Una candida e calda ala

 

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Bartolo si stringe forte nella sua giacchetta striminzita. Cerca di scacciare il freddo dalle sue ossa, cerca di scacciare il pensiero della fame dalla sua mente. Intorno a lui un paesaggio bianco di neve e di gelo, carico di un silenzio denso come melassa.

Da almeno un’ora ha lasciato il sottobosco per avventurarsi attraverso questa piana solitaria, inframmezzata solo da filari di alberi che segnano i confini dei campi e circondata da colline. Niente e nessuno all’orizzonte. Né un casolare, né un cane.

Niente che si muova, a parte la sua ombra, che lo precede già da tempo. Davanti a lui la sagoma informe del suo corpo magro, la testa incassata tra le spalle, le braccia incrociate strette sul petto, dondola come ubriaca. Dietro di lui il sole sta iniziando a rosseggiare, man mano che si approssima alla linea dell’orizzonte, lanciato verso l’ennesimo tramonto.

Bartolo lo sa, deve trovare un riparo e qualcosa da mangiare al più presto, o non supererà la notte. Ma scaccia subito questo pensiero dalla mente, altrimenti potrebbe anche decidere di sedere lì, dove si trova, e farla finita una volta per tutte.

Ha freddo, freddo, freddo, così freddo che gli pare che il suo sangue si sia fatto di ghiaccio. Sfrega il naso, si stringe le braccia al petto, le mani sotto le ascelle, ma la nuvola che ad ogni passo si svapora dalla sua bocca continua a ricordargli quanto fa freddo.

E la morsa che gli stringe lo stomaco gli ricorda che ormai è un intero giorno che non tocca un solo grammo di cibo. Le sue scorte, che si erano ridotte a pochi tozzi di pane rinsecchito, sono ormai terminate.

La sua ombra ciondola per la debolezza, davanti a lui, confusa alla vista dal vapore del fiato, scossa da tremiti. Si sente esausto e pensa solo a fermarsi, a fermarsi, a fermarsi… pensa solo a quanto sarebbe bello fermarsi, sdraiarsi per terra. Sta così male che arriva persino a pensare alla fonderia con piacere.

Non avrebbe mai creduto di poter rimpiangere quel caldo soffocante, l’aria satura di fumo, i muscoli doloranti. Era un inferno, quel lavoro, un vero inferno. All’alba veniva svegliato da sua madre con un sussurro soffocato. Aveva giusto il tempo per spruzzarsi un po’ di acqua sulla faccia e mangiare una fetta di pane e poi cominciava l’interminabile giornata di lavoro.

Suo padre, un povero operaio pieno di debiti, lo aveva portato alla fonderia che era poco più di un bambino e lo avevano messo ai mantici. In cambio di una paga misera, che avrebbe dovuto saldare i debiti della famiglia.

Lo ricordava ancora, suo padre, col cappellaccio nero e quel mantello a ruota di panno spesso, sotto cui lo nascondeva, proteggendolo da vento e freddo quando andavano insieme in paese o quando viaggiavano su qualche carretto. Suo padre e i suoi baffoni dritti e rigidi, erti e fieri come la coda di un gatto, e quel fazzolettone nero sempre al collo, per la disperazione di mamma.

Papà aveva partecipato ai primi scioperi delle acciaierie di Piombino, aveva lottato ed era finito in prigione. Bartolo ricordava ancora mamma che di notte piangeva curva davanti al camino spento dell’unica stanza in cui vivevano tutti ammassati, in silenzio per non farsi sentire dal resto della famiglia. Ma lui la sentiva lo stesso, sentiva quel respiro spasmodico e strozzato che lei cercava di spegnere nella gola, ma che poi esplodeva saturando di dolore l’intera stanza. E la notte diventava amara e scura e anche lui cominciava a piangere, ma in silenzio, che non voleva che mamma stesse male pure per quello. Erano tempi bui e i pochi soldi della colletta fatta dagli altri operai per aiutare la famiglia non bastavano a procurare il necessario. Così la mamma si era ingegnata a trovare dei lavori, dal bucato per certi dirigenti della fabbrica ai rammendi per gli uomini soli che ci lavoravano. Ma i soldi non bastavano lo stesso e pian piano mamma aveva cominciato a vendere le poche cose di valore di casa.

Quando papà tornò dalla prigione non era più lo stesso. Era malato, aveva una brutta tosse che non lo lasciava mai, i suoi baffi erano sempre meno ritti, e le medicine pian piano consumarono anche le poche cose rimaste. E così il suo papà, che aveva lottato contro la fabbrica e sacrificato la sua vita per combattere contro le pessime condizioni di vita degli operai, si vide costretto a consegnare il figlio maggiore a quel Moloch.

Dopo i mantici, per anni il compito di Bartolo era stato quello di rifornire di carbone gli operai, per tenere il forno sempre a temperatura, spingendo carriole e carriole di carbone. Di lì a qualche anno era passato dallo spingere la carriola a spalare direttamente il carbone nella caldaia.

Lavoro tanto, cibo poco e di scarsa soddisfazione, nessun affetto. A fargli compagnia solo la tosse, che tormentava tutti notte e giorno, sia in fabbrica che a casa. Di giorno e di notte, ma di notte era peggio, perché spesso faceva da sottofondo il respiro spasmodico e strozzato di sua madre. E Bartolo si sentiva soffocare dalla tosse di suo padre, dal pianto silenzioso di sua madre, dai ritmi assurdi della fabbrica.

E così, quando suo padre morì, Bartolo cominciò a pensare di scappare da quella vita, aveva chiesto di potersi licenziare, ma venne fuori che i soldi che lui guadagnava erano indispensabili per coprire l’enorme debito che la malattia di suo padre aveva scavato. E così  un giorno era scappato, senza nemmeno salutare sua madre, inseguendo il sogno di una vita diversa e più luminosa.

A questo pensiero, a Bartolo sfugge un sorriso amaro: “O troppo o niente” si trova a sussurrare. Sì troppo caldo, come alla fonderia, o un freddo che ti invade fino alle ossa, troppo nero, nero sui muri, sui vestiti, sulla pelle, nei polmoni, o tutto bianco, di neve e ghiaccio. “A me bastava anche meno!” proclama a voce alta, spezzando il silenzio di questa solitudine.

Ripensa alla sensazione di euforia che lo aveva accompagnato durante le prime ore della sua fuga. Era l’alba, quando era uscito dal centro abitato inoltrandosi lungo le paludi che circondavano Piombino, Respirava quell’aria gelida e si guardava attorno con occhi affamati. D’un tratto, come in una visione, bianco nel bianco gli apparve un trampoliere, ritto su una zampa sola. Bartolo si era fermato di colpo, per ammirare lo spettacolo di quel candore; l’uccello aveva ricambiato lo sguardo, ma forse con minore ammirazione, perché di lì a un attimo spiegò le ali per spiccare il volo.

Quella visione gli era sembrata un segnale del cielo, o forse del suo babbo, che sicuramente lo seguiva di lassù e che approvava la sua decisione. Lui, che aveva sempre lottato per una vita migliore…

Ma adesso Bartolo non ha più forza nelle gambe e segue come ipnotizzato la sua chilometrica ombra che lo trascina verso oriente, verso Ribolla, la città più vicina, come gli era stato indicato da quella donna incrociata poco fuori Follonica. Gli hanno parlato di colli coltivati a vite, della possibilità di lavorare col bestiame: pecore, capre, da accudire, da mungere. Lui, Bartolo, non l’ha mai fatto, questo lavoro, ma non ci mette molto a imparare. In miniera no, quello non lo vorrebbe fare, e caso mai solo per un breve periodo, perché lui sotto terra o a respirare polvere di carbone non ci vuol stare più.

Ormai il sole non c’è quasi più, la sua ombra si confonde sempre più con quelle della sera e Bartolo non sente più neanche tanto freddo. È stanco, trascina i piedi, non riesce più a sollevare le gambe. E cade.

Cade a terra come un sasso. Cade e all’improvviso gli pare che la terra sia così comoda, accogliente. Un attimo solo, per favore, un attimo qui sdraiato a riprendere fiato. Cerca un punto con poca neve e si arricciola un po’ su se stesso, per stare più caldo. Lo stomaco gli fa ancora male, ma il freddo lo sente meno. Solo pochi minuti, giusto per riposare… gli occhi si chiudono e la mente vola, scivola verso la pace di una palude candida, dove un enorme trampoliere dispiega la sua candida ala per avvolgerlo, come papà lo avvolgeva nel suo mantello quando era piccolo, per tenerlo protetto e al caldo. Una candida ala calda e l’uccello che ciangotta, come per consolarlo, lo culla piano e lo scalda. “Come stai come stai come stai” gli ripete il grande uccello fissandolo con amorevole attenzione “come stai come stai come stai”.

Ma Bartolo è stanco, vuole solo riposare un po’, vuole dormire qualche minuto, per rimettersi in forze e mugola, per far tacere l’uccello. Ma quello non desiste, e ora con la sua ala candida lo scuote, vuole svegliarlo, e Bartolo borbotta per farlo smettere ma ottiene l’effetto contrario. Le scosse sono sempre più forti, l’uccello lancia versi striduli, ora gli uccelli son due, litigano combattono, le loro ali si intrecciano in una lotta forsennata per conquistarsi il corpo di Bartolo. Forse se lo vogliono mangiare!

E così Bartolo raccoglie le ultime forze che ha in corpo e socchiude gli occhi, e davanti a lui, nelle ombre della sera che avanza, scorge ombre scomposte, voci che chiamano e incitano: “È vivo! Carichiamolo sul carretto, forza!”

“Ma chi è? Come si fa ad andare in giro con questo freddo solo con una giacchetta?”

“L’avevo detto io che avevo sentito una voce!”

“Dai, aiutami a caricarlo, prendete dei sacchi per coprirlo”

Mani sconosciute lo afferrano, lo accolgono, lo posano su sacchi colmi di sassi, altri sacchi lo coprono, poi uno scossone, tanti scossoni, e il carretto riprende il cammino. Verso dove non si sa, ma a Bartolo non importa: dorme, cullato dal dondolio scomposto del carretto, sogna del suo babbo, con un ampio mantello candido, che avvolge lui e la mamma e i suoi fratelli, sogna la zuppa calda con le patate e il cavolo nero, sogna lo sguardo attento di un uccello in mezzo alla palude.

di Maddalena Gregori

4 Risposte a “Una candida e calda ala”

  1. Scusa, ho saltato la parola nero all’inizio del commento. “Una storia in bianco e nero”. Anche se poi ho fatto riferimento al contrasto forte tra i due colori. Il nero è la morte ciò da cui fugge e il bianco è la morte che lo insegue nella fuga. Mi piace molto questo personaggio; qualcuno disse che quando si fa un ritratto in B/N si fotografa l’anima. Il tuo ritratto è potente, è un’anima che anela ai colori, con forza!
    Se ne hai voglia sviluppa la storia. Certo, un romanzo, sarebbe bello.
    Volevo infine dirti che, scrivendoti dal cellulare in questo momento (e spero di inviare), non posso vedere se hai corretto il nome anche in quella breve presentazione che appare sotto al titolo dei tuoi scritti ma solo se visualizzi il blog dal computer. Ricordo che li c’era scritto Bastiano.
    Ciao e grazie della pazienza. 🙂

    1. Corretto ovunque, mia lettrice custode! e corretto anche il tuo commento 😉
      Devo dire che ammiro la tua capacità di attenzione al dettaglio. Sei davvero preziosa!

  2. Una storia in bianco e nero senza sfumature. Molto dura, come il forte contrasto dei due colori della sofferenza di Bartolo. Fugge per il diritto ad una esistenza migliore. È un personaggio adulto, cioè maturo, capace di assumersi la responsabilità di una scelta determinata senza voltarsi indietro. Sono certa che ce la farà. Dentro di lui c’è un bagaglio di valori e sentimenti prezioso che gli darà sempre il coraggio di lottare fino allo stremo delle sue forze …e poi è amato dal cielo che gli darà sempre una mano.

    1. Grazie per aver notato che avevo dato più nomi al personaggio. Capita, quando si scrive e si rilegge senza badare. Ho corretto
      Sì, mi piaceva scrivere un racconto senza colori, in cui il bianco assume la valenza di morte che ha in certi Paesi asiatici. Il bianco della neve, che pare leggera e piacevole, ma che può dare la morte.
      P.S.: questo racconto non lo ricordavo. Chi sa, poteva essere l’incipit di un romanzo.

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