Stanislao Bellagamba II

 

Ma quel sasso che aveva iniziato a rotolare per mano di quel messo stava proseguendo la sua corsa portando con sé altri sassi e così, a pochi anni di distanza, venne richiamato alle armi, questa volta per la campagna di Grecia.  (…)

Ma partire sarebbe stato più difficile, perché oltre a un’Angioletta in avanzata gravidanza, gli toccava lasciare anche la piccola Armida e il piccolo Sauro, che stava giusto imparando a camminare.

Partì col cuore sotto alle scarpe, mentre suo padre continuava a ripetergli che alla sua famigliola avrebbe pensato lui.

Dalla radio aveva sentito parlare della vittoriosa guerra in Albania, che aveva portato l’Italia ad ampliare i propri confini oltre che in Africa anche al di là dell’Adriatico, aprendo le porte a una conquista degli interi Balcani.

L’inverno era alle porte e Angioletta gli mise nella sacca maglie e mutandoni di lana, calzerotti spessi fatti a mano, persino una berretta per la notte. Tutte cose che fecero la differenza, una volta che Stanislao fu al fronte, visto il gran numero si commilitoni che subirono danni da congelamento. E anche lui, pur bardato in quel modo, si ritrovò a rischiare di rimetterci qualche dito. Molti suoi compagni subirono il congelamento di mani e piedi, qualcuno venne persino amputato. Dormivano al freddo, nella neve, raggomitolati uno accanto all’altro come uccellini implumi in un nido, coi corpi incapaci di smettere di tremare, coi denti che risuonavano come nacchere.

Combattevano in trincee scavate nella terra e nella neve, sdraiati per ore dietro alle mitragliatrici, oppure marciavano per chilometri e chilometri, al gelo, con poco cibo. L’unico piacere era il momento in cui potevano stringere tra le mani la gamella colma di zuppa calda, e il calore lentamente si propagava lungo il corpo.

Ripensandoci ora, Stanislao non riusciva a dare un ordine cronologico agli eventi e alle situazioni vissute in quei mesi: tutto era ammassato, variamente intercambiabile, e marce, periodi in trincea, ritirate, battaglie, morti e feriti, tutte queste immagini si ammonticchiavano nella sua mente, raccolte tra due confini: il giorno della partenza su una nave che lo conduceva nell’Albania italiana, e il giorno in cui una nave lo riportava, scosso da una febbre da polmonite, verso l’Italia.

Ancora una volta doveva ringraziare una malattia, che lo aveva ricondotto a casa. Stavolta si parlava di sospetta tubercolosi, ma alla fine si trattava solo di una polmonite a cui riuscì a scampare dopo una lunga degenza.

Insomma, ancora una volta era riuscito a tornare a casa, dalla sua famiglia, che ora contava anche la piccola Adria, una poppante rosea come una pesca, nata felice e perennemente sorridente.

Stanislao fu sostenuto dall’aiuto e dall’amore della sua famiglia e di Angioletta, e gradualmente tornò a poter lavorare nei campi e nelle stalle. Gli ci volle più tempo, stavolta, ma a sostenerlo era la certezza che in guerra non lo avrebbero più mandato: era padre di tre figli piccoli, si era ammalato per ben due volte. Non potevano richiamarlo.

Ma tutto intorno la guerra imperversava, i giovani partivano, tornavano le loro lettere dolorose che facevano piangere le madri, e spesso l’ultima lettera arrivava dopo quella che ne annunciava la morte in battaglia. Stanislao tremava ogni volta che arrivava una lettera in casa, perché nessuno scriveva, tranne l’esercito quando reclamava carne da cannone. Nel frattempo Angioletta si era messa in testa di fare più figli, voleva arrivare a sette, per avere il premio per le famiglie numerose, e i successivi bambini li chiamò Italo e Maria. Perché coi nomi patriottici il premio aumentava. Ma per il momento i bambini erano solo cinque, e cinque bocce da sfamare in periodo di guerra non era un vantaggio per nessuno.

“Ma se noi abbiamo sette figli e li chiamiamo coi nomi che dicono loro ci daranno dei soldi, e tu non dovrai più andare a combattere!” insisteva Angioletta, che faceva delle gravidanze una sua privata guerra.

Stanislao la vedeva, sempre più stanca, il corpo provato dalla fatica nei campi, dalla cura dei bambini, dal poco cibo. Era dura per lui e per lei, e tutti quei bambini da seguire. Lui li amava, ma la fatica era tanta, e tanta la paura con l’entrata in guerra degli americani che premevano da ogni parte e con la presenza degli alleati tedeschi che giravano per le campagne razziando ogni cosa.

I contadini, in guerra, erano i più fortunati perché in qualche modo si mangiava sempre. Nelle camere da letto avevano chiuso i caminetti, che tanto non c’era legna da bruciare, e le canne fumarie venivano usate per nascondere il grano, e così il pane non mancava mai. E neanche la polenta. Poi in campagna si poteva sempre trovare qualcosa da mangiare: erbe, radici, bacche, frutta selvatica, un po’ di cacciagione. Ma per chi viveva in città era grama: la tessera annonaria garantiva meno dell’essenziale e tutti giravano con certi occhi sgranati per la fame.

Poi la valanga iniziata alcuni anni prima si fece sempre più grossa. La guerra era diventata impossibile da gestire e il 3 settembre gli americani bombardarono senza requie il centro e sud Italia.

Per cinque giorni sembrò che fosse arrivata la fine del mondo.

Ma il mondo non finì. Proseguì invece nel terrore e nell’incertezza, le notizie si susseguivano senza fondamento e scatenando reazioni inconsulte nella gente che un giorno fuggiva, il giorno dopo esultava: non si capiva più niente.

In tutto questo una trafelata Angioletta un giorno raggiunse Stanislao in un campicello dove coltivavano un po’ di zucche. In piena agitazione gridò al marito di fuggire, che la tradotta era pronta alla stazione e che passavano di casa in casa a caricare gli uomini. Tutti!

Turbato, Stanislao la seguì fin dietro il muro di cinta dell’aia, laddove iniziava un campo pieno di stoppie. Lì lei aveva gettato una sacca in cui aveva infilato in fretta e furia con un po’ di vestiti e di cibo. Mentre Angioletta tornava in casa per farsi trovare e non destare sospetti, Stanislao iniziò la sua fuga camminando lungo i sentieri tra i campi, spesso scendendo lungo i canali di irrigazione circondati da arbuti e alberelli. Camminò a lungo in direzione delle colline, verso l’entroterra, perché aveva sentito dire che là, in montagna, si rifugiavano i fuggiaschi che si erano organizzati in gruppi.

Nel frattempo Angioletta aspettava, aspettava, ma nessuno arrivò. Cominciò a pensare di aver fatto fuggire Stanislao per niente e che in realtà le voci che le erano arrivate fossero una delle solite fole di quei giorni. Ma verso sera, quando ormai faceva buio e i bambini erano già a letto, il rumore di un motore e la frenata di una camionetta nell’aia attirò la sua attenzione. Un secco colpo alla porta e Angioletta aprì: “Stanislao Bellagamba” disse una voce nel buio.

Gli occhi di Angioletta erano sbarrati dal terrore: “Non c’è” rispose. Per tutto il giorno si era preparata a raccontare che lui stava nei campi a lavorare, nella direzione opposta da quella presa, ma ora quella scusa non poteva reggere. Il cuore le batteva all’impazzata.

“E dove è?”

“E che ne so?” rispose lei di getto.

“Signora, guardi che la chiamata alle armi vale per tutti gli uomini”.

“Ma lui ha già fatto la campagna d’Africa e quella della Grecia…” sussurrò lei.

“Tutti sono stati richiamati. Sa cosa vuol dire tutti?” il tono era perentorio e Angioletta rispose sì, col capo, e aggiunse in un sussurro a malapena udibile “Vuol dire tutti”.

“Ecco, appunto. Quindi campagna o non campagna anche lui è chiamato a svolgere il suo dovere e difendere la Patria. Allora adesso mi dice dov’è o dobbiamo entrare con la forza?” aggiunse il militare spingendo Angioletta di lato ed entrando in cucina. Nel frattempo Armida e Sauro si erano alzati dal lettino che condividevano e avevano raggiunto la madre andandosi a nascondere dietro le sue gonne.

Il militare carezzò loro i capelli e avanzò scrutando ogni angolo della stanza.

“Lui non c’è perché è andato al mercato stamattina, ma ancora non è tornato e non so dove sia” disse Angioletta che aveva finalmente ritrovato l’ispirazione “Doveva vendere delle zucche ed è partito presto presto, manco l’ho visto partire, ma poi non è tornato. È tutto il giorno che corro qua e là chiedendo in giro se lo hanno visto. Ma con cinque bambini piccoli a cui badare, e le bestie… Magari lo trovate voi! Se lo trovate glielo dite che io lo sto aspettando, e anche i suoi bambini? Per favore, signore, glielo dite voi? Lui doveva tornare nel pomeriggio, mi aveva anche promesso di portare del filo nero, che ho un sacco di roba da rammendare e ho finito il filo… Io son preoccupata, non mi ha mai fatta aspettare tanto. Quando siete arrivati voi avevo sperato che …”

“Va bene, signora, va bene!” tagliò corto il militare lanciando occhiate lungo le pareti della stanza, dove si trovavano i lettini in cui dormivano i bimbi. Angioletta e Stanislao si riducevano a fare tutto nella grande cucina in autunno e inverno, perché così potevano riscaldare una stanza sola, e così quella era anche la camera da letto.

“Avete altre stanze?” chiese il militare.

“Certo, di là” rispose Angioletta indicando una porticina laterale che immetteva su un corridoio “Ma sono fredde”.

“Non importa” rispose l’uomo entrando nei locali per ispezionarli alla luce di una pila elettrica che destava la più grande ammirazione nei due bimbi più grandi, che lo seguivano zampettando. “Dov’è papà?” Chiese d’un tratto il militare ai bimbi: “Non so” rispose Armida. “No c’è” rispose Sauro.

Il militare allora tornò in cucina accompagnando con cautela i bimbi dalla madre, poi uscì e chiese ai suoi uomini, che nel frattempo avevano perlustrato il cortile e gli annessi, se avessero trovato qualcuno. Poi si volse verso Angioletta e le disse: “Grazie signora. Se per caso è stato già raccolto dall’esercito lungo la strada le arriverà presto una comunicazione, non si preoccupi” e se ne andarono.

Mentre accadeva tutto ciò Stanislao giaceva accampato in una capannuzza semidiroccata sulle colline: aveva sbocconcellato pane e formaggio e si era apprestato ad attendere l’alba. Poi avrebbe continuato il suo cammino verso la montagna, dove gli avevano detto come e dove raggiungere un gruppo di ribelli.

E lì cominciò la terza guerra di Stanislao. O tornava a fare il soldato per l’esercito italiano o, fuggendo, doveva combattere in montagna coi ribelli. Non c’era altra scelta.

Ma rispetto alle altre guerre in cui aveva combattuto, questo in montagna fu un periodo particolare. Molti dei tizi che conobbe erano persone istruite, che facevano certi discorsi di politica che Stanislao manco capiva, ma si fidava di loro, e pian piano imparò che la dittatura è una cosa brutta, che la libertà è sacra e che la democrazia permette agli uomini di un paese di essere liberi.

E così, invece di combattere solo perché glielo ordinavano e basta, cominciò a combattere per un motivo, per qualcosa in cui credeva. O per lo meno credeva di crederlo. A volte non sapeva bene se tutti questi discorsi sulla libertà e contro la dittatura fossero più giusti di tutte le prediche a base di libro e moschetto che gli avevano propinato da ragazzino. Ma d’altro canto l’idea della libertà, della democrazia, della repubblica, così come gli veniva spiegata ora, gli pareva proprio tanto bella, anche se magari non capiva sempre tutto.

Tra l’altro con la resa dell’Italia ai nemici -che però adesso erano gli alleati- quelli che prima erano alleati divennero nemici. Ma la situazione era spinosa, perché gli alleati di una volta erano praticamente in casa e stavano in tutta Italia. Così fu come se da un giorno all’altro ci si fosse trovati invasi dalle Alpi fino alla Puglia. Da sud gli statunitensi avanzavano e si sentivano notizie di sbarchi e avanzate, ma nel resto del Paese i tedeschi ci stavano da tempo e si erano incattiviti, trattando tutti gli italiani come traditori. La guerra ora era in casa e non la facevano più solo i soldati, ma tutti gli italiani, di ogni sesso ed età.

Il pensiero di Angioletta e dei suoi figli rimasti soli ad affrontare quell’orrore angosciava Stanislao, che cercava in ogni modo di avere notizie. Nel frattempo il suo gruppo si era unito a un gruppo più ampio e organizzato e a lui, che aveva avuto esperienza di guerra, avevano dato l’incarico di istruire certi studentelli di città all’uso delle armi. Per il resto arrivavano notizie della difficile avanzata di statunitensi e britannici, fermi appena sopra Napoli. Dovette passare l’inverno per ricevere buone notizie, con altri sbarchi nel Lazio verso fine gennaio. Ma l’avanzata era lenta e Roma venne liberata solo a giugno del 1944.

Nel frattempo i bombardamenti colpivano le città e gruppi di sfollati andavano a rifugiarsi nei piccoli paesi, più sicuri delle città in quanto lontani dalle aree bersaglio dei bombardamenti. Anche Angioletta ne aveva accolti un po’, offrendo loro l’uso delle stanze che d’inverno restavano vuote e ottenendo in cambio soldi, oggetti e aiuto nel lavoro nei campi. L’orticello di casa si era ampliato e ora offriva verdure in quantità, la cura dei bimbi veniva condivisa con le donne ospiti. Insomma, Angioletta non se la cavava male. A tutti raccontava che suo marito era scomparso e che forse l’aveva preso l’esercito in quei terribili giorni di inizio settembre.

Stanislao invece combatteva accanto ai partigiani, partecipava ad azioni di guerriglia, faceva, coi suoi compagni, tutto ciò che fosse possibile per sostenere l’avanzata dei nuovi alleati contro i vecchi alleati.

In montagna combattere in inverno era difficile: il freddo, la fame, la sporcizia. Ma resisteva, tutti resistevano perché non c’era altro da fare. E sperava, ogni giorno sperava che fosse l’ultimo, o almeno uno degli ultimi.

Invece dovette passare ancora tutto l’inverno del 1944, in peggiore di tutti, con le truppe tedesche arroccate lungo la linea gotica, proprio sui confini di casa sua. Lungo quella linea i due eserciti combattevano a suon di cannonate e colpi di obice, sparati al di qua e al di là del confine tracciato da quella linea, e in mezzo c’erano i civili, rintanati nei rifugi, privi di ogni difesa.

Furono mesi infiniti, in cui la sopravvivenza veniva contata giorno dopo giorno, in cui ogni giorno poteva segnare la fine della propria vita. Ma, senza sapere né come né perché, Stanislao riuscì a cavarsela. Ogni volta la pallottola assassina colpiva qualcuno accanto a lui, un amico, un ragazzino o un uomo fatto, un comandante o una giovane staffetta con cui si era scambiato anche qualche bacio in cerca di calore umano, ma mai lui.

E così ancora una volta giunse il giorno in cui poté tornare a casa ad abbracciare la sua famiglia.

Angioletta era invecchiata, il viso magro segnato dalla preoccupazione, i bambini erano cresciuti e non lo riconoscevano. Ci vollero giorni perché smettessero di piangere quando lo vedevano. Solo Armida gli correva in braccio dandogli bacini sul volto. E in quei momenti il volto di Angioletta tornava sereno e luminoso come una volta.

Ma la guerra era finita, il 25 aprile l’Italia venne liberata e pochi giorni dopo giunse la notizia della morte di Mussolini e di Hitler. Tuttavia gli strascichi di quei lunghi anni di odio si fecero sentire, e per mesi continuarono le uccisioni, certe vendette private, certe punizioni esemplari. I vincitori sfogarono la propria rabbia sui vinti che un tempo avevano abusato del loro potere o avevano approfittato dello stesso per trarre profitto. Tutto questo accadeva più nei paesini, dove tutti si conoscevano e sapevano delle malefatte compiute, che nelle città, dove era più facile nascondersi tra la folla.

Ma Stanislao non temeva rappresaglie, e soprattutto non era interessato a compierne. Così riprese a prendersi cura dei campi, a sistemare gli attrezzi, a riprendere accordi con gli altri contadini per far di nuovo rivivere la terra. Si era all’inizio dell’estate, ma non c’era stato modo di arare e preparare il terreno, per la semina il grano era poco, così Stanislao e Angioletta lavorarono fianco a fianco, coi bambini a fianco, per coltivare un paio di piccoli appezzamenti. Poi arricchirono il loro orto il più possibile. Delle bestie era rimasto poco, ma coi soldi racimolati grazie agli sfollati, Angioletta poté acquistare un paio di maialini, delle galline. Il ciclo delle stagioni riprese.

Anche le scuole riaprirono consentendo ad Armida e Sauro di frequentare normalmente. Erano grandicelli e aiutavano in casa e coi fratellini consentendo ai genitori di lavorare i campi, e quell’aria di libertà, il poter uscire di casa senza sentire colpi di cannone o rombi di aerei, senza rischiare di beccarsi una pallottola da chissà dove, rendeva tutto più facile. I bambini lo sentivano e le loro urla allegre risuonava per il cortile e per tutta la casa.

Fu come se tutta l’Italia tirasse un gran respiro di sollievo: ovunque le cose si aggiustavano grazie al lavorio di milioni di formichine indefesse. Nuovi ponti, nuove strade, nuove case, nuovi matrimoni, nuovi figli.

Nel 1948 a Stanislao e Angioletta nacque un’altra bambina ed entrambi furono d’accordo nel chiamarla Libera. Che gioia! Una nuova vita a suggellare la fine di un periodo terribile. Stanislao era nato all’inizio di una guerra di cui aveva sentito a malapena gli effetti, se non attraverso il viso tirato e stanco dei suoi genitori, e ne aveva vista nascere un’altra, ancora più sanguinosa, l’aveva attraversata ed era riuscito a vedere finalmente la luce, questo grande desiderio di pace che invadeva ogni angolo del mondo. Era come se la terra si fosse liberata di un enorme bubbone, un ascesso che aveva provocato febbre, malattia, dolore e poi, una volta scoppiato, tutto si era ripulito.

Certo, si sentiva parlare di una bomba terribile, che riduceva le persone in polvere per chilometri e chilometri, e anche del fatto che gli Stati Uniti, che avevano messo fine alla guerra con Giappone proprio grazie a quella bomba, tenevano sotto scacco il resto del mondo, fino a quando anche la Russia annunciò di possedere la stessa arma e iniziò una guerra sotterranea, fatta di parole e di sfide. Ma erano cose lontane e anche se aleggiava nell’aria la minaccia di un conflitto tra Russia e Stati Uniti, in cui l’uso di queste bombe atomiche avrebbero segnato la fine del genere umano, Stanislao era certo che nessuno, tra coloro che avevano il potere di lanciarle avrebbe mai voluto la distruzione dell’umanità. Perché sarebbe stato un suicidio. No?

Perciò la vita scorreva tutto sommato serena e, se si ignoravano queste notizie che sporadicamente attraversavano le giornate, la realtà era che le cose andavano bene. La radio, che ora poteva essere ascoltata in tutta libertà, trasmetteva notizie da tutto il mondo, rallegrava l’aria con canzoni e buffe recite. I soldi circolavano e Stanislao era riuscito ad acquistare certi appezzamenti di terra lì vicino, un pezzo di bosco su una collina poco distante, che permetteva di avere legna in abbondanza per riscaldare casa e di raccogliere funghi e castagne. Le canne fumarie erano state riaperte e i caminetti potevano nuovamente riscaldare le camere da letto dei bimbi, la casa tinteggiata di fresco, nuovi mobili offrivano comodità dimenticate; e poi venne fatto un bagno in casa, piccolo ma con tutto ciò che serviva: un water con tanto di sciacquone, un lavandino sormontato da uno specchio dove ci si poteva pettinare e persino una vasca da bagno: niente più vasi da notte e tinozza!

Anno dopo anno il lusso entrava in casa loro: prima un trattore comprato usato ma ancora perfettamente funzionante, con cui si poteva fare il lavoro di dieci uomini in pochi giorni, poi una stalla più ampia, staccata dalla casa, che non c’era più bisogno di rintanarsi con le vacche d’inverno per stare al caldo, poi un’automobile, con cui si poteva andare dove si voleva, persino a fare delle gite al mare, da certi parenti che vivevano lì, coi bambini che strabuzzavano gli occhi davanti a tutto quell’azzurro.

Armida era diventata signorina e a vent’anni era arrivato un ragazzotto di un paese vicino accompagnato dal padre a chiedere di poterla sposare. Angioletta, che già aveva capito che qualcosa stava accadendo, si era informata: buona famiglia, bravo ragazzo, gran lavoratore e così, dopo due anni di fidanzamento, Armida si sposò. Poi fu il turno di Sauro, che dopo il servizio di leva arrivò annunciando che voleva sposare una ragazza del sud, una morettina bassa bassa ma bella come una bambola e già pronta a scodellare il primo nipotino. Sauro si sposò in quattro e quattr’otto, e cercò lavoro in fabbrica, perché offriva bei guadagni da subito e anche un appartamento per le famiglie degli operai.

I primi nipotini arrivarono insieme, a un mese di distanza l’uno dall’altro, uno dall’Armida e l’altro da Sauro.

Insomma, se gli anni della guerra erano trascorsi lentamente, in una eterna attesa, quelli del dopoguerra si rincorsero allegramente come bambini in un giorno di festa senza dare il tempo di capire cosa stava succedendo, con la sensazione che il meglio dovesse ancora arrivare. Gioie su gioie, come se tutto il dolore patito prima avesse maturato interessi che ora toccava riscuotere.

La vita era sempre più facile, Angioletta aveva voluto la lavatrice, la cucina a gas, il riscaldamento coi caloriferi. La casa era stata pian piano rinnovata, i ragazzi si erano accasati, tutti tranne Libera che aveva chiesto di poter proseguire gli studi, aveva fatto la scuola di segretaria d’azienda e aveva subito trovato lavoro in una fabbrica grande, in città. Poi lì l’avevano sovvenzionata affinché si iscrivesse all’Università, perché era molto intelligente e dotata, e così a 24 anni non era ancora sposata. Lei diceva che sposarsi non le interessava e questo preoccupava Angioletta, perché una donna sola come fa? Ma il mondo stava cambiando e le opportunità per le donne sembravano ampliarsi. Così, la sera, nel letto, capitava spesso che prima di addormentarsi Stanislao e Angioletta parlassero di quella figlia così diversa dagli altri, così moderna.

‘Modernità’ era la parola d’ordine, in quegli anni, i giovani avevano sempre da ridire su ciò che dicevano i “vecchi”. Stanislao non aveva ancora 50 anni ma si sentiva di appartenere già a un altro mondo. Suo padre era morto alcuni anni prima, a 73 anni e facendo un rapido calcolo a lui restavano ancora poco più di venti anni da vivere. Ed era curioso di vedere cosa l’aspettava, ma tutto quel correre in avanti, verso il progresso cominciava a preoccuparlo. Gli pareva che non ci fosse il tempo per abituarsi al nuovo che già altro arrivava: non era una cosa fatta bene, così. Allo stesso tempo però la curiosità lo spingeva ad allungare il collo verso un futuro ancora tutto da immaginare.

Un futuro che cominciò a presentare alcune falle: negli anni Sessanta pareva che tutto quello che era stato fatto prima fosse sbagliato, e ragazzini e ragazzine contestavano con arroganza le scelte dei padri e delle madri in nome di una maggiore libertà. Nel frattempo anche Libera si era sposata con un ingegnere conosciuto all’Università quando studiava. Si era laureata in Economia e ora aveva un buon posto in fabbrica, con una paga molto alta. Tra lei e il marito guadagnavano così tanto che in pochi anni si erano potuti permettere un moderno appartamento in città, all’ultimo piano (attico, lo chiamavano) con l’ascensore e tutti gli agi.

Italo invece viveva vicino, si era ricavato un appartamento nel’ex fienile che stava sopra casa loro e continuava a fare il contadino. Maria, che aveva sposato un giovanotto di un paese vicino, faceva la casalinga e contemporaneamente lavorava a domicilio per la fabbrica di giocattoli per cui lavorava anche il marito, appiccicando adesivi alle macchinine, confezionando abitini per bambole o inscatolando giocattoli vari. Lei era la più infelice, perché non riusciva ad avere figli, ma da qualche tempo col marito aveva fatto richiesta per poter adottare qualche bambino rimasto orfano. Adria, invece, la dolce e silenziosa Adria, aveva deciso di farsi suora e, grazie al sostegno della parrocchia, era riuscita a coronare il suo sogno e ora viveva a Roma.

Per Stanislao e Angioletta contava questo: che tutti fossero sistemati, con figli, lavoro, casa e tutto ciò che li poteva rendere felici. Per loro la felicità era questa.

Le cose andarono bene per anni e anni, con preoccupazioni tutto sommato non eccessive e facilmente superabili. Poi però ecco che un nuovo sasso prese a rotolare, trascinando con sé altri sassi, fino a formare una nuova frana.  Da mesi e mesi Angioletta sentiva tanto male sotto all’ascella sinistra, ma non ci diede troppo peso perché tanto col braccio sinistro faceva poche cose. Poi però il dolore cominciò a irradiarsi anche lungo la schiena. Il medico la visitò e riscontrò un nodulo: ricoverata con urgenza scoprirono che aveva un tumore iniziato al seno sinistro e che si era poi esteso ai linfonodi dell’ascella. Ulteriori analisi rivelarono poi che era maligno. Venne operata con urgenza e sottoposta a chemioterapia. Giornate intere passate a ricevere nel sangue quel veleno che doveva uccidere la malattia ma che attaccava anche il suo corpo, lasciandole una stanchezza invincibile, mal di testa e una nausea che la tormentava per giorni. Stanislao non sapeva come aiutarla e correva a comprarle le poche cose che lei riusciva a inghiottire, mentre quel corpo tanto amato smagriva a vista d’occhio e si disfaceva in uno sfinimento senza respiro. Ceri giorni Angioletta chiedeva la Coca cola, perché le faceva passare un po’ la nausea, poi il miele, ma quello di castagno o di melata, perché le dava energia e riusciva a tenerlo nello stomaco.

Figlie e figli aiutavano per quel che potevano, ma Angioletta chiedeva sempre di Stanislao. Si faceva massaggiare le spalle, si faceva leggere il giornale, o certe riviste sui divi e le dive del cinema e della tv che lui odiava, ma che lei trovava rilassanti.

Furono mesi strazianti, ma Angioletta pian piano ne uscì e finì la chemioterapia; in seguito fece analisi ogni mese e pareva che andasse tutto abbastanza bene. Nel frattempo avevano scoperto nuove terapie e ora poteva curarsi senza fare trasfusioni endovenose, senza nausea. Ma la debolezza c’era sempre, e vederla girare per casa col fiatone era una pena. Così Stanislao, per distrarla, la portava fuori, facevano la spesa insieme, andavano al cinema, a volte persino in trattoria o a mangiare una pizza. Che lei avanzava sempre. Ma non importava, perché l’importante era vederla felice.

Lei che aveva patito tutta la vita, che gli era stata a fianco in ogni momento difficile senza nulla chiedere, senza mai lamentarsi. Stanislao una volta glielo disse e lei gli rispose: “Pensa che io penso lo stesso di te”.

Per lui quel momento fu come se si fossero sposati una seconda volta.

Nel frattempo Stanislao era andato in pensione, ma, incapace di stare con le mani in mano, continuava lo stesso a coltivare l’orto. Ai campi invece ci pensava Italo con l’aiuto di Sauro, che nel frattempo aveva rilevato la bottega di un falegname, da cui era andato ad imparare a tempo perso i sabati e le domeniche per un po’ di anni. Gli piaceva l’odore del legno, diceva, e pian piano era diventato un artigiano provetto. Si era fatto un nome, la gente lo cercava sempre più e così negli anni i campi restarono del tutto sulle spalle forti di Italo. Che però poteva contare su un sacco di macchinari che ai tempi di Stanislao manco esistevano e poi comunque non avrebbe potuto permetterseli.

Ogni tanto spuntava qualche nipotino o nipotina nuovi, i più grandi e le più grandi si fidanzavano, insomma, la vita procedeva e Stanislao e Angioletta avevano cominciato a fare dei viaggetti.

Erano stati a Lourdes, che lei era tanto che lo sognava, e lui aveva tanto pregato per la sua salute, perché la guarigione definitiva arrivasse presto. Poi erano andati a Roma, per il loro cinquantesimo anniversario di nozze. La città eterna! Libera aveva organizzato tutto, affittato una stanza d’albergo che era le sette bellezze e organizzato giri turistici guidati per tutta la città per una intera settimana e i figli avevano pagato tutto! Che meraviglia. Avevano anche potuto incontrare Adria (che dopo aver pronunciato i voti era stata chiamata Suor Maria Consolatrice).

Era il viaggio di nozze che non avevano mai fatto, un’esperienza indimenticabile. Angioletta si era ripresa bene e non ansimava più così tanto. Camminavano tanto tutti i giorni, e la sera, dopo aver cenato in albergo coi camerieri che li servivano come due signori, prima di addormentarsi si scambiavano le impressioni della giornata felici come bambini. A lui erano piaciute tanto le piazze, la fontana di Trevi, il Pantheon, con quel buco sul tetto che gli pareva fantastico, per non parlare del Campidoglio. Angioletta invece si incantava a guardare le chiese, quelle con affreschi incredibili che si aprivano sul cielo aperto, e quelle che, piccole piccole, si aprivano come scrigni ai visitatori. E poi San Pietro, quella piazza straordinaria, e i musei pieni di meraviglie. Insomma, dopo sette giorni tornarono a casa colmi di stupore negli occhi e con la sensazione che restasse ancora molto da vedere. Alla stazione ad accoglierli c’erano i figli, che li portarono al ristorante dove li aspettavano tutti, ma proprio tutti: figli e figlie, nipoti, il primo pronipote e persino Suor Maria Consolatrice era riuscita a ottenere un permesso.

Fu un anniversario straordinario.

Dopo il viaggio a Roma, Libera si scatenò, e ogni anno organizzò un viaggetto una volta in Spagna, un’altra in Grecia, poi in Egitto, a vedere dal vero quelle meraviglie che talvolta avevano visto in tv o al cinema. Stanislao pensava alla sua infanzia, e si stupiva per la strada che era riuscito a fare. Nemmeno nei suoi sogni più incredibili avrebbe potuto pensare di arrivare a fare viaggi in aereo, di dormire in alberghi come un signore, di vedere dal vero cose straordinarie come le piramidi o il Partenone.

Ma l’Europa andava stretta a Libera, che azzardò persino un viaggio in Thailandia, dove fecero un tour di una settimana e poi trascorsero una settimana su un’isola dove il mare era trasparente come acqua sorgiva e le palme si chinavano fino a sfiorare il pelo dell’acqua.

Quando tornarono a casa Angioletta era particolarmente affaticata. Aveva un bell’aspetto, abbronzata e felice, ma aveva ripreso ad ansimare. Dopo qualche mese cominciò a sentire un forte dolore alla schiena, sul lato destro. Una visita e il medico pronunciò la sentenza: il cancro era tornato, ma stavolta aveva colpito anche altri organi.

Riprese il calvario degli ospedali, delle visite, della chemioterapia, ma stavolta la malattia non voleva cedere il passo. Stanislao faceva di tutto per alleviare le sofferenze di Angioletta, ma mese dopo mese la vedeva sfiorire, svanire nel letto, il viso sempre più piccolo sul guanciale.

Fu una lunga battaglia, la peggiore che lui avesse mai combattuto, ma accompagnò Angioletta fino all’ultimo, fino a quando lei dovette lasciare lui e questo mondo. Gli ultimi mesi li trascorsero a dirsi, senza parlare, quanto si amassero. E l’ultima parola che lei gli disse, dopo una notte in bianco per entrambi e segnata da dolori terribili per la malata, fu “Grazie”.

“Ma grazie di cosa?” chiese lui, ma ormai lei non poteva più rispondergli. La valanga li aveva travolti!

In un primo momento Stanislao non poteva crederci. Chiamò Angioletta per nome, una, due, tre, infinite volte. Arrivò a scuoterla, ormai in lacrime, a urlare, a gridarle di aprire gli occhi. Poi, stremato, sedette sulla poltroncina ai piedi del letto con la testa tra le mani, scosso dai singhiozzi: “E io adesso che faccio? Come faccio io adesso?”.

Esausto, prese il telefono e fece il numero di Italo dicendogli “Mamma è morta”. Riattaccò subito, perché non aveva la forza di ascoltare né di parlare.

Italo scese che era ancora in pigiama. Solo allora Stanislao si rese conto che non erano ancora le sei del mattino, anche se il cielo era già chiaro.

Il giorno dopo figlie e figli arrivarono alla spicciolata , piansero, lo abbracciarono, organizzarono tutto, il funerale, le pompe funebri, il prete, la messa, i cartelli da affiggere in paese, i vestiti da farle indossare, la foto da mettere sulla lapide, il monumento funebre.

Lui non voleva sapere niente, andava bene tutto, Tanto più niente sarebbe andato bene.

Stanislao aveva ormai 77 anni e secondo i suoi calcoli sarebbe dovuto morire alcuni anni prima, perciò, pensò, gli rimaneva poco da vivere. Il suo dovere l’aveva fatto, la sua vita l’aveva vissuta pienamente, e ora gli mancava solo l’ultimo gradino.

Ma gli anni si susseguirono, ognuno sempre più uguale a quello precedente. Intorno a lui il mondo cambiava, sempre in peggio, gli pareva; ma forse era solo il suo spirito amareggiato a fargliela vedere così. Per un po’ visse da solo, e i figli glielo permisero perché stava vicino a Italo. Ma col tempo cominciarono a preoccuparsi per il suo umore depresso. Quando andavano a trovarlo lo trovavano seduto su una seggiola in cucina, al buio, coi gomiti appoggiati sul tavolo e con lo sguardo sperso nel vuoto. La televisione spenta, la luce pure, il piatto col pranzo che gli portava la nuora spesso ancora quasi pieno. Deperiva, non parlava.

Ancora una volta fu Libera a prendere l’iniziativa e lo portò da un medico che prescrisse una medicina per l’umore e consigliò di farlo vivere in famiglia. Tra tutti i figli, quella con una stanza libera in casa era Libera, che acconsentì a ospitarlo, ma Stanislao detestava la città e non si sentiva a suo agio con quel genero ingegnere. Perciò pochi mesi dopo Stanislao venne ospitato da Armida, che aveva libera la cameretta della figlia, ormai sposata. Ma anche lì Stanislao non si trovava bene: lavoravano tutti e la maggior parte delle giornate le trascorreva da solo. Usciva giusto per una passeggiata poi passava il tempo nei dieci metri quadri della cameretta, per non disturbare. Insomma, uno alla volta tutti i figli provarono a ospitarlo, ma o lo spazio era poco, o i membri della famiglia erano occupati tutto il giorno, o… o… o… Insomma, Stanislao non riusciva a trovare un posto.

Tra l’altro l’andare a vivere coi figli gli aveva offerto l’opportunità di conoscere più da vicino nipoti e pronipoti, scoprendo quanto poco aveva a che fare con loro.

Si sentiva come se la vita fosse tutta alle sue spalle. Aveva corso, corso, corso e si era superato, si era lasciato indietro, e quello che c’era ora era solo una effigie di se stesso, un’immagine, ma lui, il vero lui, era indietro, nel passato.

Aveva attraversato due guerre, era sopravvissuto a malattie mortali e a pallottole che ogni volta l’avevano schivato per andare a colpire chi era al suo fianco, aveva lottato e faticato duramente per costruire qualcosa che mai avrebbe pensato di riuscire a realizzare. Ora si trovava con tutti quei ricordi… e a cosa era servito vivere? Chi avrebbe mai saputo di quello che aveva vissuto?

I nipoti erano dei mezzi estranei e non parliamo poi dei pronipoti: parevano marziani, col naso perennemente ficcato sui loro tablet e smartphone e giochetti elettronici, diavolerie che lui non capiva proprio. Non capiva come funzionassero ma soprattutto non capiva a cosa servissero.

Ricordava la deferenza che provava verso nonni e bisnonni, quando era bambino, la cura che tutta la famiglia dedicava a loro, gli insegnamenti che riuscivano a impartirgli, nonostante la differenza d’età. Ma adesso, con questi ragazzini, le sue parole erano lievi come nebbia e al massimo erano loro che, nei momenti di generosità, cercavano di insegnargli qualcosa: “Vedi, basta che selezioni e poi trascini qua e l’app si avvia” dicevano, in una lingua che sembrava la stessa parlata da lui ma che non riusciva a comprendere. “Ma no, quella è una mail e questo un file, vedi la differenza, nonno?”

No, lui non la vedeva e neanche gli fregava di capirla. Per lui le cose avevano senso solo se poteva toccarle, era così che aveva imparato a capire e conoscere il mondo e non riusciva proprio a entrare in questa realtà di cose astratte.

Era stanco di tutte queste novità, stanco di doversi adeguare, stanco di tutti quei ricordi che gli si ammassavano nella mente senza dargli requie. Era stanco e a 97 anni suonati gli pareva di essere vittima di una frode, costretto a vivere un vuoto durato ben venti anni. Da quando era morta Angioletta tutto aveva perso significato, e allora perché costringerlo a vivere ancora? Per veder sorgere un nuovo secolo? Per poter assistere a uomini che si gettano da un grattacielo di più di 100 piani per non dover morire bruciati vivi? Per vedere scoppiare nuove guerre? Per sentirsi sempre più solo in un mondo che vantava le più incredibili reti di comunicazione? Per cosa?

Da qualche mese era tornato a vivere nella sua vecchia casa, a dormire nel letto che aveva condiviso con Angioletta. Italo scendeva ogni giorno, mattina mezzogiorno e sera per vedere come stava, la nuora Rosaria scendeva anche lei e ogni pomeriggio lo accompagnava a fare una passeggiata o gli faceva compagnia mentre guardavano la tv e lei sferruzzava o ricamava. A pranzo e a cena mangiava con loro, al piano di sopra, per fargli compagnia e per controllare che prendesse le medicine e mangiasse a sufficienza. Dopo cena, scendeva e si metteva a letto dopo aver tenuto accesa la tv per un’oretta.

Ma quella sera sentiva un peso insolito sul petto.

Aveva sicuramente mangiato troppo e non ci era più abituato, ma la pasta con le melanzane della nuora erano ancora un piatto che gradiva molto. Perciò se lo era mangiato tutto e così adesso sentiva quel senso di oppressione sullo stomaco.

Strascicando i piedi era andato in cucina e si era fatto un canarino, con un po’ di zucchero e scorza di limone, e poi se lo era sorseggiato pian piano, per non ustionarsi, un po’ sovrappensiero. Ripensava alla prima volta che aveva visto Rosaria, a come lui e Angioletta, la sera a letto, avessero commentato la statura da ragazzina della nuora, ridendo. Ridacchiò tra sé e sé.

Gli occhi gli pesavano, perciò andò in camera da letto, si spogliò ripiegando e posando i vestiti sull’uomo morto e si mise a letto dove, senza nemmeno rendersene conto, si addormentò, un sonno profondo e carico di sogni.

Sognò che partiva per un viaggio e Angioletta gli preparava la sacca. Era un’Angioletta strana, allo stesso tempo la ragazza con le trecce lucide e i fianchi torniti che aveva rapito il suo sguardo più di settant’anni prima, a messa la domenica, e poi l’Angioletta mamma, che badava alle bestie sull’aia con in braccio il figlio più piccolo e dietro il codazzo degli altri frignanti, e poi l’Angioletta degli ultimi anni, coi capelli corti e bianchi, il sorriso sereno e stanco, sempre intenta a sferruzzare o a badare ai nipoti. Era un’Angioletta unica, somma di tutte le Angiolette della sua vita, e lo spronava a partire, ridendo e spingendolo fuori dalla porta: “Dai, dai che la tradotta parte!” gli diceva con una risata che ti faceva venir voglia di ridere a tua volta.

E lui allora andava alla stazione ma per strada lo fermava chiunque e lui temeva di perdere il treno: qui il compagno di classe bambino, che lo sfidava col moschetto di legno: “Avanti, perfido albione! Prova a spararmi!”, e lui gli scompigliava i capelli e passava oltre. Ma dietro l’angolo ecco spuntare il nonno, che lo abbracciava dicendogli “Bravo, bravo” con un lacrimone che spuntava nell’angolo dell’occhio destro. In piazza poi non ne parliamo: l’ex commilitone della campagna di Grecia che era morto accanto a lui col viso sfigurato dicendogli “Dì al mio papà che son stato un bravo soldato” ma che adesso aveva la faccia tutta a posto e gli faceva gli auguri, e poi la prostituta grassa che gli aveva insegnato come si fa l’amore con una mogliettina, e dietro di lei la sciarmutta, che gli faceva ciao con la mano e lo salutava timida timida. Tutti lo fermavano, lo salutavano, e lui era felice perché su quella piazza, lungo la strada, si facevano avanti tutti quelli che aveva conosciuto nella sua vita. Da dietro un portone lo salutò anche il messo dal berretto macchiato di sudore, quello che gli aveva consegnato la prima cartolina di chiamata alle armi, e più in là un gruppo di partigiani della sua brigata lo chiamavano a gran voce per invitarlo a bere un bicchiere insieme, e uno di loro era stato colpito a morte mentre era accanto a lui: “Ma non sei arrabbiato che sei morto tu e non io?” gli chiese Stanislao, ma quello rise e gli disse “A chi tocca tocca!” e nel frattempo cingeva i fianchi della staffetta con cui aveva amoreggiato. Poi proseguendo verso la stazione incrociò il tizio che gli aveva venduto il suo primo trattore usato e il mezzano con cui conduceva affari al mercato del bestiame, entrambi fermi a parlare con suo padre, che con gesto rapido gli indicava l’orologio, alludendo che si faceva tardi. E poi ecco il padrone della fabbrica in cui aveva iniziato a lavorare Libera, che gli diceva che aveva fatto bene a far studiare quella figliola, che era in gamba, e poi il proprietario della pizzeria dove andavano a mangiare con Angioletta quando avevano voglia di farsi un regalo che lo salutava col tovagliolo posato sull’avambraccio.

E poi finalmente ecco la stazione, col treno che sta per partire, il capotreno che non fischia ancora per aspettarlo e gli fa segno di correre e da un finestrino il viso allegro di Angioletta: “Muoviti! Lumacone! Va a finire che lo perdi questo treno!” e Stanislao corre, corre e si arrampica sul predellino, entra di volata e abbraccia Angioletta tra gli applausi di tutti quelli che stanno sulla banchina e finalmente capisce, capisce che quelle valanghe di sassi che avevano trascinato la sua vita finalmente hanno un senso. Nulla era accaduto a caso, tutto era fatto affinché lui potesse arrivasse qui, a prendere questo treno per partire per un nuovo viaggio.

Italo lo trovò il giorno dopo, sdraiato a pancia in su sul letto e con la coperta tirata fino al mento, come suo solito, col viso sereno e bianco finalmente illuminato da un sorriso.

 

di Maddalena Gregori

 

 

2 Risposte a “Stanislao Bellagamba II”

  1. Ho visto scorrere la mia vita e quella dei miei familiari. Racconto molto ben descritto. Complimenti. Mi è piaciuto molto.

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