Clotilde

Felice Casorati, Ragazza con scodella, 1919-20

Del viso del suo babbo aveva un ricordo vago. “Babbo, babbino, me lo dai un bacino?”

Ricordava bene, però, la sua risata calda, le mani grandi e ruvide che l’afferravano e la stringevano tutta quanta, senza fatica. Ricordava il suo profumo di terra smossa e di erba appena tagliata. Ricordava la guancia spinosa per la barba e il contrasto con le labbra morbide e umide, perché babbo si divertiva a strofinare quella barbaccia contro il suo naso, facendolo diventare rosso rosso, per poi coprirlo di bacetti morbidi e freschi. “Babbo, babbino, me lo dai un bacino?”.

Ricordava le estati accaldate dai suoni d’ovatta: il cinguettio degli uccelli, il latrare dei cani da caccia del padrone, lo stormire delle fronde ai colpi del vento marino, lo stridìo dei rapaci e dei pochi gabbiani che si avventuravano fino in cima alle colline. Ricordava il grande fico in mezzo alla corte, che per tutta l’estate le regalava la sua ombra, amplificando la frescura dell’aria che dal mare -che luminoso disegnava il cerchio dell’orizzonte- scivolava su su lungo le colline.

Del viso del suo babbo aveva un ricordo vago, ma della mamma invece vivida l’immagine fantastica che di lei si era creata. Mamma che era morta quando lei era poco più che in fasce. Fragile e bianca come le colline riarse dal sole a mezzogiorno, soffice e accogliente come le nubi cariche di pioggia che correvano sopra il mare. Il suo seno soffice come le piume del cuscino che babbo le aveva fatto e che ora Clotilde aveva ereditato.

Non c’era ricordo di mamma che fosse scollegato da quelli di babbo, perché era sulla base dei ricordi che lui le raccontava ogni giorno che Clotilde ridisegnava il viso di mamma. Lui le raccontava della bellezza, della dolcezza di mamma, dei momenti buffi e teneri e strazianti che avevano vissuto insieme con lei, la piccola Clotilde, e anche prima che lei ci fosse, quando ancora abitava nella pancia della mamma.

Ricordava quei pomeriggi caldi di sole, al riparo del grande fico, passati a giocare col micino orfano e senza coda che babbo le aveva donato affinché le facesse compagnia mentre lui era impegnato a seguire i capricci del padrone: i cani da caccia, i cavalli, le doppiette da tenere lustre e perfettamente funzionanti. E la tenuta con la selvaggina da proteggere dai cacciatori di frodo.

Il giorno che le portò quel mucchietto di pelo, babbo le aveva raccontato che la gatta-mamma aveva avuto un parto difficile e che solo quel micino era nato, ma per farlo uscire avevano dovuto tirarlo per la coda che così gli si era spezzata. In seguito si sarebbe seccata e sarebbe caduta, come un ramoscello inutile.

La gatta-mamma invece era morta poco dopo e così babbo aveva portato l’orfanello a Clotilde, le aveva spiegato come nutrirlo, come accudirlo, proprio come avrebbe fatto mamma gatta. E Clotilde prese il compito con estremo impegno: ogni due o tre ore nutriva il micino, anche di notte, e poi gli sfregava il culetto con uno straccio, per fargli fare pipì e cacca. Per il micino Clotilde era diventata a tutti gli effetti la sua mamma, così la svegliava al mattino leccandole con amore la punta del naso, giocava con le sue trecce, piangeva se si allontanava, saltellava felice quando la vedeva…

Protetta dal suo piccolo mondo e dai suoi affetti, Clotilde era diventata una bimba dolce e buona, non dava pensiero al suo babbo né pareva soffrire per la mancanza della mamma. Perché lei, la sua mamma, l’aveva dentro di sé. Era un po’ come una sorta di ribaltamento dei ruoli: prima era stata mamma a tenerla dentro di sé, a nutrirla col suo amore. Ora che mamma era tornata piccola e lieve come un’animuccia, toccava a lei darle spazio nel suo cuore. E così passava le giornate a disegnare i contorni dei suoi ricordi, rigirandosi tra le dita l’anellino d’ottone con zircone che babbo aveva donato a mamma quando l’aveva chiesta in sposa. Per lei era grande, quell’anellino, e così lo teneva legato al collo con un nastro di raso colorato. Se lo rigirava tra le dita e parlava tra sé e sé, raccontandosi di mamma, di com’era bella e dolce e buffa e … ripeteva le parole di babbo, i racconti serali che lei gli chiedeva di ripetere ancora e ancora e ancora, fino allo sfinimento. “Babbo, babbino, mi dici ancora di quella volta?”

E quando babbo non ce la faceva più, allora se li raccontava lei, a memoria. Come quella volta che il babbo aveva portato a mamma una rosa gialla e lei aveva passato l’intero pomeriggio a rimirarla, ad annusarla. L’aveva messa in un bicchiere, in mezzo al tavolo di cucina, quello col piano di marmo, e mentre spicciava casa lanciava occhiate sospirose al fiore risplendente, e poi, non potendo resistere, correva ad annusarlo, a sorbirne il profumo. Perché le rose gialle erano le sue preferite, ecco perché.

“Babbo, babbino, me lo dai un bacino?”… Era il suo ottavo compleanno e babbo era tornato la sera tardi, dopo un’intera giornata fuori casa. Si era dimenticato del suo compleanno? “Babbo, babbino…” pensava Clotilde scrutandolo mentre varcava la soglia, si toglieva il tabarro, lo appendeva col cappello al chiodo vicino alla porta. Alla luce vaga non riusciva a scorgerne l’espressione: era arrabbiato? era stanco?

Clotilde sedeva nel suo angolo, rigirandosi l’anellino tra le dita nervose, mentre il micino ronfava sereno sul cuscino di piume poggiato sulle sue ginocchia.

Babbo si girò: aveva una faccia strana, i baffi gli tremavano e lo sguardo sfuggiva di lato. Poi un gesto improvviso, un guizzo rapido del braccio e da dietro la schiena emerse un mazzo di otto rose gialle: “Una per ogni anno che mi hai regalato, mia piccolina!” sbottò babbo lasciando finalmente i baffi liberi di far sfuggire la sonora risata che fino a quel momento avevano trattenuto. Non si era dimenticato… non si era dimenticato!! Gli era corsa tra le braccia per farsi sommergere da uno di quei suoi abbracci che sapevano di terra smossa e di erba.

Tre mesi dopo babbo morì… per un incidente di caccia. Il padrone gli aveva sparato per sbaglio, scambiandolo per un fagiano. O forse per una lepre.

 

Del viso del suo babbo Clotilde, la pazza del paese, ha un ricordo vago, ma ricorda bene il suo profumo e quelle mani grandi e ruvide e la sua voce calda. Della mamma invece si inventa i contorni ogni giorno, ripetendosi a mezza voce i racconti del babbo, rigirando tra le dita un anellino lustro e antico, mentre percorre la collina affacciata sul mare con un vecchio gatto senza coda che le cammina faticosamente accanto. “Babbo, babbino…”

 

di Maddalena Gregori

6 Risposte a “Clotilde”

  1. È una storia dolcissima, mi ha riempito il cuore.
    Non so perché ma immagino i paesani guardarla con sospetto; la “pazza di paese” è un’etichetta che ha il retrogusto dell’emarginazione.
    Credo che per Clotilde la follia non sia una disgrazia ma una benedizione: “Protetta dal suo piccolo mondo e dai suoi affetti” ancora vivi nei ricordi. Del volto del suo babbo ha un ricordo vago. Ne dimentica, o sbiadisce, le fattezze come meccanismo di difesa, per non rinnovare il dolore del distacco fisico dal suo mondo, felice e pieno d’amore. Un mondo che le aveva costruito il suo babbo, un mondo che era il suo babbo. Un padre-madre straordinario, che le ha lasciato sentimenti, emozioni, e sogni da colorare con i ricordi vivi della sua mamma. E un gatto di cui prendersi cura…

  2. Già il lasciarti lì tra le colline e le nuvole morbide non è stato facile, e poi ti ritrovo qui. Coraggiosa narratrice di storie dolci e troppo spesso amare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.