La guerra delle formiche

occhiodesertoluna

 

Aaron scruta tra le ombre che la luna disegna sulla terra argentata. Sotto al suo sguardo si susseguono avvallamenti e dossi, cespugli e pochi isolati alberi, rocce che spuntano inattese in radure che splendono e, sotto la luce ingannevole di una luna piena così grande da apparire aliena, tutto pare muoversi e fluttuare, anche i sassi.

Aaron scruta, intento a cercare i segnali che indichino la presenza del passo montano che attraversa il confine tra Siria e Israele, in un’area poco a nord di Al Qunaytra, la città fantasma rimasta coi suoi ruderi a testimoniare l’ennesima guerra dell’uomo contro l’uomo. Biancori improvvisi scuotono l’anima del pilota: un solo colpo di mitragliatore ben assestato potrebbe far precipitare a terra come un passerotto il leggero velivolo. Ma quei lampi che scorge non provengono da canne di mitragliatori. Forse una pozza d’acqua, forse l’occhio di qualche animale selvatico.

Vola così basso da sfiorare le cime degli alberi, da sentire il profumo dell’erba primaverile.

Non sa cosa sia, forse il misto di emozioni contrastanti che si agitano dentro di lui, ma d’un tratto si sente come se quello fosse il momento perfetto, il centro della vita. Un sorriso gli si disegna suo malgrado sul viso.

Sì, è un momento unico e immenso, un dettaglio tra i dettagli dell’universo, eppure essenziale, inevitabile, imprescindibile. Respira a fondo,  a pieni polmoni, un sospiro che sembra voler catturare ogni particella di quel cielo tanto accogliente quanto pauroso.

Il cielo è sempre stato un amico e un nemico allo stesso tempo, per lui. Fin da bambino, quando si sdraiava nel giardino a scrutare le nuvole che arrivavano da nord per correre senza sosta verso sud, come per un appuntamento a cui non potevano mancare. Oppure ad ammirare le stelle. Se ne vedevano di più, quando era bambino, certe stelle così luminose da vederle lanciarsi verso di te, come lampi. Ora invece a malapena le vedi baluginare, e a volte nascondersi, fuggire lontano.

Scrutava il cielo alla ricerca di suo padre, che se ne era volato via. Glielo avevano detto quel giorno in cui mamma si era chiusa in camera sua, a piangere e a urlare che era uno strazio sentirla; zia lo aveva preso in disparte e gli aveva detto “Il tuo papà è volato in cielo”. E lui aveva subito gridato “Vojo acche io!!!”.

E così da allora si era messo a scrutare verso l’infinito, nella speranza che un giorno suo padre tornasse per portarlo con sé. E quel desiderio di cielo non l’aveva mai abbandonato, anche se a volte, in certe notti di luna nuova, tutte quelle stelle che incombevano su di lui, stagliandosi contro un cielo di un nero assoluto, lo facevano sentire prigioniero di una cappa asfissiante, pronta a crollargli sulla testa. Erano quelli i momenti in cui la volta celeste da sospirato sogno si trasformava in incubo, pronto a ingoiare lui come già aveva fatto con il suo papà.

Ma forse a dare origine a quelle emozioni erano state le maledizioni che sua madre aveva per anni lanciato verso il cielo, colpevole di averle portato via il marito quando era ancora solo una ragazza. Si era placata solo parecchio tempo dopo, quando un altro uomo era entrato nella sua vita, e nuovi figli.

Aaron intanto era cresciuto, era diventato un ragazzo alto e ben piazzato, pronto a volare letteralmente fuori dal nido. Ricordava ancora lo sguardo allagato di lacrime e paura di sua madre, il giorno in cui le aveva annunciato che intendeva iscriversi all’accademia aeronautica. Ma nulla sarebbe valso a fargli cambiare idea.

Coerente col suo antico sogno, aveva deciso di imparare a volare il più presto possibile, e l’obbligo militare, quel dovere ineluttabile e prolungato da Paese sempre in guerra, gliene offriva l’occasione.

Amava volare, amava il tremolio che gli muoveva le viscere al decollo e poi l’improvvisa sensazione di pace che si impossessava della sua mente e dei suoi muscoli non appena sentiva l’aereo stabilizzarsi tra le correnti d’aria e le nuvole.

Amava volare ma mai avrebbe voluto farlo in guerra, eppure quello era diventato il suo destino. Volare sulle alture verdi, sui deserti abbacinanti, sui laghi brillanti sotto il sole, ma non per ammirarne le bellezze, bensì per distruggere e per uccidere. Lui era solo un aviatore, altri si occupavano di utilizzare le armi che gli aerei che pilotava ospitavano. Però riusciva a vedere i bagliori delle bombe che lasciava cadere dietro di sé, su villaggi minuscoli come presepi; oppure gli capitava di poter scorgere certe figurine nere che correvano disperate sotto i colpi di mitraglia per poi abbattersi bruscamente, a braccia spalancate, come a volersi avvinghiare alla terra, come a non volerla lasciare.

Non era quello che voleva fare!

Ma quello era diventato il suo lavoro, e aveva imparato a farlo al meglio perché, se delle vite finivano, altre invece dipendevano da lui.

Come adesso, che lo hanno mandato a cercare una squadra di uomini rimasti isolati in cima al passo. Deve individuarli e poi segnalarne la presenza all’elicottero di salvataggio. Ma prima di tutto deve cercare di non attirare l’attenzione dei ribelli, quelle piccole formiche che si aggrappano disperatamente alla terra ma che sanno anche reagire con forza. Gli scappa da ridere al pensiero delle formiche della barzelletta, quelle che, per combattere un elefante che ogni giorno calpestava il loro formicaio distruggendolo senza pietà, si erano accordate per attaccarlo tutte insieme; il giorno dopo, al grido di “addosso!” le formiche si erano lanciate sull’enorme bestia, ma una sgrullata di proboscide le aveva fatte cascare tutte. Tutte tranne una, rimasta caparbiamente aggrappata al collo del pachiderma, e allora le altre, da terra, avevano cominciato a strillarle: “Strozzalo, strozzalo!”.

La risata gli gorgoglia in gola, ma Aaron sa che non può distrarsi, deve restare concentrato se vuole portare a termine con successo la sua missione. E così torna a scrutare il terreno alla ricerca di un segnale, un segnale qualsiasi: sassi disposti a formare un cerchio o una croce, un mucchio di rami al centro di una radura, una maglia militare appesa a un qualche bastone, agitata dal vento che muove i rami degli alberi.

Ridacchia nuovamente, ripensando alle formiche e alla loro assurda testardaggine, quando d’un tratto qualcosa alla sua destra attrae la sua attenzione, tra i cespugli gli pare di scorgere una sagoma umana che agita qualcosa, un braccio si muove verso di lui. Ma è già andato troppo oltre e così deve virare, torna indietro, con la coda del’occhio vede un bagliore salire da terra verso di lui, poi una luce violenta lo travolge da dietro, da dove si trova il serbatoio… Che succede? gira il capo, cerca di capire… e la luna si spegne.

 

di Maddalena Gregori

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