In un attimo

Apro gli occhi lentamente. Che caldo! Getto uno sguardo al di fuori del finestrino impolverato. La strada sterrata si estende candida tra due quinte di verdissimo grano da un lato e di vigne ben curate dall’altro.

Mi giro dall’altro lato ma un vago capogiro mi costringe a fermarmi. Una leggera nausea mi avvolge. Senza piegare troppo il collo, abbasso lo sguardo e osservo il volto di Laure, che giace col capo posato a tre quarti sulle mie cosce.

Ha un’espressione serena, le labbra leggermente socchiuse, le palpebre mollemente chiuse. Un improvviso flashback mi riporta a stamane, poche ore fa, mentre facevamo colazione a casa dei suoi genitori. La cucina sommersa da una luce mattutina fresca e abbacinante, la tavola riccamente imbandita da sua madre: frittelle, marmellate casalinghe, caffè, infusi, succhi di frutta, pane tostat “Su ragazze! Sedetevi e fate una bella colazione che tra un’ora si parte”.

Già da giorni si parlava di questa gita per le campagne del sud della Francia, dove loro vivono. Una gita per visitare i luoghi più belli, le vigne rigogliose, i campi dal grano alto.

“Forza, poche storie! Voglio che vi rimpinziate!! Ci ho messo due ore a preparare tutto!”

Le voci sono allegre, la luce è fresca e accecante, e avvolge tutto mandando bagliori dalla tovaglia, dai piatti, dalle tazze. Per i miei occhi assonnati questo è un bagno di luce violento, un’invasione che mi appanna la mente e mi intontisce. Ma le risate mi risvegliano, le battute, il suono elegante di questa lingua che ho sempre amato. Poche ore fa.

Mi sento tutta anchilosata e cerco di muovere il braccio che sta premuto contro il corpo di Laure. Una fitta lancinante mi strappa un lamento.

“Marta… sei tu? Stai bene?” è Catherine, la madre di Laure. Parla piano, la sua voce freme.

“Sì, sì. Sto bene. E tu?”

“Bene, mi pare… e Laure?”

Osservo di nuovo il volto della mia amica che giace col viso premuto sulle mie cosce. Proprio in quel momento un lungo sospiro rauco le smuove le labbra.

“Sì. Credo stia bene… E Patrick?” Patrick è il padre di Laure. È lui alla guida. Stamane ha annunciato che si sentiva un vero signore: in giro da solo con tre belle donne. “Un’occasione unica! Una giornata strepitosa!” continuava a ripetere ridendo sonoramente ogni volta.

Sempre stato così, lui: allegro, caciarone, ma mai volgare, e con un umorismo che sembra capire solo lui. Ma poi con la sue risate riesce a trascinare tutti in quel clima di sfrenata allegria che, nelle giornate libere, lo invade.

Nei giorni di lavoro, invece, è l’opposto. Serio, concentrato. Capita di incontrarlo per strada, con le sopracciglia contratte, la fronte aggrottata, ma non appena ti scorge un sorriso gli illumina la faccia e un abbraccio ti sommerge.

“Non si muove… Non so…” la voce di Catherine trema.

Noto che se ne sta seduta dritta, tutta tesa. Sembra far fatica a muovere il collo.

“Riesci a muoverti, Cathe?”

“Non so, mi duole il collo. Preferisco star ferma… E tu? Perché quel lamento di prima?”

“Il braccio”, rispondo “mi fa un male terribile se cerco di muoverlo. Forse è rotto” nel dire questo riprovo a sollevare il braccio, ma il solo pensiero del movimento da compiere mi provoca un dolore formidabile che mi costringe a fermarmi e mi strappa un urletto.

“Stai ferma allora”.

Osservo Laure, cerco di capire se i miei movimenti e i miei urli l’hanno svegliata. Ma sembra svenuta. Non reagisce. Le sfioro la fronte col braccio sano. È tiepida. Questo mi fa sentire più sollevata: ‘Che stupida sono!’ penso. Dopo il forte sospiro di prima il torace pare fermo, ma so che quando si è svenuti la respirazione si fa più leggera.

“Che facciamo ora?” chiedo come dando voce ai miei pensieri.

“Non so, Marta, non so. Aspettiamo… qualcuno passerà” la voce di Catherine mi giunge spezzata, come in un puzzle sonoro composto da piccoli appuntiti cocci taglienti, che non combaciano perfettamente tra loro. Forse le viene da piangere.

Io guardo fuori. Ormai è mattina avanzata e la polvere della strada sterrata che stavamo percorrendo ha ricoperto i vetri dei finestrini rendendo tutto più opaco. Ma il finestrino anteriore, quello dalla parte di Patrick, è andato in frantumi e da lì la visione è chiara. Riesco a scorgere una porzione anteriore del furgone contro cui siamo andati a sbattere. Pare che l’autista sia messo anche peggio di noi: una striscia di sangue cola dal braccio che sporge e segna la portiera bianca giù giù fino a sgocciolare a terra. Sullo sterrato bianco una macchia vermiglia di sangue.

Cerco di riportare la mente al momento dell’impatto… stavamo procedendo a velocità di crociera e Patrick mi mostrava le famose vigne di questa zona della Francia, mi parlava dei vini. Pochi mesi fa mi sono iscritta a un corso per sommelier e l’argomento vini è una delle mie più recenti passioni. Ma è anche la più antica passione di Patrick, ecco il motivo di questa gita speciale. E Laure e Catherine non vedevano l’ora di uscire tutti insieme, passare una giornata fuori, tra paesaggi rilassanti e chiacchiere e assaggi di specialità del posto in luoghi conosciuti solo da pochi.

Una mezz’ora fa abbiamo lasciato la strada principale, asfaltata, per inoltrarci tra i vigneti, poi siamo arrivati in una zona piena di campi coltivati, colmi di un grano verde e fresco, ancora in maturazione. Ovunque un frinire di cicale, un assordante frinire che ignorava il rombo dell’auto e che anzi arrivava persino a contrastarlo. A velocità di crociera, non c’era fretta. E nessuno nel raggio di chilometri.

Nessuno tranne questo furgone bianco che all’improvviso ci si è scagliato contro a un incrocio. Non so com’è successo, perché Patrick, nonostante non ci fosse in giro nessuno, agli incroci rallentava fin quasi a fermarsi, controllava che nessuno stesse arrivando, ma forse il grano alto gli ha impedito la visione, forse il frinire delle cicale gli ha impedito di sentire il motore del furgone… forse…

So solo che io e Laure stavamo ridendo di una battuta di Patrick e dicendogli che era matto, forse lui si è girato un secondo per guardarci ridendo, come era solito fare. Forse è stato lì che il furgone ci è venuto addosso. Uno schianto. Un bagliore improvviso. E poi una pioggia di vetri in frantumi, una nuvola di polvere che è entrata nell’auto, l’improvviso silenzio delle cicale, che tutte insieme hanno interrotto il loro canto. Un silenzio fragoroso quanto uno scoppio di bomba.

Un istante prima io e Laure ci guardavamo ridendo, un istante dopo lei giaceva riversa su di me, il suo volto posato sulle mie cosce. Il mio braccio sinistro incastrato parzialmente sotto di lei. E la polvere che si posa, le cicale che, timidamente, riprendono a frinire.

Osservo la nuca di Catherine, le sue spalle che si sollevano piano e poi piano scendono. Rimane immobile, rigida, col capo teso, sorretto dal poggiatesta. Respira lentamente, quasi con timore. “Catherine” sussurro “Senti molto male al collo?”

Lentamente lei si gira di tre quarti, sorride e risponde “Non preoccuparti, cara. Tu pensa al tuo braccio… e a Laure…”

“Certo.”

Il silenzio cade nuovamente tra noi. Un silenzio pesante, colmo di domande che nessuna delle due osa rivolgere all’altra: Patrick è morto? E Laure? Perché pare non respirare più? Ci troveranno? E quando?

Ho paura a fare queste domande a Catherine, ho paura di ferirla, di farla preoccupare, di farla piangere. Ho paura persino di pensarle.

Osservo il volto di Laure, il suo viso dall’espressione serena. Poi osservo il mio braccio sinistro, incastrato tra il sedile, la spalla di Laure e il mio fianco. È torto in modo innaturale.

Di nuovo osservo Laure: non si muove più da un pezzo, ormai. Con la mano destra cerco di scuoterla piano. Non voglio chiamarla ad alta voce perché Catherine potrebbe sentirmi e preoccuparsi. La scuoto, ma il movimento si ripercuote sul mio braccio sinistro provocandomi una fitta lancinante. Trattengo il gemito e interrompo il mio tentativo di far riprendere Laure.

La osservo con affetto. Da sempre è la mia migliore amica. La sua pelle candida e compatta pare di cera. Due lacrime mi riempiono gli occhi.

Sposto lo sguardo e lo rivolgo all’esterno, fuori dal finestrino. Ma davanti a me solo l’immagine di quella chiazza vermiglia, e la strisciata di sangue lungo la portiera bianca.

Le cicale hanno ripreso a frinire nel loro modo assordante. La luce del sole di mezzogiorno esalta il bianco polveroso della strada sterrata, il caldo mi avvolge come uno spesso mantello di lana, mi soffoca. Vorrei dell’acqua.

Vedo Catherine compiere dei cauti gesti verso suo marito; lo tocca, gli fruga le tasche.

“Che fai?” chiedo

“Il cellulare… lui lo tiene sempre in tasca”.

La mano destra di Patrick, che se ne stava posata sul suo ginocchio, crolla di fianco al sedile. Catherine lancia un piccolo grido, ritira la mano. Poi un singulto. “Patrick!” la sento sussurrare “Patrick”

Lui non reagisce, rimane lì col capo riverso sulla portiera della macchina, la mano penzoloni. Catherine riprende a frugare ma dopo un po’ lancia un gemito “Ah!…” e si porta una mano al collo.

“Tu non hai un cellulare?” mi chiede poi.

“Nella borsa, ma non riesco a vederla” rispondo mentre con lo sguardo cerco di individuare la colorata sacca indiana che mi accompagna ovunque. Ne scorgo un lembo sbucare da sotto il sedile di fronte a me, ma quasi non la riconosco, così scolorita. Con stupore noto che ogni cosa all’interno dell’auto appare come sbiadita, opaca, e capisco che è a causa della polvere bianca della strada che è entrata dai finestrini durante l’impatto e che si è posata ovunque. Di nuovo la sete mi prende la gola. Cosa darei per un sorso d’acqua, anche solo un sorso.

D’un tratto le cicale smettono di frinire, un’ombra avanza da dietro la quinta del grano, dietro al furgone.

“Catherine, c’è qualcuno!” annuncio speranzosa.

“Aiuto!” comincia a dire Catherine “Aiuto!” e si afferra il collo. Dal tono si capisce che la sua intenzione sarebbe quella di gridare, ma il dolore al collo probabilmente glielo impedisce. Nel frattempo l’ombra si è rivelata essere quella di un cagnetto, un bastardello ossuto che gironzola in cerca di chissà che. Si ferma, immobile osserva quello strano paesaggio, ringhia piano, preoccupato, e poi, con cautela, si avvicina. Prima al furgone: passi guardinghi, annusa l’aria, poi si china sulla macchia vermiglia, dà un paio di leccatine.

“Vattene!” urlo io. Il cagnetto ha uno scatto all’indietro, mi osserva, e poi riprende a trotterellare nella direzione in cui era diretto prima di incontrare noi.

Come per riflesso controllo Laure, quasi temendo di averla svegliata col mio urlo. Ma lei è sempre lì, stessa posizione, stessa espressione. Le sfioro la fronte. È fresca in modo innaturale, in questo caldo opprimente. Dal mio viso scivolano gocce di sudore, lungo il collo. Vorrei tanto un sorso d’acqua.

E queste cicale che non la piantano di frinire. Mi sento frastornata, spaventata, ‘non ci troveranno mai!’ mi ritrovo a pensare. E penso anche che Laure è stata fortunata, perché lei ora non soffre più mentre una lunga agonia attende me e Catherine.

“Non avere paura, Marta” mi sussurra la voce di Catherine “ci troveranno. Questa non è una strada così isolata”.

Mi avrà sentita piangere? Poi alzo lo sguardo e nello specchiatto retrovisore incontro lo sguardo stanco di Catherine.

Di nuovo mille domande pesanti come macigni mi si affacciano alla mente, e queste cicale che non smettono di frinire. E questa sete che mi morde la gola.

A un tratto una voce, un mugolìo. Dapprima penso a Patrick, ma poi, no, proviene dal furgone. La mano insanguinata si muove piano, dondola. La voce si fa di nuovo risentire, lamentosa: “Ahh, aiuto… aahh”.

“Ci siamo anche noi” risponde Catherine “Ma siamo ridotti male, come lei. Stia fermo, non si muova”.

“Sì” risponde rauca la voce. Poi un viso si affaccia al finestrino rotto, una ferita sulla fronte ha inondato di sangue il viso, ma non dev’essere profonda, perché il sangue è ormai secco.

“Che è stato?” chiede l’uomo.

“Un incidente” risponde pacata Catherine “Lei ha un cellulare?”

L’uomo la fissa con espressione vacua, come non capisse ciò che gli viene chiesto.

“Ce l’ha un telefono cellulare?” ripete Catherine a voce un po’ più alta.

Il tipo si gira verso l’interno della cabina, bofonchia qualcosa e lo sentiamo armeggiare. Poco dopo un gracchiare sconnesso comincia a emergere dal furgone, mescolato al frinire stordente delle cicale. Io e Catherine aguzziamo le orecchie, ma non riusciamo a capire nulla. Sentiamo il tipo che da dentro la cabina bofonchia qualcosa, una bestemmia, un “… s’è rotto! Porca…” e poi lo vediamo ricadere riverso sul sedile.

“Signore! Signore!” grido io “Come sta? Ci sente?”

Niente. Solo l’intermittente gracchiare di prima mi risponde, mescolato al frinire delle cicale. E intanto la sete mi sta uccidendo. Cerco di deglutire ma mi sembra di avere le pareti della gola incollate tra loro. Sono stanca, il braccio ora mi fa un male pazzesco anche se sto ferma e Laure giace pallida e fredda sulle mie cosce.

Cerco lo sguardo di Catherine nello specchietto retrovisore, ma se ne sta lì a occhi chiusi, immobile. La imito e cerco di non pensare, di svuotare la mia mente. Riapro gli occhi e osservo la schiena ricurva di Patrick, li richiudo e rivedo il suo sorriso allegro di stamattina, nel momento in cui si è girato verso me e Laure per una nostra battuta, e poi lo schianto, la nuvola di polvere bianca e di frammenti di vetro che ha invaso l’intero abitacolo, l’ombra oscura del corpo di Laure che rimbalza più volte davanti ai miei occhi e l’impatto finale, contro il mio braccio, la sete che mi attanaglia la gola, la nuca di Catherine, il frinire delle cicale, il gracchiare della radio all’interno del furgone, il rumore del motore, il frinire frastornante delle cicale, il rumore del motore… apro gli occhi. Cerco di capire se si tratta di un’allucinazione o di realtà.

Dall’oceano assordante delle cicale emerge lieve il suono estraneo e scoppiettante di un motore. Pare avvicinarsi, si delinea sempre più chiaramente: è proprio un motore.

Come in un miraggio da dietro la quinta del grano, proprio da dove era apparso il cagnetto, ecco un’auto: due uomini si precipitano fuori, corrono verso il furgone, parlano concitati.

“Aiuto!” cerco di gridare io, ma dalla gola solo un suono strozzato.

Catherine ha riaperto gli occhi, con voce flebile la sento aggiornare il tizio che è corso verso la nostra auto su ciò che ci è successo. Il tipo ha un cellulare in mano, chiama, chiede delle ambulanze, spiega al telefono dove si trova il luogo dell’incidente. Lo vedo osservare rapidamente Patrick e Laure e distogliere subito lo sguardo. Poi di nuovo si rivolge a noi, sollecito, chiedendoci se e dove sentiamo male, suggerendoci di stare immobili: “Tra poco arriveranno, non preoccupatevi”.

Poco… Quanto può essere lungo un minuto. Può durare secoli se te ne stai in un’auto sotto il sole rovente, con un braccio rotto e con la tua migliore amica riversa sulle cosce.

Ma alla fine anche le ambulanze arrivano. Gli infermieri si prendono subito cura di Catherine, le mettono un collare, la adagiano su una barella, dicono qualcosa su una sospetta frattura di un vertebra del collo, rischio di paralisi. Poi arriva il mio turno, ma prima devono sollevare il corpo di Laure (il corpo di Laure… solo ora formulo questo pensiero, solo ora mi rendo veramente conto che Laure non c’è più e che qui c’è solo il suo corpo).

La sollevano tirandola per un braccio e io lancio un urlo atroce, come se avessero tirato il mio. Lacrime di dolore scorrono senza controllo sulle mie guance. Un male così non l’ho mai provato. Mi steccano il braccio e mi adagiano sulla barella mentre continuo a lamentarmi.

Un’altra ambulanza si occupa invece del conducente del furgone: a quanto pare è ancora vivo, anche se incosciente. Parlano di trauma cranico.

Nel frattempo anche Patrick viene messo su una barella e lo caricano sull’ambulanza su cui hanno già caricato Laure. A me mi mettono accanto a Catherine. Un’infermiera finisce di sistemarci sulle barelle, fissa le cinghie per non farci cadere e io la blocco: “Ho sete…” la mia voce ha un tono di supplica.

“Ce la fa a resistere Un quarto d’ora? L’ospedale è vicino e prima di darle da bere dobbiamo essere certi che non ci siano lesioni interne.” poi, con sguardo comprensivo, aggiunge “Le metto in bocca qualche goccia di succo di limone, così le passa un po’ la sete”.

La ringrazio con lo sguardo, poi mi volto verso Catherine. L’enorme collare le copre quasi del tutto il viso; emergono solo la fronte, la punta del naso e il mento. Allungo il braccio buono e riesco a sfiorare il suo con un dito. Lei sussulta, gira appena il viso, scorgo un  occhio. Mi sorride, allunga il braccio e mi afferra la mano.

Ci teniamo così, per mano, per tutto il tragitto, fino all’arrivo all’ospedale, senza dire una parola, piangendo in silenzio.

 

 

3 Risposte a “In un attimo”

  1. In un attimo la vita cambia, e a volte con conseguenze che ti accompagnano per il resto dell’esistenza. In un attimo arriva la morte. Ecco perché dobbiamo celebrare l’attimo come fosse l’eternità… e non accade spesso! Sembra così ovvio ma così difficile da farsi.
    Immagino cosa sarebbe rimasto nell’animo delle due supersisti se l’attimo prima dell’incidente in quell’auto fosse scoppiata una lite. Non compenserà il dolore ma, almeno, di quell’attimo di bellezza interrotta resterà un commiato dai propri affetti pieno d’amore e felicità, e così resterà per sempre.

    1. Sai, anche questa è una storia vera, accaduta a una mia amica che me lo raccontò. E io rimasi inebetita. Scrivere mi aiuta a ripulirmi dalle emozioni troppo forti.

  2. il mio blog lo trovi con il link kriminalkreb.blogspot.com Credo che Perla sia riuscita a riparare ai miei errori e credo sia libero l’ accesso anche a commentare. Alla peggio io sono su FB come Benito Cremonini. Nel mio abituale casino mi si trova nel web anche come Vedrò di rimettere in sesto i miei casini …. Grazie della richiesta che ho visto in quello sbagliato. In queste cose sono peggio di un analfabeta…

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