Ombre

dreamcatcher

Piove, fuori piove da giorni. Piove come se Dio in persona avesse aperto le cateratte. Scende a secchiate, a cascate, batte forte sul tetto di lamiera, rotola come una valanga lungo la grondaia ballonzolante che col suo ritmico sbattacchiare guida il concertino notturno di scrosci, schianti e rimbombi. Il rintoccare frenetico dei colpi scandisce mio malgrado il battito del mio cuore e mi impedisce di rilassarmi.

Mi ritrovo a vegliare, immerso nel frastuono del monsone, scrutando tra le ombre che gli squarci di luce dei lampi proiettano, attraverso le fessure nelle pareti, all’interno della baracchetta di legno in cui mi trovo, mentre mi chiedo stupito che ci sto a fare qui, come ci sono finito. Osservo questa realtà aliena e mi chiedo dove sia stato che la strada della mia vita, così dritta e prevedibile, abbia improvvisamente deviato trascinandomi in questa situazione.

Solo un mese fa ero immerso nel traffico di una grande città europea, intento a districarmi nel caos metropolitano con l’ausilio della mia magica Twingo. Gran macchina, capace di sgusciare negli spazi più ridotti in città e di schizzare in piena velocità in autostrada. Gran piccola macchina. Sorrido al pensiero del giorno in cui mi fu consegnata. Io abituato ad auto di buona stazza, ammiraglie salde e forti nell’aspetto e nella sostanza, mi ero convinto ad acquistare anche una citycar, una tra le più piccole sul mercato. L’impatto era stato buffo: mi era apparsa ridicola, un’automobile da cartone animato, ma finii presto per affezionarmi ai vantaggi che offriva al punto da usarla ogni giorno. La mia Twingo nero metallizzato…: almeno nella scelta del colore avevo cercato di conferirle un aspetto più… come dire, maschile, aggressivo. Adesso è lì che aspetta, parcheggiata nell’autosilo dell’aeroporto dove l’ho mollata quando sono partito.

Un’ombra che scivola al mio fianco mi fa trasalire. Mi giro di scatto, impaurito, e mi tiro su a sedere. Non c’è niente da fare! Non mi ci abituerò mai a dormire tranquillo sapendo di stare ai margini di una foresta tropicale. Come si fa a star calmi quando sai che in ogni momento una bestia qualunque potrebbe infilarsi tra le assi sconnesse della capanna? Con questa pioggia gli enormi ratti che di solito la notte scorrazzano sul tetto non ci sono, ma la cosa non mi tranquillizza affatto. Le loro tane si riempiono di acqua e loro fuggono fuori cercando rifugio in zone sollevate, come la mia capannuccia in legno. Non mi va l’idea di condividere il mio giaciglio con roditori privi di timor di dio! O, peggio, con un serpente.

A tastoni cerco l’accendino che mi hanno dato e accendo il moccolo di candela che sta di fianco alla stuoia che mi fa da letto. Alla luce della tremula fiamma scruto il pavimento della capanna, poi passo alle pareti finché l’ombra non si rivela nuovamente. Faccio un balzo all’indietro, ma per tranquillizzarmi subito dopo.

Sotto i caldi colpi di vento che arrivano da fuori, il ninnolo acchiappasogni appeso sopra la soglia dondola e freme, agita le piume. La rete di pelle intrecciata dovrebbe filtrare i miei sogni e ripulirli da paure inutili e pensieri neri, ma pare invece generarli.

Mi soffermo a guardarlo. Un antico regalo di una mia ex fidanzata, una ragazza così diversa da me… spirituale, sempre immersa in questioni etiche, sempre a farsi domande. La amavo, a modo mio, ma poi non ce la feci più a sopportare le sue domande. Io non cercavo risposte, avevo già le mie, e la lasciai. Però un po’ mi mancava; sentivo di aver perso, con lei, un pezzetto di me, e così cominciai a portarmi appresso quel regaluccio da poco ovunque andassi, come un portafortuna. Così alcuni giorni fa ho chiesto di poterlo appendere nella capanna che mi ospita. E ora è lì, un pezzo di passato, di una vita che mi apparteneva e che ora so essermi preclusa fino a non so quando. Il senso di greve impotenza che si accompagna a questo pensiero mi obbliga a sollevarmi.

Ma com’è successo? Quando? E come uscirne???

Questo il pensiero che accompagna le mie notti, mentre di giorno la mia mente è concentrata solo ad arrivare vivo alla notte successiva.

Con uno schianto la porta della baracchetta si apre sotto il colpo di uno scarpone: “Ehi, you!!!! Stop light!!!”

In due soli passi la giovane guardia armata di fucile automatico mi raggiunge, allunga la mano e con una zampata colpisce il mozzicone di candela facendolo spegnere. Poi, furibondo, mi colpisce col calcio del fucile su una spalla.

Un grido sordo mi sfugge. “Silence!” grugnisce con furia sotterranea.

“Yes” sussurro io raggomitolandomi e proteggendo la testa con le braccia “yes, sorry, sorry”.

Il rumore dei passi che si allontanano mi convince a sciogliermi dalla mia posizione a riccio. Scruto tra le ombre e con sollievo vedo che sono di nuovo solo. La catena alla caviglia mi duole: probabilmente nel rannicchiarmi ho dato uno strappo senza rendermene conto. Mi sdraio nuovamente, coprendomi alla meglio con la mia giacca. Quella almeno non me l’hanno requisita. Il mio laptop ultima generazione invece ce l’ha il capo dei guerriglieri, è un suo bottino di guerra e ogni giorno lo vedi girare colla valigetta del PC in mano, come se fosse un ornamento, ma dubito che lo usi. Ormai le batterie saranno scariche e qui non c’è rete elettrica, e poi non credo che il capo conosca l’inglese abbastanza da usare i programmi. I primi giorni mi aveva obbligato ad accenderlo, a mostrargli alcune cose, ma si vedeva che non capiva nulla. Io, approfittando di quei momenti, della sua ignoranza in materia e del fatto che ci trovavamo ancora nei pressi della capitale, ero riuscito a connettermi a una rete wireless per pochi minuti. Ero persino entrato in una chat a me nota, dove ero riuscito, nonostante il fuso orario, a contattare un amico che subito mi aveva riempito di saluti e battute: “Ehi, finalmente ti fai vivo! Bagascione, dove sei finito?!” “Senti son serio, sto in un casino, aiutami” “Che ti è successo?” “Sono nelle Filippine, sono in mano ai guerriglieri! Chiedono un riscatto!” “Ma va? E ti fanno usare internet? ahahahah Sei proprio un bel tipo!” “No giuro, contatta il Ministero!” “E come no? Ora vado subito sul sito del Ministero Affari Esteri e li avverto che un tizio con nickname Lordofwar è prigioniero di guerriglieri filippini! ahahahahah Bello stronzo che sei! ahahahaha”. Fine connessione.

Già, mica lo conoscevano il mio vero nome, i miei “amici” di chat. Fu lì che mi resi conto che l’amicizia non è quella di chat, quella che mi riempiva le serate passate davanti allo schermo del PC, per ammazzare il tempo, ma quella di ogni giorno. Quella con persone che conosci e frequenti, che abbracci, che guardi negli occhi, a cui puoi telefonare anche alle 3 di notte per chiedere aiuto. Fu lì che mi resi conto che io in realtà non avevo amici ma solo clienti e rivali, e che i miei soldi, il mio “benessere”, era irrigato dal sangue che ogni giorno viene versato nelle mille guerre invisibili che straziano la terra. Le mille guerre a cui io, mercante di armi, fornisco la materia prima. Chissà, forse anche il fucile con cui la giovane guardia mi ha colpito poco fa proviene da una delle mie forniture.

Un lampo improvviso penetra all’interno della baracca e un colpo di vento agita l’acchiappasogni riempiendo la stanza di ombre che scivolano da una parete all’altra, inseguendosi cupe, tracce di notte nella notte. E finalmente capisco. Ora lo so dov’è il punto in cui la mia vita ha deragliato, ora vedo l’origine di quello che sto vivendo: tutti gli incubi che ho seminato stanno tornando per chiedermi di pagare il conto.

 

di Maddalena Gregori

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