Il gioco delle nuvole

Foto di Asiago.it

 

Del perché non le fosse mai piaciuta la montagna, Silvana non sapeva dare una ragione. Nonostante quel nome da ninfa arborea. Ma certo è che a Silvana la montagna proprio non piaceva. E men che meno ora che, affannata e furibonda, caracollava giù per il crinale, scavalcando sterpi e sassi, dando rapidi colpi d’anca per fare lo slalom tra gli alberi, battendo secchi precauzionali colpi di bastone per dissuadere le vipere dal porsi sulla sua strada.

Furibonda, dicevo, ma d’altra parte chi è causa del suo mal… Nessuno l’aveva obbligata a quel week end in montagna, e tanto meno a quella gita: era stata una sua libera scelta. Libero arbitrio, si dice. Ma, nonostante ciò, era arrabbiata. Come una vipera.

A questo pensiero le scappò una risatina: “E speriamo di essere l’unica vipera incazzata del bosco!” Ma il buon umore scemò velocemente: vaffanculo, avevano camminato per ore, per raggiungere quella baita di merda, e, per quanto in discesa si vada più veloci, la strada fatta all’andata le pareva non dovesse finire mai, neanche ora che stava tornando indietro. “Chissà quando arriverò in paese!” ragionava, mentre la camera con tanto di stube dell’alberghetto in cui avevano pernottato le appariva come un caldo miraggio, e il morbido letto dal gonfio piumino d’oca come nido e ristoro per i suoi muscoli indolenziti.

“La notte in baita! Figuriamoci! Tutti ammassati in quello stanzone puzzolente, con quella latrina gelida! E senza neanche potersi lamentare, perché vuoi mettere la pace e la meraviglia di stare immersi nella natura?” Già, era infuriata con tutti quanti, che non si erano nemmeno degnati di chiederle se era d’accordo a passare la notte lì. O meglio, gliel’avevano chiesto, ma quando erano già su. Prima dovevano chiederlo! Che lei non ci sarebbe nemmeno andata a fare quella sfacchinata infame!

“Ma che fai? Torni da sola? E se ti perdi?” Figuriamoci! E comunque, piuttosto che restare …

Seguendo il flusso rapido dei pensieri, Silvana scendeva con balzi da stambecco, netti, precisi, dei piccoli voli liberi verso la civiltà. Ma se all’inizio seguiva a ritroso i punti di riferimento individuati all’andata, da qualche minuto (non sapeva dire quanti) non riusciva a riconoscere il paesaggio. Ma chi può dirlo: un bosco è un bosco!

Eppure … strano non aver notato quel masso candido per la neve che si stagliava tra i tronchi scuri, o quel rivolo d’acqua gelida che cantava più a destra.

La conferma giunse di lì a qualche altro balzo: l’ampia radura priva d’alberi, con quelle chiazze verdi che spuntavano rade tra la neve vergine, proprio non l’aveva vista all’andata. Si fermò ansando.

Sguardo a destra, sguardo a sinistra: boh!

“Forse saltando ho tirato un po’ a destra” pensò “Se scendo puntando leggermente verso sinistra dovrei aggiustare la rotta …”

Un gruppo di uccelli si alzò in volo da dietro il sasso che li nascondeva. Alzò lo sguardo al cielo che appariva velato da nuvole grigio azzurre rese magiche da un bordo di luce dorata.

Riprese a scendere ma, una volta superata la radura e penetrata nuovamente nel bosco, tutto le parve più scuro. Il sole stava calando. Doveva fare in fretta, approfittare della luce naturale finché le era possibile. Non più a balzi, però, ma a cauti passi, perché le ombre le impedivano di valutare con precisione le distanze, le forme, talvolta persino la natura degli ostacoli che le si paravano davanti. Procedeva lenta, sempre più lenta: l’oscurità avanzava più velocemente di quanto si fosse aspettata.

Dopo pochi minuti si fermò per prendere la pila dallo zaino: frugò nella sacca, poi nella tasca grande, poi in quelle laterali: nulla. Provò di nuovo, svuotò lo zaino oggetto per oggetto: nulla! Accidenti! Dove l’aveva lasciata? Eppure le pareva di avercela messa, quella mattina. Fece un ultimo inutile tentativo e poi, visto che cominciava ad aver freddo, si infilò un’altra felpa e ficcò tutto nello zaino. Fanculo.

Ora era veramente buio ed era molto difficile distinguere gli ostacoli. Scendeva a tentoni, usando il bastone per saggiare il terreno, tendendo la mano per trovare dei punti d’appoggio. Non era facile, e un paio di volte le capitò di scivolare e di poggiare la mano su qualcosa di viscido.

Cominciava a preoccuparsi: “Cosa faccio ora? Non posso passare la notte nel bosco! Sono stanca, ho fame, ho sete. Voglio sdraiarmi su un letto.” Si sentiva esausta e sconsolata, un paio di lacrime le erano spuntate a confonderle ancor più la vista. Allora si sedette affranta su un sasso di cui aveva saggiato a tastoni la liscia consistenza. Alzò lo sguardo e, con stupore, tra i radi rami spogli, scorse un lembo di cielo stranamente chiaro, macchiato da poche nuvole dai contorni luminosi e vibranti. Era una notte di luna piena. Si ricordò allora della passeggiata fatta in paese la sera prima e dei commenti degli altri che dicevano che l’anello di luce intorno alla luna annunciava una temperatura bassa. E lei aveva notato che la luna era quasi piena. Poteva essere un vantaggio, visto che non aveva la pila.

Ma mentre si perdeva dietro a questi pensieri, un brivido di freddo lungo la schiena la riscosse. Doveva andare!

Si alzò e riprese il suo cammino con andatura cauta. Ora il bosco pareva meno fitto: sempre più spesso un raggio di luna penetrava tra i rami e, riflesso dalla neve, illuminava alcuni punti. La vista si era un po’ adattata, anche se la vaga luce lunare non le permetteva di distinguere con chiarezza cosa le stava davanti, e una volta le parve persino di scorgere qualcosa muoversi lesto alla sua destra.

Non sapeva quanto tempo fosse passato quando, ad un tratto, davanti a lei si parò il lucido nastro di una strada asfaltata. Un lieve moto di euforia le riempì i polmoni. Raggiunto il nastro asfaltato, prese a percorrerlo in discesa: non sapeva dove si trovasse e quale fosse la direzione giusta per raggiungere il paese dove alloggiavano, e allora tanto valeva risparmiare le forze. Prima o poi avrebbe incrociato un’auto, avrebbe chiesto indicazioni e avrebbe anche pagato per essere portata in albergo.

Nonostante si trovasse al buio, da sola e in un posto sconosciuto si sentiva stranamente tranquilla. La valle si apriva al suo sguardo, mostrando, tra le cime degli alberi, le luci dei paesi e le file dei lampioni che illuminavano le strade. Lassù, invece, dove si trovava lei, luna e neve giocavano alle ombre cinesi: qui un gufo, no … è uno spezzone di ramo, e lì invece pare un orso curvo sulla tana di un altro animale, … quel masso dalla schiena tonda. E più avanti c’è una casa, ma disabitata perché non si vedono finestre … no, è la cima di un giovane pino.

E allora anche Silvana prese a giocare con luna e neve al gioco delle nuvole, usando il suo fiato: lunghi soffi sottili per imitare le anime in fuga, sbuffi piccoli e tondi per fare fiocchi di cotone… Ad ampie falcate sicure percorreva la strada battendo il ritmo col bastone, godendo dei suoni attutiti dalla neve, dei tonfi sordi che provenivano dal bosco, della luce lattiginosa che abbracciava quel minuscolo pezzetto di mondo.

Era intenta ai suoi giochi quando un borbottio lontano, la distrasse. Tese l’orecchio. Una macchina! Saliva dalla valle.

Silvana attraversò la strada e, non appena scorse le luci dei fanali, cominciò a sbracciarsi. L’auto si fermò: “Mi sono persa. Mi può accompagnare in paese?”

“Certo!”

Salì e l’auto partì. “Verso la civiltà …” pensò con un sorriso malinconico, salutando con un po’ di dispiacere il paesaggio fatato del bosco immerso nella luce lunare.

 

di Maddalena Gregori

4 Risposte a “Il gioco delle nuvole”

  1. No, no, altro che!
    Ti si segue così bene, per la tua capacità di coinvolgere con le descrizioni, che è il lettore stesso a diventare quello “spazio”. Eccome se è fantasia, questa.
    Le interprezioni del racconto, invece, sono altra cosa ed ognuno vi legge se stesso, credo, ripescando nelle suggestioni più autentiche. Baci

  2. Meravigliosa Silvana.
    Sarebbe da dire “Nomen omen”. Il nome è un presagio di belezza, non voluta, disdegnata ma che, tuo malgrado, riesce a raggiungerti.
    Che bella tipa! 😉

    Le tue descrizioni sono sempre minuziose ed accurate. Per calarsi nella scena basta leggerti, senza sforzo di fantasia.

    1. Ciao Antonella. Sai, che non si debba usare la fantasia nel leggermi potrebbe essere pure un difetto: lascio poco spazio?
      Ma tanto sono così, una “tipa” un po’ scomoda e scorbutica, come Silvana.

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