Il vento nel cuore – V

Francesca Bertini
Francesca Bertini

 

Quasi fosse un segnale, a quel punto il marito si avventa su di lei, colpendola con forza e urlando tutti gli improperi che gli passano per la mente.

“Sei una prostituta, anzi peggio di una prostituta, perché quelle donne perdute sono costrette a questo da un destino crudele. Ma tu, tu non meriti la minima pietà, non ti penti nemmeno di quel che hai fatto. Non meriti perdono, non meriti nulla, non meriti nemmeno di poter continuare a vivere.”

Sembra convinto di quel che va dicendo, perché i colpi sul capo e sul volto di lei si susseguono senza sosta, fino a quando lei cade a terra. E allora agli schiaffi e ai pugni fanno seguito i calci sul torace, sulle spalle, persino sul viso. Ci sono momenti in cui lei sente di essere sul punto di perdere i sensi, ma i colpi si susseguono, uno sull’altro, dolore sopra dolore, e la sua mente registra lucida la furia bestiale di suo marito.

“E ti assicuro una cosa:” inveisce intanto lui “da questo momento tu hai finito di vivere, sarai reclusa in questa casa per il resto dei tuoi giorni. Non ti consentirò di rovinare il mio onore più di quanto hai già fatto. Continuerai a vivere qui, al mio fianco, e ogni giorno per te sarà un inferno. Te lo giuro. Te lo giuro sulla testa di mio figlio!”

Poi, improvvisamente, come colto da una invincibile stanchezza, smette di colpirla e, con voce spenta, ansimando, le sibila: “Quanto al tuo amante, sappi che l’ho fatto cacciare dalle mie proprietà e che probabilmente poche donne lo troveranno attraente. Gli ho fatto dare una lezione che certamente ricorderà per sempre.”

Ed è a questo punto che lei si mette a piangere. Non per le botte, no, ma perché si rende conto di come la sua rabbia, quella rabbia che le faceva tanta paura, è esplosa travolgendo anche la vita di un innocente. Piange forte, singhiozzando, lasciando le lacrime scorrere pesanti e piene sulle sue guance, bagnandole il viso, inzuppando le vesti. E solo allora si accorge che le sue lacrime sono rosse del sangue che le scorre dal naso e dai tagli che l’anello del marito le ha inferto sul viso. Piange forte, singhiozzando rumorosamente, consapevole che sta piangendo per tutte le lacrime che non ha mai versato: piange per la sua vita perduta, per l’innocenza calpestata, per le pastoie che le hanno imposto, per le frustrazioni che ha cercato di ignorare, per la libertà che le hanno negato da sempre.

Suo marito, credendo che lei stia piangendo per l’amante, scoppia a ridere, una risata isterica e stridula: “Piangi, piangi. Piangeresti anche di più se lo vedessi, il tuo bel ganzo. Perché tanto bello non è più”. E se ne esce sbattendo la porta.

Quanto sia durato il suo pianto non si può dire. Il rimorso per ciò che è accaduto a quel ragazzo le strappa le viscere. La sua vita, che fino a quel momento le era apparsa come un vuoto assoluto, sembra ora essere franata in uno stato ancora peggiore. E poi la confusione, quanta confusione nella sua testa. Di motivi per piangere ne ha veramente molti.

Verso sera, finalmente, si sveglia spossata. Dalla finestra entra solo la luce bassa del tramonto. Si alza a fatica da terra, dove di era addormentata, sentendo sulle spalle tutto il peso dei colpi ricevuti, e si avvia verso la propria camera da letto, dove cade nuovamente in un sonno pesante e vuoto. Non bada al fatto di non aver incrociato nessuno, non una serva, non i figli, per tutto il giorno. La casa sembra disabitata.

Dal giorno dopo inizia un lunga malattia: febbre, capogiri e mal di testa non l’abbandonano mai. Il medico viene spesso a controllare il suo stato di salute, ma non riesce a trovare nessun rimedio. Estratti di erbe, salassi, cataplasmi: nulla sembra riuscire a riportarle un po’ di energia. E ogni giorno la sua camera è sede di interminabili rosari recitati dalle pie dame inviate dal gesuita. Le loro voci monotone la cullano e ricamano intorno a lei neri merletti di suoni cupi, mentre i loro abiti scuri rabbuiano ancora di più la stanza perennemente avvolta dalla penombra.

Molto tempo trascorre in questo modo e, solo quando le sante donne cominciano a diradare le loro visite,  lei comincia a rimettersi. Quanto a suo marito, non l’ha più visto dal giorno in cui l’ha riempita di botte.

Quella che segue è una convalescenza tranquilla, pacata, circondata dalla silenziosa presenza di un paio di anziane serve. E solo quando comincia nuovamente a camminare scopre che la sua casa si è trasformata in una prigione. In una giornata animata da un sole caldo e tranquillo, decide di fare quattro passi nel giardino. Ma, ad ogni porta verso l’esterno, trova una serva che, senza dirle niente, le impedisce il passaggio. Non appena si avvicina a una porta, una serva si interpone chinando il capo. Quando, a un certo punto, cerca di rompere quel muro, viene trattenuta da una presa decisa, che la costringe a rientrare. È solo in questo momento che si rende conto di come la casa sia ormai abitata solo da donne e che, da quel famoso giorno, l’unico essere di sesso maschile che le sia capitato di incrociare per brevi momenti è suo figlio.

Torna verso il suo studiolo col cuore scosso da battiti violenti, col viso imporporato. La cosa più strana è che prova una vergogna profonda, si vergogna di essere costretta in quella situazione di prigionia. Una prigionia senza soluzione. Ed è in questo momento che ha chiara la visione della vita che le si prospetta: anni tutti uguali, anni di tomba, perfettamente identici a quelli che li avrebbero preceduti.

 

 

Dieci anni dopo

 

Spira un vento strano, da un po’ di giorni. Un vento caldo, violento e persistente, che flagella impietoso ogni cosa, che né porte né finestre valgono a trattenere. Secchi cespugli riarsi si inseguono lungo le gialle colline sospinti da questa forza impietosa. Gli abitanti delle baracche raggruppate a lato della grande casa se ne stanno il più possibile rintanati nei loro tuguri; solo talvolta qualcuno si avventura all’esterno per obbedire a qualche ordine del padrone, o per rispondere a necessità naturali.

È un vento strano, che non si ferma davanti a nulla, neanche davanti al tempo: sono giorni e giorni, ormai, che soffia imperterrito, se ne è quasi perso il conto. È un vento che fa paura.

Anche gli animali nelle stalle muggiscono, nitriscono, abbaiano, insomma, urlano la loro paura, e anche lei, ormai, non riesce più a staccarsi da questa finestra da cui scruta, con occhi spaventati, il brullo paesaggio inaridito, la desolazione che ha invaso il giardino un tempo verde e ora, invece, coperto da uno spesso strato di polvere giallastra.

E il vento soffia, insistente, nemico, imperturbabile. Scuote le cime degli enormi ficus, scrolla i cactus che quasi sembrano assistere stupefatti a questo strano cataclisma che li assedia. E il vento urla, mugghia e rimbomba infilandosi nei pertugi più sconosciuti, negli anfratti più nascosti. E la sua oscura voce non la abbandona mai.

Le sue notti trascorrono lente, sballottate da un terrore all’altro; giace a occhi aperti e ascolta l’ululato continuo del vento, ne individua i percorsi nella casa, lo sente avvicinarsi implacabile strisciando da sotto le porte. Talvolta la stanchezza la vince, magari in un momento di calma, in cui la voce del vento si fa più pacata, ma poi all’improvviso una folata la risveglia di soprassalto, strappandola al sonno nero e cupo dello sfinimento.

Solo al mattino, quando la luce lattea del nuovo giorno comincia a farsi strada tra le nuvole arrabbiate che percorrono furibonde il cielo, riesce ad abbandonarsi, stremata, a un sonno annichilito. Ma la pace dura solo poche ore; la ragazza di camera la chiama, la invita a presentarsi al tavolo della colazione, dove la famiglia l’attende.

Non si sa né come né quando sia successo, ma suo marito ha ripreso a frequentarla e a parlarle. Naturalmente senza che la sua prigionia sia stata interrotta: “Signora moglie, ma vi rendete conto in che arnese vi state presentando ai vostri figli? Quale esempio pensate di dar loro?”. Il suo tono non lascia dubbi: stavolta lei ha davvero esagerato. Ma d’altra parte non aveva alcun desiderio di vestirsi, di infilarsi in una di quelle corazze rigide e scontrose che sono i suoi abiti. Non aveva alcuna voglia di sottoporsi alla quotidiana tortura del pettine. Perciò eccola qui, avvolta malamente nelle sue vesti da notte, coperta sommariamente da una vestaglia che ha usato l’ultima volta quando era puerpera e doveva ricevere visite in camera da letto. I suoi capelli, resi elettrici dall’aria secca, la circondano vivi, come una nuvola di sottili fili d’ebano, e non hanno alcuna intenzione di starsene al loro posto. Ma, nonostante ciò, lei sa perfettamente che, più che da ogni altra cosa, suo marito è disturbato dal suo sguardo, da questi occhi sbarrati e asciutti che, da quando il vento ha invaso la sua vita, le allagano il viso. Occhi che non stanno fermi, che non obbediscono più e che, appena possono, fuggono verso l’orizzonte esterno, al di là del confine vago della finestra. E infatti anche stamane lei si affaccia alla finestra, ignorando il fatto che ora dovrebbe sedere lì, accanto ai suoi figli, al fianco del proprio consorte, che la guarda inebetito, talmente disorientato dal suo atteggiamento da non riuscire nemmeno a infuriarsi.

La ragazza di camera le si avvicina dolcemente: “Signora, la vostra colazione”, sussurra, e le accenna con un gesto lieve al tavolo. Lei lancia un’occhiata di sguincio, evitando di farsi catturare dallo sguardo schifato del marito, da quello stupito del figlio, da quello freddo e lontano della figlia.

“Signora, siete malata. Fatevi accompagnare nella vostra camera dalla servitù e fate chiamare un medico”, le ordina il marito con tono secco. Ma lei non ascolta, guarda lontano, oltre l’orizzonte, cerca di capire quali sono i confini del vento, cerca di distinguere le parole confuse che esso urla verso il vuoto dell’universo. Ascolta, osserva, e i suoi sensi vengono proiettati verso l’infinito, al di là delle frontiere del percepibile, tra gli spazi di un mondo che non c’è.

Poi un tocco lieve, sottile, la risveglia e la riporta al di qua. Si gira e, stupita, scopre che sua figlia, la sua misteriosa figlia, questa sfinge dallo sguardo profondo come un pozzo, che ha saputo crescere accanto a tutti loro senza mai dare a vedere di esistere, la sta guardando, sta guardando proprio lei, negli occhi, cercandola.

“Madre”.

“Dimmi, piccola”.

“Andiamo nella vostra camera, torniamo a letto, per favore”.

“Ma io sto bene, non temere per me. Ti ringrazio molto, ma preferisco stare qui, a guardare fuori dalla finestra”.

“Potrete guardare fuori dalla finestra della vostra camera. E sarete più comoda, nel vostro letto”.

È così felice che la sua piccola donna le parli, così assennata, così attenta, che per farla contenta accondiscende e si lascia condurre per un braccio. Percepisce, dall’altro lato della stanza, lo sguardo adirato e allo stesso tempo turbato del marito e quello terrorizzato del figlio maschio, che non sa fare di meglio che stringere con forza le posate e concentrarsi sul taglio della sua fetta di prosciutto.

Lei non sa il perché del suo comportamento, sa solo che non lo fa apposta. Nessuno dei suoi comportamenti è dettato da precise tattiche. È il suo cuore che la guida. È il suo cuore che la paralizza.

Ormai sono giorni che se ne sta alla finestra. Fuori c’è sempre quello strano vento che le sconquassa i pensieri, che non le lascia mettere ordine tra le sue emozioni. Sogna. Sogna di potere andar via, di poter fuggire fuori di qui, tra i verdi alberi degli immensi giardini rigogliosi, freschi di acqua e di sorgenti, che suo padre ha fatto costruire e per i quali lavorano ogni giorno quasi trenta giardinieri. Vuole uscire e girare per i vicoli della città vecchia, stretta nell’abbraccio del suo abito migliore, i capelli raccolti in una crocchia lucida e nera fermata da un pettine in osso intagliato e il lungo velo in pizzo traforato a ricoprirle appena le spalle. Vuole sorridere ai sorrisi che le vengono rivolti, coprirsi il viso, con una ingenuità che qualche malizioso potrebbe interpretare come malizia, col ventaglio leggero. Vuole fermarsi ad ascoltare i flamencos passionali che certi malandrini amano cantare per la strada, dedicando la loro voce intensa a ogni bella passante, traditori per vocazione e fedeli a questa vocazione. Ma c’è questo vento che le impedisce di uscire, che le scompiglierebbe i capelli, che le lacererebbe la nera mantiglia, che le solleverebbe la veste. C’è questo vento che, lo sa, potrebbe ucciderla, prosciugarle la pelle fino a strappargliela di dosso, disseccarle la gola fino a impedirle di chiedere aiuto.

Per il momento, l’unica cosa che le pare sensata, è quella di lasciarsi guidare dalla ferma e amorevole mano di sua figlia, che quasi la trascina verso la camera da letto. Obbedisce quieta a ogni suo cenno: entra nella camera, si toglie la vestaglia, si infila tra le coltri ancora scomposte dalla nottata appena trascorsa, si lascia pettinare piano, col pettine bagnato, in modo da imbrigliare quei capelli da Medusa. Compare sulla soglia la ragazza di camera con un vassoio contenente la colazione e allora, obbediente, si lascia imboccare, mastica piano, deglutisce e subito riapre la bocca, come un uccellino. Quello di cui ha fame non è cibo, ma amore, e la sua bambina glielo sta offrendo, lo sente e, mentre mangia, continua a fissarla, ne segue lo sguardo, i gesti lenti e misurati, i lisci capelli scuri legati in una crocchia educata, gli abiti senza una piega, troppo rigidi per la sua età, troppo rigidi per qualunque età. La fissa con attenzione, per cercare di carpire il segreto della sua forza e all’improvviso, come un lampo, la coglie la consapevolezza che il tesoro che c’è in quella giovane donna va salvato, ora, subito:

“Fuggi,” le sussurra sbarrando gli occhi “scappa via di qua. Non importa dove. Questa casa è la galera dell’anima. E tu sei votata ad esserne prigioniera fino alla morte.”

Sua figlia la guarda col suo sguardo scuro e serio continuando a imboccarla:

“Fuggi.” le sussurra ancora più concitata “Il giorno che uscirai da questa casa sarà solo per essere rinchiusa in quella di un altro uomo, di un altro padrone. E tu non potrai mai essere te stessa.”

“Lo so.” La voce profonda risuona cupa, così strana in quel corpo da scricciolo. “Lo so già, mamma. Io non voglio finire come te. Io non voglio dover rinunciare al mio senno.”

Le botte di suo marito le avevano fatto meno male di queste parole, e nonostante ciò queste sono le parole che sperava di sentirsi dire. E forse per il dolore, forse per la gioia, forse per tutta la tensione che per anni ha trattenuto in sé, non sapendo a quale dei due sentimenti contrapposti dare voce, lei non trova nient’altro di meglio da fare che mettersi a ululare. Solleva il mento e, con la bocca spalancata, comincia a ululare, prima piano, poi sempre più forte, lo stesso verso straziante che i cani rivolgono alla solitudine della notte. Lascia colare lungo il collo il cibo semi-masticato che ha in bocca e ulula, piange, sciacqua i dolori del suo spirito con tutte le lacrime che il suo corpo può produrre. In un batter d’occhio la sua camera si riempie di serve che cercano di calmarla, che la costringono a sdraiarsi, che cercano di pulirle il viso e il collo, che urlano concitate chiedendo di chiamare il medico. Sua figlia è in un angolo della stanza, il suo viso serio e triste è inondato di lacrime. Lei si dibatte furiosamente, più per sfogare l’energia che le esplode dentro che per liberarsi, scuote il capo da un lato e dall’altro, mentre le serve la trattengono per le spalle, e all’improvviso sua figlia non c’è più. Scorge, invece, sulla soglia, il volto turbato del marito. È terrorizzato e nello scorgere quel volto, quelle mani che non avevano avuto remore nel colpirla fino quali a ucciderla, le viene da ridere: quant’è stupido, quante poche cose sa e sa capire. Ride fino alle lacrime, come non ha mai fatto in vita sua (“Non essere così sguaiata!”) e suo marito fugge con lo sguardo di un animale braccato: il carnefice fugge davanti a una risata. Poi arriva il medico e comincia l’interminabile tortura delle cure: i salassi, i cataplasmi, gli impacchi caldi e freddi che il suo corpo stremato subisce senza reagire. Al di là della porta sente la voce incrinata dall’angoscia del marito, il suo tono preoccupato: teme che la pazzia possa intaccare l’integrità del suo amato figliolo, chiede al medico se c’è pericolo, chiede cosa bisogna fare di lei, chiede se è possibile che si tratti del demonio, chiede se si può annullare il vincolo matrimoniale che lo lega a quella pazza, chiede di farla sparire dalla sua vita. Ma non sa che non deve preoccuparsi: lei non c’è già più. E questo pensiero tranquillizzante la conduce per mano verso il sonno più tranquillo di quegli ultimi anni.

Quando si sveglia è notte inoltrata: la ragazza di camera, probabilmente turbata dagli eventi della giornata, si è scordata di accostare le imposte e di tirare il tendone scuro. È una notte chiara, di luna piena (il medico aveva dedotto che probabilmente, essendo lei di temperamento lunatico, questa condizione astrale avesse per così dire indotto il suo accesso di pazzia), e ogni cosa appare immersa nella lattiginosa luce dell’astro notturno. Alcuni rumori provenienti dalla porta che dalla cucina conduce al cortile, che si trova proprio sotto la sua camera, la insospettiscono e così scende dal letto, si affaccia alla finestra. Sente la porta della cucina chiudersi con uno scatto e vede una figurina avvolta in un mantello scuro sbattuto dal vento avviarsi verso le stalle con fare guardingo. Ha con sé un fagotto.

Lei stringe gli occhi per cercare di vedere meglio. La figura entra nella stalla e dopo un po’ ne riemerge tenendo un cavallo per la cavezza. Prima di riconoscere sua figlia, ne riconosce il cavallo. Una paura improvvisa la coglie: la sta lasciando, l’alleata che ha appena scoperto nella figlia la abbandona. Allora apre concitata la finestra e il rumore dei vetri scossi attrae l’attenzione della ragazza che alza lo sguardo spaventato verso di lei. E allora lei alza la mano. Il suo primo istinto è quello di chiedere aiuto, di fermarla, poi scorge nella figlia la sua libertà di ragazza, vede la strada che si snoda bianca sotto la luna, vede quegli occhi spalancati e lucidi, e allora con la mano accenna a un saluto festoso, lascia che un sorriso di gioia le illumini il volto. Anche la figlia le sorride, gli occhi si rilassano e si riempiono di lacrime, e la saluta a braccio teso, trattenendo il cavallo per la briglia e, allo stesso tempo, cercando di ripararsi da quel vento cattivo. Ora attraversa il cortile e, appena di là dal portone, si gira di nuovo verso la finestra. Il volto è semicoperto dal cappuccio del mantello, ma si vedono luccicare gli occhi pieni di lacrime. Monta sul cavallo e lancia alla madre un bacio con la mano.

E lei, dalla finestra, coglie quel bacio al volo. Il bacio più bello della sua vita. Fino a quel momento, per lo meno.

 

di Maddalena Gregori

7 Risposte a “Il vento nel cuore – V”

  1. Pensavo alle “scrittrici” neoclassiche, cioè del periodo a cavallo tra 700 ed 800, in cui è vastissima la produzione sommersa di letteratura intimistica, soprattutto autobiografie, corrispondenza e diari di donne, che è stato un filone importante per ricostruire ambientazioni, vicende storiche e, sopratutto, la condizione della donna e di essere donna, evocata dal tuo racconto (in cui emerge un forte fisicità delle emozioni, caratteristica tipica di quell’universo solitario al femminile). E pensavo anche ad una scrittrice in senso stretto di quell’epoca, Jane Austen che ha fatto del linguaggio femminile la propria forza espressiva e una vocazione artistica.

  2. Spettacolare!
    Perdonami, temo che mi perderei in un romanzo parallelo se ti scrivessi tutto quello che ha scatenato la lettura in cinque capitoli di di questo micro-romanzo. Ormai mi conosci, ho la propensione all’analisi e ben poca alla sintesi e farei uno sforzo immane a controllare i miei pensieri. Certo che le scrittrici neoclassiche te spicciano casa!
    Ho apprezzato molto il tuo commento: “La casa appariva incongruente in quel paesaggio deserto, come appaiono talvolta incongruenti il coraggio, l’intelligenza e il bisogno di libertà in una vita di donna”. Aggiungerei, suggerito dal tuo racconto, anche l’incongruenza della “propria natura bestiale” che poi è una voce della libertà d’espressione, senza la pippologia del sentimento giustificatore di pulsioni che il solo maschio può avere con orgoglio. Bastaaa, indici un meeting di uomini e donne di buona volontà e ne parliamo a voce. 🙂

    1. Grazie del complimento (ma chi sono le scrittrici neoclassiche?).
      Io amo questo racconto e il personaggio di questa donna che mi ha letteralmente invasa durante un viaggio in Spagna e che non mi ha lasciata finché sono riuscita a scriverlo tutto. C’è voluto parecchio tempo, ma non mi ha mai lasciata, ha preteso che finissi di raccontare la sua anima.

  3. …. dimenticavo il rapporto madre/figlia! Dipinto meravigliosamente sia nei caratteri della proiezione che in quello della complicità.

  4. Letto tutto 🙂 Confermo la prima impressione che me lo ha reso caro: laprotagonista mi smiglia…. o forse cerchiamo nelle storie degli altri quel che di noi detestiamo, amiamo, culliamo, sogniamo?
    Hai reso perfettamente, a mio avviso, la solitudine estrema, la maternità foriera di azioni/reazioni different tra loro, la lucidità di dare al desiderio il suo nome proprio, il un rincorrersi di parole che niente concedono al melenso e allo scontato, al prevedibile.
    Se fossi un editore te lo pubblicherei di corsa.

    1. Sei generosa, amica mia. E sono felice ti sia piaciuto. Il personaggio mi ha invasa anni fa durante un viaggio in Spagna. Mentre viaggiavo negli altipiani a nord di Madrid scorsi, in un paesaggio brullo e inospitale, una casa dall’aspetto signorile e dolente. La casa appariva incongruente in quel paesaggio deserto, come appaiono talvolta incongruenti il coraggio, l’intelligenza e il bisogno di libertà in una vita di donna.

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