La villa di famiglia

Le note si diffondono tra le pareti ricche di stucchi e affreschi della sala da musica. Alberto si agita un po’ sulla sedia: non ha mai amato la musica classica ma oggi non poteva proprio rifiutarsi di partecipare a questa farsa.

Accanto a lui siede Vittoria, la sua splendida fidanzata, dal fisico così perfetto da permetterle di indossare un aderente abitino in maglia bianca. La pelle candida e traslucida del volto sembra emettere una luce che illumina tutto ciò che la circonda. Un biancore esaltato dalla massa oscura dei ricci corvini che, come una nuvola di temporale, circondano il suo viso, un’oscurità magica che rimbalza sulle sopracciglia perfettamente incurvate, le folte ciglia e gli occhi. Che occhi! Oscuri e profondi come laghi di notte, come pozzi in cui Alberto precipita ogni volta che la guarda. E poi la bocca, di un rosso intenso e naturale, che anche adesso, qui in mezzo a tutti, sembra urlargli “Baciami”.

Incapace di sottrarsi all’attrazione che la donna provoca su di lui, Alberto non riesce a distogliere lo sguardo e ne scruta il profilo, si perde a inseguire la curva perfetta della fronte, la sinusoide che con essa traccia lo slancio all’insù del naso. E poi i due sensuali rigonfiamenti delle labbra, seguiti dal mento tondo ed elegante.

La osserva e pensa a certi ritratti di dame del rinascimento, ma anche alle Salomé di Klimt, sintesi estrema di sensualità e seduzione.

Come ha fatto, si chiede, come ha fatto lui, povero provinciale dagli umili natali, a conquistarla? Perché lei non fa altro che dichiarargli il suo amore, e lui non può fare altro che amarla, ogni giorno di più.

Si erano conosciuti circa un anno fa all’università, durante una lezione di Epistemologia e filosofia della comunicazione. Lui si era accomodato in prima fila perché il docente era quello che, molto probabilmente, gli avrebbe fatto da relatore per la tesi finale. Ne avevano già discusso ampiamente e dovevano solo definire gli ultimi dettagli, quindi Alberto ci teneva a dimostrare al professore la sua serietà.

Ma torniamo a quel giorno di lezione: lui si era accomodato in prima fila, appunto,  praticamente solo perché gli altri studenti non ci tenevano a essere sotto il controllo del docente. Ma d’un tratto quella splendida creatura si era seduta accanto a lui. Con tutti i posti liberi che c’erano, lei si era seduta proprio lì, accanto a lui. Aveva presagito il suo arrivo dallo sguardo del professore che all’improvviso, pur continuando a spiegare un qualche astruso concetto, si era fissato su un soggetto che doveva essere entrato nell’aula, aveva percorso il corridoio centrale e aveva raggiunto la prima fila e poi il posto accanto al suo. Fu solo quando lei si sedette che Alberto si girò a vedere chi fosse la persona che aveva catturato l’attenzione del docente.  E così per la prima volta ebbe modo di vedere quella splendida creatura.

Ma la sua prima reazione non fu né di ammirazione né di attrazione, bensì di rabbia. Rabbia perché da quel momento, fino a fine lezione, il professore dedicò tutta la propria attenzione alla bellissima donna che gli stava accanto, ponendo lui nell’ombra.

A fine lezione, furioso, aveva raccolto i libri ma lei lo aveva fermato: “Scusa se ti disturbo” aveva esordito rivelando una voce armoniosa quanto il suo aspetto “Per caso tu lo conosci bene, il professore?”

“Perché?” aveva risposto lui con tono scostante.

“Ho notato che continuava a guardarti, come se vi conosceste” aveva detto lei.

‘Guardava me?’ aveva pensato lui ironico. Ma poi, messa da parte la sua rabbia illogica, aveva risposto: “Probabilmente sarà il relatore della mia tesi. ”

“Oh, che bello!” Aveva cinguettato lei “Allora volevo sapere, se non ti disturba, se puoi farmi un favore.”

“Se posso!” ormai ogni animosità se ne era andata, e Alberto lasciò che emergesse la sua vera natura di ragazzo semplice e generoso “Di cosa si tratta?” E lei allora gli aveva chiesto di venire presentata al professore che avrebbe potuto farle avere il permesso di consultare certi documenti in biblioteca per cui serviva, appunto, l’imprimatur di un docente della materia. Continuarono così a parlare per un po’ di lezioni, interessi, studi,  proseguirono poi bevendo qualcosa a un bar, e infine si diedero appuntamento alla successiva lezione. In quell’occasione Alberto aveva presentato Vittoria al professore, che aveva apprezzato molto l’opportunità offertagli dal suo studente e che, nella stessa occasione, aveva confermato la sua disponibilità a fargli da relatore.

Per festeggiare, Alberto e Vittoria quella sera erano andati a cena insieme in un’osteria. E quella stessa sera si erano scambiati il primo bacio, i primi abbracci.

Col tempo Alberto ebbe modo di scoprire che Vittoria era l’unica figlia di un capitano d’industria che stravedeva per lei. Una famiglia ricca, aveva intuito Alberto. Ma quanto fosse realmente ricca lo aveva scoperto pochi giorni fa, quando era finalmente arrivato ospite nella loro villa ottocentesca  in riva al lago. L’occasione erano i festeggiamenti per il compleanno del padre di Vittoria che convogliavano nella villa i parenti, gli amici di famiglia e i vari soci in affari dell’azienda. E la festa generalmente teneva occupate almeno un paio di giornate, ricche di impegni culturali e gastronomici che si svolgevano nei vari locali della villa.

E adesso è il momento della musica da camera, nello specifico il “Divertimento per violino, viola e violoncello K563″ di Wolfgang Amadeus Mozart.

Nella sala le note si inseguono, le voci acute e gravi degli strumenti si incalzano, piroettano, si rincorrono e poi di scatto fuggono una dall’altra. Prima il trillo del violino, poi in controcanto della viola, un po’ più grave, e infine il serio violoncello, con quel suo carattere un po’ brontolone.

Alberto lascia che le note rotolino allegre nel suo cervello mentre con lo sguardo studia i presenti, i sussiegosi signori, le raffinate signore, pochissimi i giovani, assenti i bambini, confinati in un’ala della casa con le baby sitter assoldate per queste due giornate affinché i genitori possano partecipare alle varie attività senza essere disturbati. Alcuni ascoltano attenti, altri nascondono sbadigli, altri ancora dormono senza alcun ritegno.

Vittoria, seduta al suo fianco, ascolta muovendo con grazia la testa: talvolta, nei passaggi più intensi, socchiude gli occhi, inarca il collo, e i capelli come un’onda  sottolineano i suoi movimenti. Alberto la osserva incantato: da quando sono arrivati alla villa, Vittoria sembra ancora più bella del solito, così bella da apparire irreale. I suoi capelli corvini circondano il viso, gonfi e asciutti, resi quasi ispidi dal vento di scirocco che increspa la superficie del lago. Poco prima del concerto lei se ne era lamentata: “Non sopporto questo vento, mi rende nervosa” aveva detto, e lo sguardo le si era acceso in un lampo improvviso e inquieto. Lei, di solito così calma e garbata, da quando erano arrivati aveva cominciato a mostrare una tensione che le scorreva sotto pelle e che solo a tratti emergeva attraverso quegli sguardi ferini.  Era una nuova Vittoria, per Alberto, un nuovo territorio da scoprire.

Lui, invece, dal vento ha ricavato solo una tosse fastidiosa, un perenne graffio che lo spinge a schiarirsi la gola di continuo. Una vera tortura, durante il concerto, visto che ogni singolo rumore provoca occhiatacce da parte del padre di Vittoria.

Finalmente il concerto ha fine e Alberto può tossire liberamente. “Che hai?” gli chiede Vittoria.

Ma l’accesso di tosse impedisce ad Alberto di rispondere, si sente soffocare, il respiro non riesce a penetrare fino ai polmoni. Ormai l’intera sala lo osserva, Vittoria, al suo fianco, lo guarda con espressione esterrefatta e imbarazzata.

“Un bicchier d’acqua!” sente dire da qualche parte.

“Chiama la cameriera e fai portare lo sciroppo per la tosse!” esclama la voce del padrone di casa rivolta non si sa a chi. Spera solo che non si stia rivolgendo a lui, perché tutte le sue forze sono dedicate a cercare di riprendere fiato.

Alcune manate sulla schiena peggiorano il suo stato, mentre altre mani che lo afferrano per le braccia, lo guidano da qualche parte. Finalmente si trova seduto nell’enorme cucina della villa e, mentre una cameriera gli porge un bicchier d’acqua, il padre della sua fidanzata versa con cautela lo sciroppo in un cucchiaio. Alberto, che nel frattempo è riuscito a riprendere un po’ fiato, beve un sorso d’acqua e poi, obbediente, trangugia lo sciroppo.

“Meglio?” chiede il padre di Vittoria.

“Sì, grazie” ansima Alberto con voce strozzata.

A quel punto tutti si allontanano, lasciandolo finalmente solo. O così credeva perché all’improvviso la voce di Vittoria giunge dalle sue spalle: “Che ti è preso?”

“Non so, mi sento la gola così secca… non riuscivo a respirare. Forse quest’aria così secca e calda”

“…”

Un  silenzio che pesa più di ogni parola. Alberto si gira a guardare Vittoria, cercando una spiegazione per quel mutismo duro come un sasso. Lei è lì, immobile come una statua di marmo, fasciata dal suo abitino in maglia del colore della sua pelle, con quella massa di capelli che fluttuavano intorno al viso come serpi nervose. Gli occhi brillano di una luce smaniosa a cui Alberto non sa dare un senso.

“Che c’è?” chiede lui “Che hai?”

“Io sto benissimo” risponde lei asciutta lanciandogli una saetta con gli occhi.

Alberto è stupefatto: in un anno non aveva mai visto Vittoria nervosa o arrabbiata. È sempre stata la più dolce delle creature, comprensiva, soave, calma. Lei era il suo porto sicuro, la sua isola di pace. Ma qui, da quando sono arrivati, la vede cambiare di minuto in minuto. Anche il candore della sua pelle sembra aumentare sempre di più,  dandole un aspetto sovrumano: una dea, ecco in cosa sembra trasformarsi.

Ma quegli sguardi. Pare che un furore profondo sfugga al suo controllo trovando come via d’uscita quelli occhi neri come pozzi.

“Sei arrabbiata?” mormora lui con tono sottomesso.

“Come ti viene in mente?” risponde lei secca girandosi e dirigendosi verso la sala in cui si sta svolgendo il ricevimento, seguita da quella massa di capelli che si contorcono come fossero vivi.

Alberto rimane lì come un allocco: ma che sta succedendo? Quella non è la Vittoria che conosceva. Dal momento in cui erano entrati in quella villa lei aveva cominciato a cambiare, un’ombra oscura si era venuta frapponendo tra loro due.

Sovrappensiero, prende il bicchiere d’acqua che gli aveva portato la cameriera e ne beve un sorso. Un senso di sollievo lo pervade. Quella sensazione di aridità che si portava dentro si placa un po’. Sempre distrattamente si gratta il collo e si ritrova le dita sporche di sangue. Tocca di nuovo il collo percependo una piccola ferita, come un graffio: deve essersi ferito facendosi la barba, ma come ha fatto a non accorgersene?

Si alza guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa in cui specchiarsi, vede una padella nuova appesa al muro e la afferra.

La cameriera, rientrando in cucina, lo trova così, intento a specchiarsi nella padella tirata a lucido.

“Fa male?” gli chiede la ragazza.

Alberto trasale, poi “No, no,… solo non capisco come ho fatto…”

“Io, fossi in lei, stanotte andando a letto mi porterei un bel paletto di frassino” gli dice la ragazza “In questa casa ne succedono di cose strane!” E se ne va, canticchiando a mezza voce l’ultimo successo del festival dei fiori.

 

di Maddalena Gregori

 

 

Questo post fa parte di un gioco di scrittura tra blogger, su parole scelte a turno dai partecipanti, organizzato su Verba Ludica. http://carbonaridellaparola.blogspot.it/search?updated-max=2018-02-23T08:56:00%2B01:00&max-results=1

14 Risposte a “La villa di famiglia”

    1. Quel palazzo per caso era una villa ottocentesca in riva al lago? Uno spasso, per un monello! Grazie della visita e dei complimenti.

  1. Una storia molto lunga. Descrivi molto bene scenari e paesaggi, ma anche questa volta fatico a trovare le emozioni tra le righe. E’ evidente la tua capacità linguistica, ma lo stile sembra più quello di cronaca. C’è forse un muro invisibile tra la “penna” e le emozioni?

    1. Vero, non si può certo definire il mio racconto più carico di emozioni, anzi. Tuttavia sono convinta che le emozioni ce le mettano un po’ anche i lettori. Il racconto precedente del gioco era per me carico di emozione. Ma può benissimo essere che tu non ce l’abbia trovata. A volte i muri sono anche tra chi legge e ciò che legge: molte cose che leggo non mi comunicano molto. Semplicemente, non sono nelle mie corde. Grazie della tua critica sincera

  2. Ciao Dealma, sono un’amica di Perla e ti ho cercata dal suo blog. Non è la prima volta che ti leggo, come gli altri partecipanti al gioco, e non ho mai commentato nessuno, a parte Perlina, perché troppo impegnativo per il tempo di cui dispongo. Questa volta farò un’eccezione, almeno con te. 🙂
    Non resisto alle storie di vampiri. Sarà che sono ossessionata dai vampiri energetici di cui spesso mi ritengo colpevolmente vittima. Colpevole perché va bene la prima, la seconda e la terza ma se ci casco sempre è reiterazione del reato contro me stessa. Scusa la parentesi personale.
    La tua vampira ha tutta la bellezza e la magia del predatore. Ti seduce, ti travolge totalmete per poi …ucciderti. Lei sì che è una vera Vamp!!! 🙂 Penso che tra i vampiri energetici sia della specie peggiore. Consapevole, intenzionale, maligna. Cerca persone buone e generose da soggiogare per succhiarvi linfa alla propria esistenza, a partire dal professore universitario (ironico come ci sia cascato proprio uno studioso di Epistemologia e filosofia della comunicazione) per finire alla trasformazione in una “dea” una volta che lo ha intrappolato nell’ambito della sua identità psichica, almeno questo mi comunica la villa di famiglia, che mi viene di chiamare semplicemente casa.
    La domanda è? Come ci si difende da questi succhiasangue?
    Canticchiando le canzonette del festival dei fiori? 🙂
    Grazie, e scusa se sono stata prolissa.

    1. Il commento è arrivato ed è decisamente molto ricco e stimolante. Come difendersi? Difficile dirlo: c’è chi sviluppa gli anticorpi, e chi invece non ci riesce, anche se ci passa e ci ripassa. Mi viene da consigliarti un libro: “Donne che amano troppo”, della Norwood. Credo sia lì che ho letto che chi cresce in una situazione “malata” (ovvero relazioni con persone patologiche) tende a cercare le stesse situazioni nel corso della vita perché, pur standoci male, si sente attrezzato per gestirle. Un po’ come chi, pur avendo l’aspirapolvere, preferisce usare la scopa anche se semina polvere, spazza peggio, richiede più fatica e più tempo. Ma “ci sono abituata”. Insomma, bisogna smontare un’abitudine e costruirne un’altra, il che è molto faticoso.
      Ciò detto, ti ringrazio della visita e dell’onore che mi hai riservato!

      1. Ciao, e grazie a te della condivisione e dei suggerimenti! Mi mette allegria l’esempio dell’aspiravolvere e della scopa perché siamo alle porte di marzo, nonostante il gelo, e sarebbe opportuno attrezzarsi per le “pulizie” di primavera con strumenti più efficaci. Ci proverò! Molto faticoso ma non impossibile.
        Un pensiero sul tuo racconto: mi sembrava di essere al cinema ed è un complimento. La tua scrittura ha anche una giocosità molto piacevole. Mi sono divertita come lettrice/spettatrice dei tuoi personaggi.
        Grazie dell’attenzione, buona serata.

        1. Grazie. In effetti è una cosa che mi piace trovare nei libri che leggo: seguire un’azione che si dipana davanti a i miei occhi come fosse un film. Il tuo commento è molto gradito.

    1. Grazie Kate. In realtà tutto è partito dal finale: il paletto in legno di frassino. Tutto il resto l’ho cucito attorno.

    1. Ahahahah, e nemmeno tutta dolcezza quella raccontata dalla bellezza. Bisogna aver lenti interiori per scoprire la bellezza che sta dentro una persona.

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