Il vento nel cuore – I

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Superiamo la collina e all’improvviso, in questo paesaggio arido e senza tracce di presenza umana, appare una grande casa dall’architettura sontuosa e austera. Ha la tracotanza dell’attore che da solo calca la scena durante un monologo, ha la protervia del ricco che attraversa una favela, e io non posso distoglierne lo sguardo. È come se un sortilegio mi costringesse a guardarla: da quei muri, da quelle finestre sento arrivare un messaggio, una richiesta d’aiuto che, attraverso i secoli, vola fino a me. Un grido di donna, un urlo silenzioso che dalla casa pare esplodere passando attraverso le siepi del giardino riarso, lungo la scabra strada polverosa antistante al cancello, attraverso questo cielo immenso e privo di nuvole. Un grido di donna, regina suo malgrado di un reame che ha le dimensioni di un cortile, più prigione che regno.

Ed ecco che lei si profila nella mia mente: il viso pallido come la cera più fine, i capelli neri come le ali dei corvi e uno sguardo che nasconde un fuoco inestinguibile. Forse è lei che mi manda questo messaggio, forse è lei che, al di là dell’oceano del tempo, mi sta chiedendo ascolto e di non essere dimenticata.

La immagino giovane, ma con nulla da aspettarsi dalla vita: poco più di vent’anni e un marito importante, dalla figura salda e dal portamento impeccabile. Un marito di posizione altolocata, di famiglia nobile, decaduta ma ancora in grado di consentire a lui, ultimo rampollo maschio della dinastia, di vivere decorosamente secondo gli standard del proprio ceto.

Lei ha vent’anni o poco più e già due figli: una femminuccia, più grande e meno desiderata, e un maschietto, che ha già in sé i germi del virilmente dittatoriale carattere paterno.

Vent’anni o poco più, ma con dentro di in sé la sensazione di non aver più nulla da vivere.

Davanti a sé lei vede il vuoto. Il vuoto del vasto paesaggio che circonda questa villa isolata e che si affaccia sempre identico da ogni finestra della grande casa. Ampie colline desolate si inseguono lente ed estenuanti, circondando l’edificio e lo trasformano in una bianca prigione. C’è solo un breve giardino che offre agli abitanti del palazzo un’illusoria impressione di rigoglio: poche palme fronzute ed enormi agavi, con le foglie tese come sciabole verso il cielo, si susseguono sul terreno antistante la villa inframezzate da stopposa erba ingiallita.

Il sole implacabile di questa terra brucia subito tutto e solo le piante grasse riescono a sopravvivere. Un sole che incombe e che colpisce come un martello i poveri abitanti di queste regioni, per cui la misera ombra offerta dai pochi alberi è solo un sollievo momentaneo e parziale.

È il sole, il vero re di questo paese: con la sua forza terribile asciuga tutto, inaridisce la terra, ripulisce le ossa, secca le cisterne, spezza le volontà. Forse è proprio per questo sole senza pietà, che annulla la resistenza delle persone, che si respira ovunque un’atmosfera di fatalismo. Lo stesso fatalismo che aveva dominato la sua vita, di donna priva di possibilità di scelta, fin dalla nascita.

Era nata ‘bene’, in quella che si usa definire una “condizione familiare fortunata”: un padre ricco, padrone di vaste regioni del sud del paese, e una madre incapace di affetto, che compariva solo per impartire una severa educazione religiosa in cui non c’era posto per alcuna manifestazione di spontaneità: ogni gesto, ogni parola veniva modellata e imbrigliata in funzione di norme morali rigide e severe, e nulla doveva trasparire delle naturali tendenze di una persona. I molti fratelli e sorelle erano invece una massa indistinta da cui emergevano due o tre figure di un certa importanza, che le erano state d’esempio e di compagnia nella sua solitaria infanzia dorata.

Può sembrare strano, ma in questo assolato paese le regioni più a sud sono rallegrate da una natura più viva e rigogliosa, le terre vengono attraversate da fiumi carichi d’acqua, che alimentano le immense piantagioni di girasoli, ulivi, aranci, mandorli e piante da frutto. Anche là vi sono spazi aridi, in cui il vento ha ripulito la terra fino alle ossa, fino a far emergere le rocce puntute e sterili, ma nello scorrere del paesaggio è possibile scorgere giardini rallegrati dai colori dei fiori tropicali.

Qui a nord, invece, non è così. Sotto il sole dell’estate le gialle colline si replicano sempre uguali, fino a sfuggire allo sguardo, fino oltre l’orizzonte.

Talvolta lei si ferma a osservare le povere baracche che giacciono poco più in là, di fianco al palazzo, in un gruppo raccolto e compatto. Sono le case dei servi e dei contadini, persone che ogni giorno lottano per strappare alla terra quei frutti che consentono a suo marito di mantenere un tenore signorile, e a loro, ai poveri, di sopravvivere stentatamente.

Talvolta si sorprende a osservarli, coperti di stracci impastati di polvere e terra, la pelle bruciata dal sole, i capelli ridotti a una matassa cespugliosa e informe che denuncia l’assoluta ignoranza di pettine e acqua. Osserva con distacco i loro corpi chini, tesi nello sforzo del lavoro, e talvolta si sorprende a paragonare la loro condizione alla propria, mentre all’ombra di quelle spesse mura è intenta a sventagliarsi alacremente per allontanare il calore soffocante dal viso. Osserva le donne camminare chine sotto il peso di cataste di sterpi o di fieno, le osserva mentre spazzano approssimativamente le loro tane, o mentre cucinano chine su un fuoco improvvisato tra poche pietre fuori dalla soglia di casa; le osserva impastare la poca farina, cuocere delle focacce su una pietra arroventata, preparare il magro companatico a parte, tenendo a bada i bambini più grandicelli che, affamati, cercano di approfittare di ogni momento di disattenzione per rubare una briciola -almeno una briciola!- del povero cibo. Le osserva badare frettolosamente ai bimbi più piccoli, i quali, per la maggior parte del tempo, giacciono all’ombra della soglia di casa coperti dalle mosche, se ancora neonati, o vagolano in giro ruzzando tra galline, cani e capre. Osserva quei cuccioli e pensa ai suoi due figli, che sembrano appartenere a un’altra specie vivente rispetto a quelle bestioline lì fuori.

I suoi figli. Di fronte al cibo mantengono un riserbo contenuto e severo, imposto dalla stessa educazione che ha imbrigliato la sua infanzia e che le ha impedito di provare, non solo di dimostrare, un qualunque tipo di slancio nei confronti dei piaceri della vita. Le loro vesti istoriate da reami di fili d’oro hanno una struttura rigida e i loro movimenti vengono resi goffi e affaticati da quegli abiti più simili ad armature di metallo che a semplici vestiti. I loro sguardi severi si posano con sussiego sul mondo circostante, persone e oggetti.

Perché lei, di fronte ai suoi figli, si sente così a disagio? Non una risata, non un gioco è consentito in questa casa e, se le sfugge un sorriso, uno sguardo asciutto la colpisce alla nuca.

Sua figlia già da tempo ha smesso di sorridere: siede compita per giorni interi, agghindando le sue ricche bambole, cucendo per loro abitini, ricamando minuscole mantiglie dai mille colori. Se le parla, la bimba si limita ad annuire o a scuotere la testa in segno di diniego. Solo brevi monosillabi spezzano il sigillo delle sue sottili labbra.

Attorno a quella figlia straniera tutto è oro, argento, preziosa porcellana, soffice velluto, ma il suo sguardo -ha enormi occhi, profondi e scuri- non si fissa su nulla; quando la guarda in viso, le poche volte in cui serra quel faccino tra le mani per costringerla a rispondere al proprio sguardo, si accorge che la bimba non è lì, i suoi occhi sono con il suo cuore, altrove. Ma dove?

L’unica realtà che a sua figlia è stato dato di conoscere è questa: questa casa, questo paese, questo mondo di colline brulle e riarse. In quale mondo può correre, dunque il suo cuore?

Anche lei, quando era bimba, si era creata un universo fatato tutto suo, un mondo fatto di colori, luci, musiche, fresche fontane, frutti di miele; un luogo dove la sua mente trovava ristoro, sfuggendo alla grigia afflizione che la circondava, ai rosari di sua madre, all’estraneità di suo padre, al distacco che provava nei confronti di fratelli e servi. Ma in quel mondo era felice e quella felicità lei la esprimeva coi suoi sorrisi, col continuo cicaleccio delle sue chiacchiere solitarie. Ne ricavava rimproveri severi, che la spingevano ancora di più nel suo universo fatato. Sua figlia, invece, non sorride, non parla, quasi non guarda. È fuggita via, lontana, ma non in un posto preciso, solo via di qui. Lo sente, sua figlia è sola laggiù, in un limbo lontano e senza nome.

Il maschietto, invece, lui sì che è presente: quando c’è non lo si può ignorare, continuamente intento come è a esporre le sue pretese, sempre nuove, sempre più assurde. È piccolo, così piccolo, nei suoi sei anni di vita, ma sa rendersi ingombrante con le sue urla imperiose, coi suoi strilli cattivi. D’altra parte, pare che ne abbia il diritto: tutti, in questa casa, si danno continuamente da fare affinché lui ottenga tutto ciò che desidera e nel minor tempo possibile.

Suo marito è fiero di lui, così determinato e così capace di farsi obbedire: “Un vero figlio di suo padre,” continua a ripetere “un vero discendente della mia stirpe. Stirpe di uomini, veri uomini, che hanno saputo governare con fermezza intere regioni di questo Paese, le più dure, le più aride. E anche lui, questo mio figlio, saprà perpetuare in sé le doti della famiglia.”

È proprio felice, suo marito, quando vede il piccolo far trottare servi, serve, la sorella e persino la madre. Da parte sua, il bambino ha già capito quali sono i limiti e le gerarchie: di fronte al padre assume un atteggiamento nobile e distinto, i suoi ordini sono imperiosi e solenni, ma il contegno rimane sempre ossequioso di fronte al padrone di casa. Di fronte al padre, il figlio non urla, come invece fa in sua assenza, non scalcia, non permette a poco dignitose lacrime di sgorgare copiose dagli occhi ogniqualvolta una richiesta non venga prontamente esaudita; quando invece il padre è presente, il bambino si comporta da reuccio, certo di compiacere il re con questo scimmiottamento infantile. E il re ne è compiaciuto.

E così lei, col proprio figlio, si trova a rivestire due diversi gradi di autorità: quando il marito è assente, il bambino sa di potere ben poco contro la volontà della madre, e allora eccolo usare le armi tipiche della sua età. Urla, strepita, piange, fino a quando un qualche membro della servitù non risponde, in qualche modo, alle sue richieste. In quei momentila detesta, è evidente, perché nulla può contro di lei. E anche perché lei, a sua volta, lo detesta un po’. Certo, non dovrebbe provare simili sentimenti nei confronti della propria carne, ma, quando suo marito è fuori casa, la rabbia repressa nei confronti del piccolo dittatore la spinge ad abusare del potere che ha su di lui, giungendo a negargli anche le cose più innocenti solo per il gusto di opporsi al suo tono imperioso, a quell’atteggiamento che non concede spazio agli altri, a quell’egoismo così accuratamente coltivato che tutti -lei compresa, lo sa- gli hanno concesso.

Lui urla e lei lo osserva imperturbabile, zitta; lui la insulta e lei si limita a continuare a fissarlo, immobile; lui la picchia con le sue deboli manine, gli occhi colmi di lacrime, e a lei sfugge un sorriso. Poi compare la bàlia o una vecchia serva, che iniziano a blandire il bambino cercando di placarne la furia, subendone le percosse e infine, dopo aver con fatica interpretato le parole rotte dai singulti, gli concede la cosa richiesta. Lui ottiene tutto ciò che vuole, in questo modo, ma non da lei, e questa è la sua vittoria. La sua magra vittoria.

Quando il marito è presente, invece, è il figlio a trovarsi in vantaggio e lo sa. Così ne approfitta per vendicarsi di lei abusando del potere che gli è concesso. Il bimbo sa che in quei momenti lei non può negargli nulla, pena la silenziosa e duratura furia del marito, e così, con noncuranza, con atteggiamento regale e controllato, le dà ordini signorilmente esposti: “Desidererei un piatto pulito, signora madre, visto che questo non lo è”, oppure “Gradirei, madre, il pezzo di carne che lei ha offerto a mia sorella”, e suo marito, sorridendo divertito a quelli che ai suoi occhi miopi appaiono solo come buffi capricci infantili, le impone, con muti cenni del capo, di accontentarlo, non facendo caso al fatto che il bimbo, anziché rivolgersi alla servitù come dovrebbe, si rivolge alla madre.

Dentro di lei ribolle la rabbia, ma obbedisce eseguendo con calma ciò che le viene ordinato, guardando suo figlio con la stessa imperturbabilità che ha quando lui è solo con lei. Dentro di sé invece vorrebbe prenderlo a schiaffi e ancor di più vorrebbe colpire suo marito, quest’uomo che non conosce, che non la conosce, ma che ormai governa la sua vita. (continua)

 

di Maddalena Gregori

3 Risposte a “Il vento nel cuore – I”

  1. Mi riservo di commentare al termine, ma in questa prima parte si coglie tutto il dramma di una donna spogliata della sua dignità di compagna e di madre… e l’accettazione non è altro che perpetuazione di solitudine: cosa è cambiato nel passaggo dalla fanciulezza all’adultità? La smarrita capacità di sognare.

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