Stanislao Bellagamba – I

Contadino con falce
Archivio fotografico – Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio(Bo).

 

Stanislao Bellagamba era uomo d’altri tempi.

Da più di un decennio galleggiava sull’onda degli anni che gli erano rimasti da vivere, attraversandoli quasi inconsapevole, in attesa dell’estremo guado.

Era nato all’inizio del secolo precedente a quello in cui si trovava ormai a sopravvivere. Un secolo di cui aveva avuto la ventura di vivere i momenti più tragici e sorprendenti. Aveva avuto una vita piena e splendida; così piena e splendida da offuscare l’apparente fulgore dei tempi più recenti, abituati a stupire con effetti speciali, baluginii e bagliori dall’origine confusa, rutilanti rumori visivi che non provocavano altro che confusione e smarrimento nella sua mente ormai stanca.

Non che fosse uno di quei vecchi ottusi e rimbambiti che gli capitava di incrociare, seduti di sghembo su sedie a rotelle spinte da badanti dal viso spento, spesso assopiti sotto i plaid e le sciarpe che li avvolgevano come bozzoli. Lui non era rimbambito, ma stanco sì. Stanco di correre dietro a quelle mille novità che si susseguivano in corsa folle, senza dargli il tempo di capire, di accogliere, e che, in sostanza, lasciavano dietro di sé solo un gran vuoto. La televisione, il telefono, e poi i telefoni cellulari e i personal computer e internet!

Insomma, lui ci aveva anche provato a star dietro a tutti quei continui cambiamenti, ma ogni volta, dopo tutto quello sforzo, si era trovato con un pugno di mosche tra le mani. Un bel niente. Alla fine, ciò che veramente contava restava sempre fuori da tutte quelle apparenti rivoluzioni epocali… l’umanità restava quella di sempre.

Meglio, allora, molto meglio lasciare che tutto quel rumore insulso restasse al di fuori, al di là della sua vita.

A questa conclusione ci era arrivato già tempo prima, ma il risultato era stato quello di sentirsi isolato. Era diventato un naufrago, che viveva solitario nella sperduta isola dei suoi ricordi. Quando la sera si coricava, una marea di immagini invadeva senza controllo la sua mente. Veniva sballottato, da una visione all’altra, da un’emozione all’altra. A volte si scopriva col viso bagnato di lacrime, senza nemmeno sapere il perché. E ogni volta quella fiumana di memorie lo lasciava sfibrato, esausto, come dopo una giornata di intenso lavoro. Emergeva da quei ricordi dopo un tempo indefinito, per riscoprirsi coricato in uno stretto lettino solitario, col cuore in tumulto, le tempie doloranti e la sensazione orrenda di non poter trovare requie.

Ogni sera si coricava stanco, “cotto a puntino” pensava, pronto a cedere alle lusinghe del sonno. E invece, non appena posava il capo sul cuscino e si rilassava, invece di scivolare lentamente nell’incoscienza si ritrovava dolorosamente travolto dai ricordi. Non si trattava necessariamente di ricordi brutti, perché in quello stato persino quelli belli gli risultavano penosi e faticosi. Oppure era semplicemente doloroso pensare che quei bei momenti facessero ormai solo parte del passato. E non che fosse di consolazione pensare che anche i momenti brutti facessero ormai parte del passato! Anzi…

E così si ritrovava ad alzarsi, in piena notte. Si tirava su a sedere e se ne stava per un bel po’ seduto in pizzo al letto, intento a fissare il buio che si estendeva ai suoi piedi. Poi, spinto dai brividi di freddo, si decideva a infilare le pantofole e ad alzarsi. Si riduceva a sciabattare lungo il corridoio per un po’, andava in bagno, se ne stava lì in attesa che l’urina sgocciolasse lentamente, dolorosamente, poi andava alla finestra e da lì fissava per un po’ l’esterno, il giardino, o lo scorcio di strada appena fuori dal cancello illuminato a tratti dai lampioni, o il cortile.

Poi il freddo di nuovo lo scuoteva, spingendolo verso il letto.

Una volta coricato, ecco che il turbinio di immagini tornava a invadergli la mente. Se era una notte fortunata, di lì a poco quel frullìo concitato si faceva indistinto, confuso, accompagnandolo fino alle soglie del sonno. Difficile dire se e quanto dormisse: in genere gli pareva di fluttuare in un dormiveglia eterno, in cui i ricordi si facevano confusi e stravaganti, si fondevano tra loro costruendo creature immaginifiche e straordinarie, eventi inquietanti o semplicemente esilaranti, mai accaduti nella realtà ma così convincenti, in quello stato di abbandono, così assolutamente verosimili…

Quando poi si svegliava e ripescava quei ricordi dalla mente, si rendeva conto che si era trattato di sogni. Sogni che, mentre li sognava, si fingevano ricordi…

Nelle notti sfortunate, invece, il sonno non veniva, neanche in quella poco riposante forma. Morfeo se ne stava lì, appollaiato sul bordo del cuscino, a pochi centimentri dalla sua faccia, ma si rifiutava cocciutamente di accompagnarlo in quell’altrove che, ormai da anni, si offriva come unica possibilità di cambiamento rispetto alla monotonia delle sue giornate.

Il risveglio, se così lo vogliamo chiamare, lo trovava sempre esausto, che si fosse addormentato o meno.

Ma nonostante quello stato di perenne lavorìo mentale, Stanislao, uomo d’un pezzo, aveva sempre rifiutato di fare uso di quelle assurde medicine di cui tanto, a suo parere, si abusava. Dormire, si diceva, è una cosa naturale, e va presa per come viene, in modo naturale. Un paio di volte, su insistenza di altri e in seguito a lunghi periodi di insonnia, si era fatto convincere a ingoiare alcune goccine di nonsoché prima di coricarsi. Da ciò era derivato un sonno cupo, oscuro, profondo, insondabile… nessun ricordo, solo una gran massa nera e pesante da trascinare fino al risveglio, la mattina dopo. E quella massa opprimente lo aveva poi accompagnato per tutta la mattina successiva.

Meglio i suoi ricordi, ancorché brutti o faticosi, che quella morte chimica. Almeno i ricordi gli appartenevano…

 

A guardare indietro, la sua vita gli appariva scandita con chiarezza da eventi che in pochi attimi gliel’avevano ribaltata completamente. A volte il cataclisma avveniva non in prossimità dell’evento in questione, ma tempo dopo, come accade in una frana: un sasso spostato da un piede scivola, sbatte contro altri sassi, che sbattono contro altri fino a provocare uno smottamento capace di travolgere gli edifici, di spostare i confini delle cose.

Ma anche in questi casi, ora, a distanza di tanti anni, riusciva a distinguere con chiarezza quale fosse stato il passo che aveva smosso la prima pietra. Era lì, in quell’istante, che tutto aveva avuto inizio.

Ricordava, ad esempio, il momento esatto in cui il suo sguardo si era posato su quella ragazza dalle trecce brune e lucenti, quella che sarebbe diventata poi sua moglie.

Era la mattina del lunedì dell’angelo, il giorno dopo Pasqua di tanti anni prima, di un’era antica. Quella ragazza la conosceva da anni, fin da bambina. Era Angioletta, una delle numerose figlie di una famiglia contadina che viveva in una cascina isolata. La si vedeva sempre con una delle sorelle percorrere i sentieri tra i campi la mattina presto, avvolta dalla bruma, intenta a condurre al pascolo le loro poche vacche. Apparteneva a una famiglia povera, molto povera, e fin dalla più tenera età aveva dovuto partecipare all’economia familiare, per quanto le fosse possibile.

In paese si parlava male di loro, come spesso accadeva a chi viveva isolato. Non passava domenica senza che il parroco non tuonasse contro quelle famiglie in cui le figlie vengono avviate al peccato attraverso musica, canti e balli sull’aia. E si sapeva a chi si riferisse: alla famiglia di Angioletta, che aveva avuto anche la pessima idea di fare una marea di figlie femmine. E si sa che la donna è creatura del demonio…! Il parroco non era esattamente quel che si dice una mente illuminata.

Ma torniamo a quell’istante, quello che lo avrebbe portato al primo grande cataclisma della sua vita, da ragazzo a uomo adulto. Se ne stava lì, assonnato, pregustando la scampagnata che dopo messa lo avrebbe condotto nei campi, in compagnia di tutta la sua vasta parentela, a mangiare uova sode e affettati in quantità, con cipollotti freschi da sgranocchiare in allegria. Non poteva certo dire di avere pensieri elevati.

Insomma se ne stava lì, un po’ distratto, un po’ intontito, quando d’un tratto un lieve ondeggiare di fianchi femminili aveva attratto la sua attenzione. Due fianchi torniti, la vita stretta, appena appena accarezzata da un vestitino, le caviglie sottili sovrastate da due polpacci sodi e torniti come gambe di un tavolo da cucina, di quelli col piano di marmo. Ma chi era? si era chiesto. Una nuova, mai vista prima… e invece quale stupore nello scorgere, in un lieve volgersi del capo, il profilo di tre quarti di Angioletta, lo sgorbietto calzato di zoccoli e infagottato in scialli lavorati a mano con lana di recupero che per anni aveva distrattamente lasciato scivolare davanti al proprio sguardo.

La ragazza pareva essere fiorita da un giorno all’altro, come una belladinotte, come spesso accade alle femmine. Da bambina si era trasformata in donna, o meglio in un’ipotesi di donna, che però prometteva molto bene!

Il resto della messa, Stanislao lo passò a sbirciare quel fiore che ondeggiava lieve di fronte a lui, passando in rassegna ogni dettaglio del suo corpo, dalle spalle gracili e ossute al collo sottile come lo stelo di una margherita, fino a quei capelli lunghissimi, lucidi di olio, perfettamente divisi in due bande raccolte in due trecce regolari come una geometria d’amore.

Ammaliato da quella visione, aveva trascorso la giornata in uno stato di stupefazione, senza riuscire a godersi la festa, i balli sull’aia, scanditi dalla fisarmonica di zio Emidio, le risate dei numerosi cugini e cugine più o meno coetanei con cui solitamente si divertiva tanto. Davanti a lui continuava a balenare la sagoma opaca di una figura femminile dai tratti offuscati da un alone luminoso.

Quella nuova Angioletta gli aveva rapito il pensiero e, di lì a poco, dopo averne parlato con sua madre, aveva deciso di farsi avanti con la famiglia di lei, dapprima con visite “di cortesia” in cui nessuna intenzione venne pronunciata, ma dietro cui aleggiava, chiaro a tutti, il fantasma del fidanzamento.

Angioletta accolse ogni sua visita nella grande cucina affollata da tutti i membri della sua famiglia con uno sguardo stupito e un intenso rossore sulle guance. Le sue sorelle ridacchiavano, si davano di gomito, le donne più grandi passavano tutto il tempo a distribuire scappellotti a quelle malnate, mentre Angioletta si dava da fare a mostrare tutte le sue abilità casalinghe talvolta servendo bicchieri di vino agli ospiti, oppure cucendo o sferruzzando. Le visite, quasi sempre serali, trascorrevano tra le chiacchiere degli uomini, seduti attorno al tavolo consunto dall’uso, col bicchiere di vino rosso così scuro da macchiare il vetro, da tracciare giochi di cerchi sul piano di marmo del tavolo.

Chiacchiere apparentemente casuali ma che, tra una domanda e una risposta, servivano a tracciare i confini dell’accordo matrimoniale.

Di quel periodo di mezzo che si era poi steso tra il momento della “riscoperta” di Angioletta il giorno del matrimonio, Stanislao ricordava solo pochi stralci, incontri in piazza, in cui lui posava le dita sulla tesa del cappello, accennando un inchino rivolto ad Angioletta, e lei, in quanto prescelta, aveva il diritto e il dovere di rispondergli ad alta voce con un “Buon giorno”. Ci volle tempo, però, perché al saluto si aggiungesse anche un sorriso, dapprima vago, poi sempre più aperto.

Dal primo di quei saluti all’ultimo passarono mesi e mesi, durante i quali i due fidanzati impararono a conoscersi a distanza, e quelle poche volte che avevano potuto sedere uno di fianco all’altro, magari sfiorandosi le mani, era sempre al cospetto di molte altre persone.

Angioletta, superata la timidezza iniziale, si era rivelata allegra e disponibile, sempre pronta a fare la sua parte senza fare questioni o mettersi a discutere. E anche il padre di Stanislao, dapprima titubante e poco disposto a quell’unione, si era ricreduto.

Il giorno delle nozze arrivò e tutto era pronto, di modo che nessuno avesse da ridire o da spettegolare: Angioletta si era cucita un corredo di tutto rispetto, con lenzuola, federe, cuscini e materasso, asciugamani grandi e piccoli, camicie da notte e biancheria intima, tutto realizzato con le sue mani (e con l’aiuto di madre, zie e sorelle) e con i tessuti realizzati in casa oppure, i pochi acquistati, della migliore qualità.

Stanislao, invece, aveva provveduto ai mobili, alcuni acquistati, come il letto in ferro dalla testiera dipinta a mazzolini di rose, e altri invece realizzati in parte con le sue stesse mani. Per poter risparmiare aveva infatti chiesto al falegname di poter usufruire dei macchinari e di assemblare da solo i propri mobili. In quel modo aveva costruito stipetti, tavolo e sedie; queste ultime aveva imparato a impagliarle seguendo le indicazioni di un vecchio zio, e a ogni giro di paglia si sentiva più vicino alla sua nuova vita, quella di uomo sposato, quella di capofamiglia.

Era giovane, allora, poco più di vent’anni, ma quelli erano altri tempi. A vent’anni eri già un uomo e da anni avevi lasciato alle spalle l’infanzia. Anche Angioletta era giovane, ma il fatto di avere tante sorelle aveva spinto i genitori ad accettare l’offerta di matrimonio: “una in meno da sistemare”, era il pensiero che si accendeva nella mentre del padre e della madre di Angioletta ogni volta che di fronte a loro compariva Stanislao.

I due ragazzi decisero di celebrare le nozze non appena Stanislao fosse giunto alla maggiore età: 21 anni, a cui facevano da contraltare i 18 da poco compiuti di Angioletta.

A pensarci ora, erano due ragazzini. Ma per quei tempi erano due giovani adulti.

Anche questo strano dilatarsi delle età e del tempo a cui si assisteva ora, lasciava Stanislao esausto. Quando era giovane si era bambini poi, per un breve periodo di passaggio, ragazzi, e poi, appena possibile, uomini. A segnare le tappe era la lunghezza dei pantaloni. Cortissimi da bambini, a mezza gamba da ragazzi, lunghi da adulti. Tutto era chiaro e certo, tutto era condiviso: poche le regole, valide per tutti. Oggigiorno, invece, ti trovavi di fronte certi uomini fatti e finiti, con tanto di pelo sul petto, che si comportavano da ragazzini. Quando non addirittura padri e figli con gli stessi abiti, con lo stesso atteggiamento, intenti a fare le stesse cose.

Era come se fossero crollate le barriere che definivano ruoli e doveri, tutti sembrano liberi di essere ciò che vogliono quando gli pare. Pochi giorni prima aveva sentito al telegiornale di un uomo, un padre che, per potersi liberare dal peso del mantenimento di un figlio ormai adulto ma con le pretese di un ragazzino, aveva dovuto ricorrere al tribunale!

Pareva quasi che la gente non volesse diventare grande, assumere su di sé i doveri del diventare adulti… non riusciva proprio a capirlo! Quando era giovane lui ricordava solo che non vedeva l’ora di diventare grande, di avere una sua famiglia, una moglie che si prendesse cura di lui e dei suoi figli, mentre suo dovere sarebbe stato quello di lavorare per mantenerli. Tutto era chiaro, e ogni fase della vita era divisa in tappe ben definite. Ora invece nessuno si sceglieva una donna con cui trascorrere l’intera esistenza, i giovani si accoppiavano, facevano l’amore, poi si lasciavano. Più e più volte, come se si trattasse di un mero esercizio fisico.

Per carità, non che lui non sapesse quanto forte fosse il desiderio sessuale, ma questo non c’entrava nulla col mettere su una famiglia. Pure lui, da giovane, aveva conosciuto altre donne, prostitute, o donne sole a cui mancava la compagnia di un uomo. Ma tutto questo era accaduto nei periodi della sua vita in cui era rimasto lontano dalla sua Angioletta. In cui l’avevano costretto a lasciare la sua Angioletta.

Al matrimonio non ci era arrivato vergine, ma quasi. Ci aveva pensato uno zio ad accompagnarlo al bordello della cittadina più vicina, non appena saputo che il nipote aveva adocchiato una ragazza da poter sposare: “Vorrai mica far la figura dello scemo, la prima notte di nozze!? Devi imparare come ci si comporta con le donne e la scuola migliore è quella del fare!” e così dicendo l’aveva messo nelle mani di un donnone grande e grosso, con certe tettone pendule che mettevano soggezione.

Lei lo aveva accompagnato in camera e, tra consigli e ordini, lo aveva condotto al suo primo atto di natura sessuale. Per carità, con altri ragazzini si era “esercitato”, con enormi sensi di colpa, con la mano, e una volta persino con una pecorella, dietro sfida lanciata da un suo cugino più grande che gli aveva detto che non era “uomo” se non lo faceva.

Ma con una donna era tutta un’altra cosa, un corpo così carico di carne, e dolcezza, e calore. Quella prostituta, pazientemente, lo aveva aiutato a spogliarsi, a lavarsi, e poi si era sdraiata sul letto e lo aveva guidato con la mano dentro di lei. Non ricordava molto di quei momenti, solo il finale, quando un’esplosione di luce e calore gli aveva invaso la mente e il corpo, con ondate di liquida tenerezza che dall’inguine avevano inondato l’intero suo corpo, fino alla punta delle dita.

Ricordava solo che alla fine giaceva completamente sdraiato e ansimante sull’ampio e comodo corpo della prostituta, e che lei gli accarezzava i capelli sudati scostandoglieli dalla fronte. “Sei contento? Ti è piaciuto?” gli aveva poi chiesto con tono gentile, come una madre che chiede al proprio figlio se la minestra che gli ha preparato è di suo gradimento. Lui si era vergognato e si era sollevato balbettando dei vaghi ringraziamenti, rivestendosi rapidamente. Sentiva il viso infuocato e le mani gli tremavano così tanto che non riusciva ad allacciarsi i bottoni. Così la donna, che nel frattempo si era infilata i pochi stracci trasparenti con cui accoglieva i clienti, lo aveva aiutato, senza dirgli una parola e senza guardarlo mai negli occhi, fino alla fine, quando lo aveva accommiatato con un semplice “Non devi aver paura, non hai niente che non va e devi solo lasciar fare alla natura! Devi solo volerle bene” e a quel punto lo aveva guardato negli occhi. Fu in quel momento che lui la vide per la prima volta, vide il quello sguardo la donna che si nascondeva dietro quel corpo abusato, trasformato in un oggetto. Vide l’essere umano capace di amore, ma a cui nessuno pensava di donare amore.

Forse fu quello sguardo, ma da quel momento Stanislao non riuscì più di pensare a una prostituta come a una cosa, un “buco”, come tanti suoi coetanei invece sembravano fare. Non cercò altre esperienze formative, e giunse al matrimonio dotato di quello scarno bagaglio di esperienza.

E aveva ragione la prostituta: tutto funzionò benissimo, bastò lasciar fare alla natura di entrambi e all’affetto che li legava. Superati i primi momenti di imbarazzo, i due sposini si erano scoperti complici divertiti, pronti a offrirsi reciproci e teneri gesti di affetto, sorrisi, carezze, sguardi prolungati occhi negli occhi.  A Stanislao quelle notti sembravano la cosa più vicina al paradiso che avesse mai potuto immaginare.

Ma su questa terra il paradiso non dura e così un nuovo sconquasso venne a sconvolgergli al vita, quando, meno di un anno dopo il matrimonio, venne chiamato alle armi a combattere la guerra di conquista in Etiopia.

Anche in questo caso fu questione di pochi istanti e la valanga partì da un lieve bussare alla finestra della cucina da parte di un messo dallo sguardo triste e dal cappello di cotone macchiato di sudore. Quel tizio non si prese neanche il disturbo di entrare nell’aia e di bussare alla porta, semplicemente scorse dalla finestra sulla strada la sagoma di Angioletta, indaffarata nell’angolo in cui si trovava l’acquaio, e bussò sul vetro: “Stanislao Bellagamba?” chiese.

Angioletta rispose: “È mio marito…” e lui le allungò la busta.

Era la lettera di chiamata alle armi.

Passarono la sera abbracciati, piangendo a turno e consolandosi a vicenda. Chissà quando sarebbero riusciti a rivedersi, chissà come sarebbe stato andare lontano, in una terra straniera, in mezzo ai negri; chissà come sarebbe stato restare sola, a prendersi cura delle bestie e dell’orto, senza poter contare sull’aiuto di un uomo… entrambi avevano validi motivi per piangere su se stessi e sull’ingrato destino.

La partenza avvenne un mese dopo: Stanislao venne dapprima trasferito in un campo militare in città e, dopo una breve licenza a casa, venne mandato a Taranto, dal cui porto partì la nave che lo avrebbe condotto sui campi di battaglia, in mezzo al deserto. Ricordava ancora la fastidiosa nausea che aveva accompagnato l’intero viaggio per mare e che non lo abbandonò neanche quando rimise piede sulla terraferma. Qualcuno gli spiegò che si chiamava “mal di terra”, una specie di mal di mare che prende chi è stato in navigazione per parecchio tempo: il corpo si abitua a riequilibrarsi di continuo, e quando si sbarca, continua il suo lavoro di assestamento, provocando nausea.

Una volta giunto in Africa, poi, ricordava l’effetto che gli fece il caldo, quel caldo intenso e opprimente. Si sentiva perennemente avvolto in una cappa di calore così denso da togliergli il respiro, come quando da bambino il nonno lo proteggeva dalla pioggia e dal vento avvolgendolo fin sopra la testa nel suo nel pesante tabarro di lana e lui si sentiva soffocare. Solo che qui in Africa era caldo, e non c’era bisogno del tabarro!

In quel paese ci stava male. All’inizio, con la sua divisione, si erano fermati per un po’ in una città, poi erano partiti e si erano addentrati nel deserto. Dapprima ampie distese di terra brulla, punteggiata da radi cespugli, o da alberi pieni di spine su cui stavano in equilibrio buffe caprette dal muso curioso. Qua e là minuscoli villaggi fatti di case dello stesso colore della terra, perché della stessa terra composte. Un mondo privo di colore, solo la polvere che sottile si posava su tutto. Dalle casupole ogni tanto sbucavano alcuni uomini avvolti da capo a piedi in teli bianchi, o bimbi mezzi nudi, coi musetti coperti di mosche. Solo raramente si poteva scorgere una qualche sagoma di donna, quasi sempre delle vecchie, talvolta qualche giovinetta a malapena pubere intenta a trasportare l’acqua o a condurre al pascolo qualche capretta. Mai gli accadde di vedere una donna fatta: solo ombre velate che si sporgevano da spioncini o dietro i teli che velavano le finestrelle. Scorgevi il lampo di uno sguardo, e poi più niente.

All’inizio la cosa gli sembrava solo pittoresca, poi cominciò a sentirsi oppresso, in quel mondo di soli uomini. Si rese conto che l’immagine di una donna, di un volto sereno di donna, gli mancava. Gli mancava la bellezza che ogni donna racchiudeva in sé, e certe sere, in cui scoppiavano delle piccole liti tra commilitoni, magari per il lucido da scarpe usato senza chiedere il permesso o per una fascia per le gambe rubata, lui nella sua testa sentiva il tono dolce di sua madre, che interveniva sempre a placare gli animi nelle liti tra fratelli.

Sua madre gli mancava, i piccoli gesti sicuri con cui lo accoglieva: non appena lui metteva piede in casa, lei tagliava una fetta di polenta fredda, una fetta di taleggio e poi perentoria gli spingeva davanti il piatto, e gli versava un bicchiere di quel vino così intenso da sembrare nero. Gli mancava quella cura sobria, povera di parole.

Ad Angioletta, invece, cercava di non pensare, sennò gli veniva uno strazio nello stomaco. Ma più cercava di ingoiare il ricordo di lei di giorno, più di notte quel viso, quel corpo, quella voce venivano a bussare al suo cuore, al suo corpo che si abbandonava al desiderio. Certe mattine si svegliava con ancora nelle orecchie quella voce amata e gli squittii soffocati che lei emetteva quando facevano l’amore. Quelle erano le mattine più penose e dolorose, per Stanislao.

I suoi commilitoni lo prendevano in giro per questo suo essere così innamorato della mogliettina. Alcuni di loro non erano sposati, e quindi che passassero il tempo a rimirare certe fotografie con donnine discinte o che, non appena possibile, si cercassero uno sfogo con qualche prostituta da campo, lo poteva anche accettare. Ma proprio non si capacitava di quelli che invece a casa avevano una moglie che piangeva per la loro mancanza e magari anche dei bambini, e ciononostante si perdevano dietro alle foto di altre donne. Lui li compiangeva e loro lo deridevano.

Andò avanti così per un bel pezzo, un gruppo di uomini malassortiti che si perdevano dietro una quotidianità insulsa ed estranea. Fino a quando non ci fu la prima vera battaglia.

Era notte, ed erano appena arrivati in un’oasi, dopo una marcia estenuante e noiosa. Si erano accampati come al solito e avevano appena terminato il rancio. Era quel momento della giornata in cui ognuno si immergeva nelle attività preferite: chi guardava foto, chi sistemava il contenuto dello zaino, chi rileggeva o si faceva rileggere lettere da casa, chi rideva e scherzava, chi si isolava. Ad un tratto delle urla a bordo campo, gli altolà, gli spari.

Fu un corri corri, un urlìo concitato, ordini che volavano nel buio e ombre assassine che piombavano all’improvviso da dietro le tende, da dietro gli alberi. Erano uomini completamente nudi, che avevano approfittato della notte senza luna per nascondersi nel buio grazie alla loro pelle nera. Stanislao se ne rese conto solo quando se ne trovò improvvisamente uno di fronte: scorse il bianco degli occhi, i denti che brillavano contro il rosso vivo della lingua, e tutto intorno il nulla. In un gesto istintivo affondò dritto davanti a sé con la baionetta che teneva in mano, disinnestata dal moschetto.

L’ombra oscura gorgogliò strabuzzando ancor di più gli occhi, e a Stanislao parvero occhi di un demone, un demone supplice e spaventato. Poi caddero a terra tutti e due, Stanislao travolto dallo slancio e dal peso del corpo morto. E lì rimase, osservando stupito la battaglia di ombre che si consumava intorno a lui.

Il tutto durò pochi minuti. Gli africani erano pochi, armati solo con armi bianche e pochi fucili così antiquati da sembrare pezzi da museo, così pieni di ruggine e sabbia da incepparsi sempre. E così in poco tempo i soldati italiani riuscirono ad averne ragione. Non appena terminato il parapiglia Stanislao emerse da sotto il suo primo omicidio, e si mise ad aiutare i commilitoni ad accatastare i morti, a legare i prigionieri, a trasportare i feriti nella tenda dell’infermeria. Lavorò senza requie, cercando di scacciare dalla mente l’orrore di quella notte, la paura che aveva assunto il volto di ombre oscure che rotolavano nella notte, illuminate solo da occhi sbarrati e digrignar di denti… lavorava ansimando, cercando nella fatica l’oblio.

Poi però all’alba, dovette finalmente cedere alla stanchezza e si sdraiò a dormire. E fu lì che il terrore riemerse nei sogni, con incubi che lo costrinsero a svegliarsi più volte, di soprassalto, stringendo nelle mani la baionetta.

Aveva bisogno di placare i suoi sensi e così, il giorno dopo, andò a cercarsi una puttana da campo. Andò nella tenda dove stavano le ragazze. Sciarmutte, le chiamavano.

Lui non sapeva da dove arrivassero quelle ragazze. Erano delle negrette, delle faccette nere, ma chissà come ci erano arrivate lì.

La tenda era divisa come in stanzini da dei teli che separavano una brandina dall’altra, ma che non garantivano alcuna intimità. I soldati venivano messi in fila, procedendo man mano che gli altri finivano. Quelli in attesa dovevano “prepararsi” col pene già in erezione, per non sprecare tempo, perché la fila era lunga e le sciarmutte poche.

E le ragazze non avevano un momento di riposo: se ne stavano sdraiate su quelle brandine zuppe di sudore e sperma a ricevere un uomo dopo l’altro, spesso mordendosi le labbra o il dorso della mano per il dolore.

Quando toccò a Stanislao, si trovò davanti una ragazzina giovanissima, poco più che una bambina. Il materasso sotto di lei mostrava tracce di sangue, e la pena gli invase il cuore. Dietro di lui qualcuno lo spinse dentro con malagrazia e lui si trovò a sdraiarsi sulla ragazzina, ma non ce la fece a penetrarla: l’odore che emanava da quel corpicino, un misto di puzzo di capra e di sperma e di umori di vario tipo, era rivoltante. Nonostante ciò la ragazzina aveva un viso bellissimo circondato da riccioli scuri, due grandi occhi lucidi di lacrime e un corpo in sboccio, e lui si trovò lì a carezzarla con tenerezza. Non riuscì a penetrarla, perché l’orrore di quella situazione lo aveva fatto ammosciare all’istante, ma lo stupore che vide in quello sguardo, la gratitudine della ragazzina per i suoi gesti gentili gli smossero qualcosa. Dopo pochi minuti una voce sgarbata lo scosse: “Allora! Hai finito? Forza: uscire! Che qui c’è la fila!”.

Stanislao si tirò su i pantaloni, fece un’ultima carezza al volto della ragazzina e uscì da quel piccolo inferno con la certezza che di inferno sulla terra gli bastava quello della guerra. Il giorno dopo, con le narici ancora piene dell’odore che saturava quella tenda e il cuore della tristezza per le condizioni di quelle povere bambine, Stanislao cadde malato. Un febbrone che lo portò a delirare e ad agitarsi senza requie per giorni su una brandina della tenda infermeria. “Tifo” sentenziò il medico, ordinando subito di isolare il paziente.

Stanislao giacque solo per giorni e giorni, visitato raramente e in tutta fretta da infermieri intabarrati che svelti svelti lo lavavano, dissetavano e poco altro.

Non appena fu dichiarato non più infettivo e in grado di muoversi venne inviato in Italia, dove proseguì le cure in un ospedale di Roma. Lì scoprì che a trasmettergli la malattia erano stati probabilmente dei pidocchi e a Stanislao venne in mente che, siccome lui ogni sera dedicava ore a eliminare i pidocchi dai suoi vestiti e dalla branda, probabilmente se l’era beccato proprio dalla sciarmutta. E la cosa gli parve giusta, un vero atto di giustizia, o di vendetta per interposto pidocchio: se l’era meritato, come se lo meritavano tutti quegli italiani che erano arrivati a fare da padroni in una terra non loro. Scoprì inoltre che probabilmente il tifo non l’aveva ucciso solo grazie alle punture che gli erano state fatte prima della partenza per l’Africa. “Un miracolo”, gli disse il primario del reparto.

Comunque sia, di lì a un mese poté tornare dalla sua Angioletta, ridotto alla metà dell’uomo che era partito pochi mesi prima. Angioletta invece era un fiore, bella e grassa al punto giusto, una gioia per gli occhi.

Gli ci volle del tempo per rimettersi del tutto, ma poté contare sull’aiuto di tutta la famiglia e, nel giro dell’estate, era tornato al vigore di un tempo. Tutto intorno era un agitarsi di acque, di venti di guerra, di incitamenti alla battaglia, ma ora lui sapeva cosa volevano dire ed evitava di farsi coinvolgere nelle discussioni sul sagrato, la domenica dopo messa, o all’osteria. Anzi lui all’osteria proprio non ci andava, infastidito da quel ciarlare a vanvera di uomini in orbace e camicia nera, con quei fez dalla ridicola nappa che ballonzolava qual e là seguendo il ritmo dell’eloquio di chi lo indossava.

Quand’era ragazzino tutto quel parlare di nemico e di moschetto gli accendeva la fantasia, guidando i giochi con gli amici, e le adunate nel cortile della scuola lo facevano sentire un guerriero, alla stregua di un Orazio Coclite o di un Muzio Scevola. Combattere per la Patria e vincere il Nemico erano le parole d’ordine che animavano i suoi rari momenti di gioco la domenica e anche le giornate nei campi o a custodire le vacche: il forcone diveniva un’arma da brandire con forza, la falce serviva ad abbattere interi eserciti di nemici. Ma adesso sapeva che tutto quel ciarlare di guerra nascondeva la realtà dello schifo e della violenza, la paura di morire, l’orrore di uccidere. Non gli piaceva più sentir parlare di quelle cose. A lui piacevano i suoi campi, la sua Angioletta e la bambina che era nata dieci mesi giusti giusti dopo il suo rientro a casa e che lo rendevano veramente felice.

Ma quel sasso che aveva iniziato a rotolare per mano di quel messo stava proseguendo la sua corsa portando con sé altri sassi e così, a pochi anni di distanza, venne richiamato alle armi, questa volta per la campagna di Grecia.

(continua)

 

di Maddalena Gregori

2 Risposte a “Stanislao Bellagamba – I”

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