedere un tuo racconto al cinema. Adoperati presso qualche regista.

  2. È meglio se non ci penso troppo e seguo le suggestioni di una prima lettura poco meditata.
    Penso che riderai molto della mia, chiamiamola interpretazione. Sii clemente! In realtà si potrebbero passare le giornate a scriverne mille e sarebbero tutte insufficienti.

    Perdonerai il furto religioso, ma vien da scriverti subito: Passione, Morte e Resurrezione di un essere umano.

    Il protagonista è alle prese con le paure di affrontare i problemi della sua esistenza. Forse pensava che bastasse ignorarle, metterle a tacere sperando sparissero da sole. Ma le paure sono più attive del protagonista, e incominciano a minacciarlo, a braccarlo senza pietà, costringendolo ad investire tutte le sue forze nella fuga. Finché lo stanano e lo attaccano per sbranarlo.

    Lui non muore, si prende solo una bella strizza. Giusto il tempo per ritornare nel suo centro di equilibrio, e credere sia sufficiente per averla fatta franca anche stavolta, le paure si materializzano in un’unica grande entità, una Paura smisurata che si impossessa del suo luogo più sicuro e, in un inaspettato crescendo di orrore come in uno dei migliori film di Hitchcock, uccide l’uomo spietatamente.

    Non è finita qui, sarebbe troppo facile. La vita sa essere ancora più crudele di un assassino. Si fa beffa di lui e lo fa rinascere per metterlo, ancora, alla prova. Una nuova opportunità, ma di quelle in cui il fattore tempo fa da padrone. Lo costringe ad una scelta repentina, una risposta tempestiva, senza se e senza ma, senza tergiversare. Ma lo slancio del protagonista, nonostante il coinvolgimento iniziale in prima linea, è quasi “suo malgrado”, quindi sofferto e prevenuto e, nell’arco di una poppata alla nuova esistenza, cresce a dismisura il suo distacco verso l’opportunità che gli si è parata dinanzi e si abbandona nuovamente all’inerzia.

    L’ennesima sconfitta lo porta inevitabilmente a fare i conti con il suo passato, a partire dalle sue origini: la casa natale, dove, contrariamente a quel che aveva immaginato, i suoi genitori sono vecchi ma più giovani di lui e felici di un’esistenza pienamente realizzata nella gioia delle piccole cose. Una scoperta che si accompagna all’orrore dell’effetto del tempo su di lui. Adesso è il momento della consapevolezza che potrebbe non avere più molte altre occasioni, non è il bel damerino eternamente giovane e il suo corpo sta rapidamente e rovinosamente deteriorando insieme alla sua anima.

    Questa presa di coscienza fa sì che si ridesti dal torpore e comprenda qual è la via per non morire in vita. Si prenderà cura del suo mondo interiore, lo renderà leggero e impalpabile come le magiche nuvole, per innalzarsi sopra le brutture e il grigiore del mondo con cui non ha mai saputo convivere. Sa che il grigiore è sempre lì ma sotto di lui; lo ammanterà di quella bellezza, libertà e serenità che sono sempre state in lui e che, fino a quel momento, aveva erroneamente cercato fuori.

    PS: il sogno continua… 🙂

    1. Wow! Che analisi meravigliosa! Freudiana, direi.
      Mi è piaciuta moltissimo perché secondo me la scrittura ha un tratto onirico: quando scrivo le idee fluiscono, senza un eccessivo controllo (a parte sintassi e ortografia) e non le analizzo, le lascio scorrere. In questo caso ancora più del solito perché si parlava proprio del sogno. Ma la tua interpretazione mi ha conquistata, mi ha offerto una chiave di lettura eccezionale e molto intima.
      Aggiungo un paio di elementi: il racconto è nato per un concorso dell’Ikea che aveva come tema la camera da letto. Naturalmente non mi ha filata nessuno. Però lo spunto di origine, come vedi, è piuttosto banale.
      La seconda parte del sogno (quella dell’assassino che sale le scale) per lungo tempo mi ha terrorizzata e quando la rileggevo mi aumentava il battito cardiaco. Cosa che mi faceva ridere, perché sapevo benissimo come sarebbe andata a finire (l’avevo scritto io!) ma mi terrorizzava lo stesso. Mi sono consolata anni dopo quando, durante un’intervista, Dario Argento raccontò che quando scriveva le sue sceneggiature si faceva così paura da solo che una sera era addirittura uscito di casa ed era andato a trovare il portinaio per fare due chiacchiere 😀
      Per chiudere, la definizione di “bel damerino eternamente giovane” mi ha colpita perché l’ho sentita molto azzeccata per quanto riguarda me stessa. Ormai non sono più una bella damerina, ma quello stato di eterna adolescenza me lo sono portato dietro a lungo, e forse ancora mi abita in qualche remoto recesso dell’Io.
      Come ti dicevo, mi mancavano le tue interpretazioni! Sei una lettrice molto recettiva e ogni volta mi offri nuovi stimoli.

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