Tanguero

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Giunto alla sua scrivania si accorse che al centro della stessa, semi-confuso tra scartoffie e faldoni, bivaccava pigramente un foglio di carta estraneo. Era un disegno, una caricatura, di certo lasciata lì non casualmente da un qualche caro collega.

Diego lo afferrò, l’accartocciò, lo gettò nel cestino e sedette pesantemente sulla sedia molto poco ergonomica che gli era stata assegnata. Per un istante, un solo breve istante, sentì il respiro bloccarsi, l’aria che non entrava nei polmoni. Si strinse la testa tra le mani.

“Faccia da pesce”. Così lo chiamavano, fin da quando era bambino. Colpa di una conformazione cranica che gli conferiva un viso stretto e allungato, a cui facevano da contraltare due orecchie tonde e sporgenti, che parevano due pinne. “Faccia da pesce” era il nomignolo che lo accompagnava fin dalla primissima infanzia. A scuola, all’istituto di ragioneria, alla materna persino…

Ricordava, rabbrividendo di odio, quella volta in cui il professore di ginnastica si era messo a ridere apertamente alle battute dei suoi compagni di classe. Invece di difenderlo aveva riso di lui, con loro!

Diego aveva sì e no 12 anni, e se ne stava accoccolato in un angolo del campo di calcetto che si trovava dietro la scuola, mentre un gruppo di coetanei incattiviti gli facevano cerchio attorno deridendolo, insultandolo: “Pari un branzino!”, “Puzzi pure, come un pesce…”, “Ma dì un po’, quanto mangime ti dà tua madre la mattina?”, “Ammazza, fai proprio senso!” e così via.

L’attacco era iniziato negli spogliatoi, dove era partito con un paio di battute sulla puzza di piedi, anzi no, di pesce marcio, e poi “ma chi è, chi non è…” insomma, dopo poco tutti erano girati verso di lui che, nel frattempo, avendo intuito l’avvicinarsi della burrasca, si era vestito rapidamente e aveva cercato di raggiungere l’uscita. Ma i più grossi lo avevano trattenuto tirandolo per le maniche, afferrandolo per le caviglie, i polsi, le braccia, il collo persino. In pochi istanti gli furono tutti addosso, chi gli tirava le orecchie, chi i capelli, si sentiva le mani dappertutto, persino lì… Il panico lo invase e, spinto dalla disperazione, riuscì a divincolarsi, a strapparsi di dosso quegli artigli, a sfuggire da quelle risate. Si trovò, non sapeva come, nel corridoio, e da lì sulle scale che percorse volando.

Ma quando fu fuori, nel sole, in quella luce accecante, ebbe un breve attimo di titubanza e i suoi aguzzini ne approfittarono per raggiungerlo e spingerlo in un angolo del campetto.

Ora era lì, accoccolato, le ginocchia tirate vicine al petto, la fronte sulle ginocchia, le mani intrecciate sulla nuca, le braccia strette sulle orecchie, mentre i suoi compagni di scuola lo circondavano sempre più da vicino, sempre più minacciosi. Fu in quel momento che, dal fondo del campo si udì la voce del professore di ginnastica: “Ehi voi!! Che state facendo laggiù?”.

Per Diego fu un segnale di speranza. Sollevò il capo di pochi centimetri, sbirciando di tra le gambe degli altri, che si erano girati verso il richiamo.

“Allora?? Che succede?” disse la voce ormai vicina.

“Niente prof! Faccia da pesce è cascato e noi lo stavamo aiutando a rialzarsi…” disse Massimo Chienzi, il più figo della scuola, piccola promessa della squadra di calcio juniores e figlio di un noto architetto.

“È cascato CHI???” chiese il professore con tono incredulo.

“Lui, faccia da pesce!” ribadì Chienzi indicandolo. E fu allora che Diego udì l’inconfondibile sbuffo di una risata maltrattenuta. Alzò lo sguardo e vide la faccia del professore distorta da un’incontrollabile voglia di ridere, mentre tutto intorno esplodevano le risate degli altri. Un boato violento e lui si strinse di nuovo le braccia sulle orecchie, le mani intrecciate sulla testa, il viso nascosto tra le ginocchia.

Non ricordava come ne fosse uscito, ricordava solo che dopo quell’episodio aveva perso qualunque fiducia negli esseri umani, di ogni età e razza e sesso. Si era chiuso in casa, tra i suoi hobby e gli studi, e aveva vissuto la sua adolescenza in solitudine. Ma d’altro canto nessuno dimostrò mai l’intenzione di essergli amico. A lui restava solo la soddisfazione degli studi: divenne bravo, molto bravo, e a fine scuola trovò presto lavoro. Era apprezzato, ricercato per la sua precisione, ebbe offerte vantaggiose, aumenti di stipendio, avanzamenti di carriera. Ma un vuoto dentro lo straziava, lo divorava, e lui non vedeva soluzione e pensava che quella sarebbe stata per sempre la sua vita. Per sempre.

Poi una sera, mentre tornava a casa a piedi – una scura e umida sera d’inverno, con la nebbia che faceva da schermo tra il mondo e i suoi pensieri -, un cartellone pubblicitario attirò la sua attenzione: colori vivaci, silouhette eleganti di un uomo e una donna intrecciati in un abbraccio sensuale. Corsi di ballo latino americano. La prima lezione di prova gratuita. Qualcosa lo incantò, forse i colori, forse l’eleganza di quelle due figure, forse semplicemente era stufo di sentire quello strazio dentro, e così prese nota di orari e indirizzo.

“Buonasera, sono venuto per il corso di ballo… la serata di prova…”

Sonia rimase immobile per un istante, come folgorata, di fronte a quell’uomo dal viso strano e dallo sguardo colmo di pacata tristezza.

“Certo, prego, si accomodi!”

Intimidito, Diego non osò guardare in faccia quella giovane donna dal volto allungato, ma dalle movenze eleganti e dai lunghi capelli neri raccolti in un morbido chignon.

“La prima lezione consiste in una prova di mambo, salsa e merengue… sono tutti balli abbastanza semplici, non si deve preoccupare… Però le scarpe che ha non vanno bene, se vuole proseguire col corso dovrà comprarsene un paio di quelle buone. Le saprò indicare un negozio dove ce ne sono di produzione inglese, perfette per lo scopo” La voce di lei danzava vivace tra le pareti di quella sala troppo ampia e lui teneva gli occhi bassi, temendo di leggere su quel volto dal profilo nobile insofferenza o scherno.

Le due ore di lezione trascorsero in un lampo per entrambi e mentre volteggiava tutto concentrato a contare i passi sulle punte dei propri piedi, Diego notò sorpreso che si sentiva lieve come una piuma, perfettamente a proprio agio nel sostenere per la vita la compagna di ballo.

“Sa che lei è proprio bravo? Non sembra un principiante!” gli disse a fine serata Sonia “Glielo dico sinceramente, non per convincerla a tornare!” aggiunse ridendo con una risata aperta, e forse un po’ troppo squillante “Se deciderà di farlo sarò felice di vederla. Anche perché sarebbe uno spreco se un simile talento non venisse sfruttato!” concluse tendendogli la mano. Ma tremava, Sonia, dietro la sua apparente sicurezza, perché quello sguardo triste e ardente l’aveva già trafitta. E lei aveva paura, temeva che quella lieve iniziale trafittura potesse ancora una volta trasformarsi in strazio, in abbandono. Come già le era accaduto, con tutti quegli uomini che, prima o poi, la lasciavano per qualcuna più bella di lei. Gli tese la mano, dunque, e gli sorrise fingendo un distacco che non c’era.

Diego, troppo preso dalle proprie, non notò le emozioni che si agitavano nel cuore di Sonia. Uscì dalla scuola con l’adrenalina a mille, eccitato percorse la strada fino a casa saltellando a ritmo di una musica interiore che gli infondeva un’allegria mai conosciuta prima e, una volta a letto, trascorse la notte fissando il soffitto, assolutamente certo che sarebbe tornato alla scuola. Anzi!, che il giorno dopo sarebbe andato a comprare quelle famose scarpe inglesi.

Di lì a due mesi era il miglior ballerino di mambo della scuola, al punto che Sonia lo assegnava alle studentesse meno dotate, certe signore rigide come dei bacchetti, tremebonde e confuse, che passavano il tempo a fissarsi i piedi e a contare a bassa voce “un duetttré, quattro cinquesei”. Ma la cosa che più colpiva Diego era che nessuna, ma proprio nessuna, pareva badare al suo volto. Gli era capitato di scorgere, al momento in cui Sonia le assegnava a lui, uno sguardo velato di lieve delusione o, nel migliore dei casi, completamente indifferente. Ma a fine lezione, quando era l’ora di salutarsi, tutte quelle sue compagne di una sera lo guardavano con le guance velate di rossore e poi chinavano gli occhi e sorridevano intimidite.

Aveva anche cominciato a studiare il tango, e ogni sera si esercitava con Sonia: gli piaceva la sensualità esplicita di quegli intrecci di membra, gli piaceva sostenere la compagna di danza, sollevarla, trattenerla, allontanarla, gli piaceva quella maliziosa simulazione dei gesti di un amore che si era sempre negato. Mai sazio, trascorreva le sere chiuso in camera a provare i passi, a imparare le figure più complesse, usando un manichino come partner. E si era pure comprato un vestito da tanguero, un abito che lo fasciava mettendo in risalto sia il fisico asciutto che le eleganti pose plastiche della danza. Sognava di diventare un vero tanguero, sognava il campionato regionale…

In meno di un anno era diventato l’istruttore più famoso della scuola, tutte facevano la fila per poter ballare con lui, quasi se lo litigavano e Sonia, con cui partecipava a gare di ballo che venivano regolarmente vinte, passava le serate a dirimere battibecchi e a sanare malumori. Sonia, che si sentiva sempre più divisa tra il dovere di titolare della scuola e le emozioni contrastanti che provava verso Diego, un misto di gelosia e orgoglio.

Quanto a Diego, era lì, a scuola e in mezzo ai sempre più numerosi studenti che si sentiva finalmente “a casa”; anche se di giorno era sempre il ragioniere anonimo di quella grande azienda in cui, ciliegina sulla torta, era comparso anche Chienzi, in veste di ingegnere neolaureato. Fu proprio dal suo arrivo, infatti, che erano cominciate a comparire le caricature, che aveva sentito di nuovo volare battute.

E venne anche la sera dell’arduo e temuto campionato regionale, per cui lui e Sonia si erano allenati per mesi: avanzarono fino al centro della sala con passo sciolto e sicuro, tenendosi per mano. Diego era fasciato nel suo vestito nero, le lucide scarpe bicolore ai piedi, pronte a farlo volare, i capelli impomatati e lustri, che quasi accentuavano quel suo viso stretto e lungo, gli occhi luminosi come braci fissi in quelli ardenti di Sonia che lo fronteggiava con portamento altero. Lei lo gli stava di fronte immobile, eretta, in un vestito nero apparentemente castigato ma capace di svelare molto più di quanto fosse necessario attraverso strategici spacchi. Quando le prime note volarono, Diego la afferrò alla vita, insieme percorsero la sala in una camminata perfetta, per poi dare il via al susseguirsi pirotecnico di parade, barride, colgade e volcade, colpi di tacco e strusci sensuali. I loro sguardi non si separarono per un istante, quasi fossero uno calamita per l’altro, lucidi e brucianti, le labbra socchiuse. Per un tempo che parve loro eterno e troppo breve, Diego tenne stretta a sé Sonia per poi farla volare, la guidò in volteggi arditi, mentre lei lo abbrancava in intrecci di gambe e di piedi, in un lungo e complesso gioco che mimava l’inseguirsi e il rifuggirsi di due amanti. La sala vibrava dei fremiti sensuali del pubblico, e Diego sentiva Sonia tremare sotto le mani, malleabile come creta, cedevole come petali di un fiore: lei era il suo fiore, da cogliere, da proteggere, da amare. Un’energia intensa e bruciante pareva irradiarsi da terra, avvinghiarsi ai loro arti, risalire verso il loro sesso e da lì strisciare luminosa fino al centro del petto fino a esplodere, al momento del casqué, in un bacio intenso ed esultante, che suggellò infine quell’amore nato sulle lucide tavole di legno delle sale da ballo.

E fu solo quando si sollevò dall’inchino verso il pubblico che Diego incrociò uno sguardo noto e nuovo allo stesso tempo. Lo sguardo di Chienzi: occhi ampi come quello di un bimbo, la bocca spalancata per la sorpresa… uno sguardo di incredula ammirazione. E Diego gli sorrise.

 

di Maddalena Gregori

6 Risposte a “Tanguero”

  1. Non so se tu sei una ballerina di tango ma continua a ronzarmi nella mente il discorso fatto ieri su “Milano-Venezia A/R”, a proposito della scrittura come “fatica”. Credo si possa aggiungere a “Si scrive, si rilegge, si lima, si modifica, si cercano i termini più adatti, i sinonimi…” anche la ricerca, lo studio attento e puntuale delle ambientazioni, città, paesaggi, tradizioni, mestieri, professioni… e via dicendo, funzionali alla costruzione della storia. Intendo dire che hai descritto così bene la danza dell’ultima sera del campionato di ballo, che pare di essere tutt’uno con Diego e Sonia. Hai talento, sei creativa e passionale ma, a meno che tu non sia una ballerina professionista di tango, la tua arte deve essere necessariamente passata attraverso uno studio attento di questo ballo. Magari anche con l’ausilio di film e video, oltre le letture. Così ti ho immaginata, a studiare prima di scrivere! 😀

    1. Io sono una ballerina con due piedi sinistri, come s’usa dire. Per quanto riguarda i termini tecnici ammetto di essermi rivolta a sant’internet; per quanto riguarda la descrizione, l’ammirazione per il tango mi è rimasta dentro da quando vidi, molti anni fa il film Tangos-l’exil de Gardel. La descrizione del ballo viene da lì. E, beh, sì, se si scrive di qualcosa di cui non si ha esperienza diretta, studiare è buona cosa.

  2. La differenza tra il tuo bellissimo racconto e la realtà è proprio la risposta, ultima di Chienzi: un sorriso ammirato. Nella realtà i “Chienzi ” di turno rimangono sempre se stessi.

    1. Dici che nella “realtà” non si possa cambiare? Io credo sia possibile e che valga per le vittime come per gli aggressori. Ma forse sono solo un’inguaribile ottimista.

  3. Abbiamo tutti un nostro “Chienzi”, un’ombra maligna che ci ha avvelenato una qualche stagione della vita e verso cui nutriamo sentimenti di rivalsa.

  4. Ho fatto un salto indietro nel tempo, le mie compagne “Barbara Aguzzoli e Susanna Rossii” mi chiamavano Lillipuziana o “quattrocchi e due stanghette”. Loro e le loro madri organizzavano festicciole, pomeriggi di ripasso, giochi… mi hanno coinvolta solo una volta. La settimana dopo che morì mio padre, e mai più!

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