Vite sommerse

Europa secondo Bansky
The European Union, di Bansky

 

Atto primo: tre ore e mezza.

Terminato il corso iniziò il progetto di raccolta dati sui sintomi lasciati dal trauma nei rifugiati politici. E siccome eravamo nuovi del mestiere, ci fu un incontro di prova. Avremmo assistito a un’intervista effettuata da professionisti esperti su un giovane serbo.

Si trattava di un rifugiato che aveva già risposto al questionario che anche noi avremmo dovuto poi somministrare. Mi chiesi che credibilità e quale senso potesse avere una doppia somministrazione dello stesso questionario. Osservavo quel giovane uomo che viveva nello status di rifugiato ormai da molti anni. Alto, magro in modo innaturale, allampanato, lo sguardo fisso.

Mi sentivo a disagio per lui, sottoposto a domande intime sotto lo sguardo attento di decine di occhi. Eravamo in troppi in quella stanzetta: lui, i due intervistatori, noi “novellini”. E lui, con quel viso magro e appuntito, mi sembrava una cavia da laboratorio, un animale su cui fare esperimenti.

Poi, ad un certo punto, il mio atteggiamento ebbe uno strano scarto e mi scoprii diffidente nei suoi confronti. Aveva l’aria tranquilla, sicura, non certo di chi si sta per sottoporre a una sgradevole esperienza, ma di chi, vecchio del mestiere, si prepara a una routine. Lo scrutavo cercando di cogliere piccoli segnali che rivelassero la menzogna, la malafede, lo spirito del millantatore…

Le prime domande di rito neanche le ascoltai. Mi limitavo a scrutarlo.

Poi cominciò il racconto degli eventi di guerra. Qualche stralcio, tutto sommato riconoscibile, sovrapponibile, nella memoria, a tante notizie viste, sentite, lette. Lui, testimone, raccontava, sciorinava il suo elenco di orrori con freddo distacco. Raccontava di amici morti sotto i suoi occhi, di una famiglia decimata, di mesi e mesi di fame e freddo e spari e fuoco.

Finché, d’un tratto, qualcosa mutò sul suo volto: un’ombra repentina passò ad oscurarlo, un’espressione di terrore infinito, ma rapida come un battito d’ali, deformò lo sguardo asciutto, storse in una smorfia la bocca dalle labbra sottili. E lui cominciò finalmente a raccontare, di quella volta, quella in cui lui, attraversando la strada di corsa, come faceva ogni giorno, per necessità, perché in qualche modo bisognava procurarsi cibo e legna, ecco quel giorno d’un tratto la gamba aveva ceduto, non lo aveva retto, all’improvviso, senza un segnale, e lui era crollato a terra, in mezzo al fuoco dei cecchini, con un foro di pallottola nella gamba da cui fuoriusciva sangue a fiotti. Lo avevano colpito! Era successo! Dopo mesi e mesi in cui ogni giorno aveva attraversato quella strada zigzagando, veloce come un ratto, ormai certo di essere invulnerabile. Lo avevano colpito e ora giaceva in mezzo alla strada, dal ciglio le urla di suo padre, di suo zio, che lo chiamavano, che gli urlavano di farsi forza, di cercare di trascinarsi. Ma appena lui si muoveva i cecchini ricominciavano a sparare. E non appena suo padre, suo zio, i vicini di casa cercavano di raggiungerlo per tirarlo in salvo, i cecchini sparavano a raffica.

Dal ciglio della strada suo padre e suo zio gli urlavano di tenere premuta la mano sulla ferita, di arginare il sangue, e lui gridava, gridava loro “Aiutatemi, vi prego aiutatemi!”. Ma nessuno poteva aiutarlo. Nessuno poteva superare l’invisibile bolla di sangue e fuoco e morte che lo circondava e così rimase lì, immobile, premendo con la mano sulla ferita, chiedendo aiuto sempre più raramente, con voce sempre più fioca, chiamando il padre, chiamando lo zio, per udire le loro voci, mentre sentiva la vita scivolare via, minuto dopo minuto, col sangue che continuava a uscire dalla ferita.

Tre ore e mezza ci vollero, prima che il sole calasse e amici e parenti potessero finalmente recuperarlo, portarlo a casa, curarlo. Tre ore e mezza.

E io stavo lì seduta, scrutando quel viso che ora non aveva più nulla della cavia, nulla del bugiardo che vedevo in lui solo mezz’ora prima. Stavo lì a guardar scorrere su quel volto il film di quell’orrore vissuto minuto dopo minuto, per tre ore e mezza! E pensavo a quando venti minuti di fila in posta mi parevano un’eternità, o magari il quarto d’ora di coda in auto mi faceva bestemmiare in tutte le lingue del mondo.

Tre ore e mezza, aspettando la morte, con la salvezza a un paio di metri da te, e tuo padre che urla disperato, che ti grida consigli, che tenta sortite suicide, che chiama il tuo nome e ti grida di rispondergli “Per favore rispondimi, parlami!”.

Tre ore e mezza.

 

Atto secondo: la capanna.

Finalmente ecco l’occasione. Possiamo cominciare a mettere in pratica quel che ci hanno insegnato. Con la mia collega sediamo una di fianco all’altra, da un lato della scrivania. Sull’altro lato una sedia. Ripassiamo rapidamente la prassi standard di somministrazione del questionario, ci scambiamo qualche impressione.

Un lieve tocco alla porta annuncia l’arrivo del “nostro” primo rifugiato. Un africano, di pelle nera, accompagnato da un operatore sociale che lavora al centro di accoglienza stranieri. Lo facciamo accomodare, indicandogli la sedia vuota di fronte a noi, strette di mano, sorrisi, poi si comincia. L’operatore si affaccia timidamente sulla soglia e dice “E’ arrivato da poco. Non parla italiano, ma con l’inglese se la cava bene”, poi chiude la porta.

Cominciamo l’intervista, le domande più neutre. Sembra facile, sulla carta, ma da subito tante piccole difficoltà: quale è il nome, quale il cognome? e come si scrivono?

Piccoli intoppi che servono a far sorridere. Poi, pian piano, il questionario conduce alle domande più difficili. Come sei arrivato in Italia? Con quali mezzi?

Sbarcato in Sicilia, con un barcone arrugginito lasciato alla deriva per giorni e giorni, partito dalla Tunisia, dove lui era giunto attraversando il deserto con una carovana di cammellieri, fuggito dal Sudan, un villaggio di pastori, un villaggetto fatto di capanne di paglia, dove lui viveva col padre, la madre, la sorella e il fratello più piccolo.

Sono anni e anni che lì non si sa mai cosa può capitarti. Milizie di varie fazioni si fanno la guerra a colpi di teste mozzate. Basta niente, basta che un villaggio venga sospettato di sostenere una fazione piuttosto che un’altra per venir messo a ferro e fuoco. E quando accade, è sempre di notte, quando la gente non se lo aspetta.

E così fu anche per il suo villaggio. Era notte fonda, tutti dormivano. All’improvviso delle grida, voci concitate, spari. Lui aprì gli occhi e fuori dalla porta della capanna già si vedevano i bagliori del fuoco appiccato ai tetti. Subito svegliò i genitori, i fratelli. Il padre cominciò a spingere la famiglia verso la porta, in cerca di una via di fuga.

Lui no, chiamò il padre, cercò di fermarlo, gli urlò di non uscire di lì, lui uscì da dietro…

“Rompesti la capanna?” gli chiedo

E lui: “Sì, ruppi la parete di rami intrecciati”

La mia collega mi guarda con gli occhi spalancati  e dice: “Io non avrei mai pensato al fatto che una capanna si può rompere… Io immaginavo ci fosse una porta sul retro…”

Già, perché noi, con le nostre case in mattoni, cemento armato, pilastri, per uscire da dietro dobbiamo avere una porta… già perché noi non immaginiamo neanche cosa voglia dire vivere in una capanna di frasche intrecciate e fango, e fuggire nella notte più oscura, avendo come bussola solo i bagliori del fuoco che sta bruciando il tuo villaggio, e le grida della tua famiglia, tuo padre, che credeva che uscire dalla porta fosse la cosa più giusta e tua madre che lo ha seguito, coi propri figli più piccoli stretti ai lati, per proteggerli. Noi non riusciamo a immaginare, perché fuori di casa ci troveremmo nel nostro giardino, e non tra alberi e arbusti, dove restare nascosti scrutando tra le frasche, a osservare le ombre che si stagliano contro le fiamme, sagome di gente che fugge, che alza le braccia come per proteggere il volto e la testa dalle pallottole, dai colpi di machete, sagome di soldati che riconosci dai pantaloni a sbuffo infilati negli anfibi, dalle bandoliere messe di traverso sul torace. Perché noi non potremmo neanche immaginare di restare lì, immobili, acquattati sotto i cespugli, aspettando per ore che passi la buriana, per poi fuggire nella notte, semplicemente in direzione opposta a quella del villaggio, senza nient’altro che i pantaloni e la maglietta a pezzi che indossiamo. Non un paio di ciabatte, non una borraccia per l’acqua, non un tozzo di pane. Niente, solo i nostri piedi, la strada in terra battuta e la paura, e il senso di colpa, e il suono di quelle grida, quelle grida tra cui ci pare di aver riconosciuto la voce di nostra madre, del nostro fratellino, che era tanto bravo a scuola. Niente altro che una paura così profonda da portarci a mangiare ciò che troviamo sulla strada, insetti, animali, radici, a bere da pozzanghere fangose, e continuare a fuggire, fino a incontrare un mercante che deve condurre una carovana attraverso il deserto, un viaggio di due mesi, per arrivare in Tunisia e lì continuare la fuga, senza mai voltarsi indietro, e avventurarsi in un mare così grande come non lo abbiamo mai visto, avanti, sempre avanti, senza mai più voltarsi indietro, perché non è rimasto nulla da guardare, nessuno da salutare.

Son tante le cose che noi facciamo fatica a immaginare.

 

Atto terzo: un viso di fanciulla

Siede composto davanti a noi, lo sguardo sfuggente, l’espressione neutra. Non ci sono dubbi sulla sua provenienza: pelle olivastra, capelli crespi, fronte alta e ampia, mascella stretta, naso sottile, viso triangolare, zigomi alti e sottili, bocca piccola… sicuramente un etiope.

È giovane, molto giovane. Nei tratti ancora la grazia della gioventù e un viso che ha un che di femmineo. Racconta di una famiglia povera, della fame e della fatica di vivere in un Paese eternamente in guerra. È il primo figlio ed è maschio: la famiglia ha investito su di lui raccogliendo i risparmi di tutti per permettergli di emigrare clandestinamente. E così lui prende su di sé il carico dell’intera famiglia, lui coi suoi 19 anni, e parte verso un viaggio che durerà mesi. Passaggi su camion, nascosti tra merci, con altre persone, giorno dopo giorno, con la sete, il disagio della sporcizia, del doversela fare addosso durante gli interminabili tragitti su strade disastrate.

Poi finalmente arriva a Tripoli, dove viene immediatamente arrestato. Perché la polizia di Tripoli ha l’ordine di fermare i migranti. Deve fermarli, spaventarli, trattenerli per un po’ e poi, all’improvviso, un giorno gli stessi poliziotti che li hanno arrestati li caricano su dei camion e li scortano in certe calette riparate, dove ad attenderli ci sono barconi arrugginiti, che a malapena galleggiano.

Questo quel che gli raccontano, ma intanto lui è in prigione e a quanto pare la partenza è lontana. E più che una prigione è una bolgia infernale: non c’è spazio nemmeno per sedere. Impossibile sdraiarsi per riposare, e poi le guardie, armate di manganello, sempre pronte a bastonare senza motivo apparente. Botte, poco cibo scadente, nessuno spazio minimo vitale, anche meno che in quei camion su cui ha viaggiato per giorni.

Poi, dopo nemmeno una settimana, una notte, con l’aiuto di una giovane guardia a cui ha allungato gli ultimi soldi che era riuscito a nascondere, attraversa il cortile, scavalca un muro, poi una rete, riesce a scappare…

Da come la racconta pare una sciocchezza, ma qualcosa non torna.

“Ma non era pericoloso? E se ti avessero preso?” chiedo

“Molto pericoloso…” abbassa lo sguardo “potevano uccidermi”

“Ma se ti avessero preso? Era pericoloso… Perché hai rischiato tanto?”

“Le guardie lì sono animali…”

“In che senso sono animali?”

“Fanno cose da animali…”

“Torturano? Ti hanno torturato?”

“No, non mi hanno mai picchiato… ma sono animali”

“Ma in che senso? Che fanno?”

“… sono animali… di notte… … fanno cose brutte … ai ragazzi giovani”.

Finalmente mi guarda, scrolla le spalle. Uno sguardo di cerbiatto. Un viso di fanciulla.

“A te hanno fatto qualcosa?”

“No…”

 

Atto quarto: un sorriso disarmante

Quando entra restiamo entrambe a bocca aperta: alto, slanciato, pelle di ebano, un sorriso luminoso e dolce insieme, un viso regolare. Potrebbe essere un fotomodello.

Ci racconta che nel suo Paese, la Costa d’Avorio, lui era soldato in una certa fazione, ma ad un certo punto prende il potere un’altra fazione che comincia a fare pulizia degli antichi nemici. E anche se lui ormai è un civile, i suoi vecchi antagonisti lo hanno preso di mira. Riesce a sfuggire ad alcuni attentati e un giorno arrivano persino a lanciare una bomba a mano in casa sua, dove però di trovano solo sua madre e sua sorella, che restano uccise. Poi, mesi dopo, una sera, mentre sta tornando a casa a piedi con padre e fratello minore, vengono attaccati da una jeep piena di soldati che cospargono di benzina lui e il fratello e cercano di dar loro fuoco. Lui riesce a evitare le fiamme fuggendo a bordo strada, nascondendosi nel buio della notte. Il fratello invece no, e gli prendono fuoco un braccio e il viso. Lo salva il padre, che riesce a soffocare le fiamme con la propria giacca.

La situazione è critica e pare che i nemici non si fermeranno, così il padre, non appena il figlio minore si riprende, dà loro i soldi per andarsene, per lasciare quel Paese pieno di odio. Partono insieme, attraversano frontiere, si nascondono, rubano insieme per potersi nutrire, ma, sulla spiaggia, vengono divisi e il fratello viene caricato su una barca diretta verso la Spagna, lui invece su una diretta in Italia.

Dopo una traversata tutto sommato tranquilla, sbarca in Sicilia e lì, mentre è in fila aspettando di ricevere cibo e coperte, scruta le persone che lo circondano, gli uomini in divisa, quelli gentili con le giacche dai colori fluorescenti, li scruta nei volti, si guarda le spalle, e fugge, si nasconde dietro un container, prende un treno e lascia l’isola, arriva sul continente, poi da lì a Roma, e continua a fuggire e capita qui, dove viene finalmente censito e riconosciuto come rifugiato politico. Ma è ancora pronto a fuggire. Gli danno ansiolitici, ma lui è già fuggito più volte, una volta l’han fermato a Parma, un’altra a Bari, e ogni volta lo rimandano qui; lui torna ma per riprendere la fuga, non si sa verso dove.

“Ma in Sicilia ti han trattato male?”

“No”

“Erano sgarbati?”

“No, tutti gentili, tutti bravi”

“Hai visto qualcuno trattato male?”

“No… tutti bravi”

“E allora perché sei fuggito?”

“Avevo paura”

“Paura? E di cosa?”

Ci fissa per qualche istante senza emettere suono e senza abbassare lo sguardo. In fondo ai suoi occhi delle ombre si inseguono, immagini oscure sepolte nella sua mente. Poi ci lancia un sorriso luminoso, da fotomodello, bellissimo e incongruente, e dice: “Di tutto… Avevo paura di tutto”.

Il sorriso si spegne, lui si fissa le mani e dietro le ciglia scorgo di nuovo quelle ombre, quei ricordi oscuri che continuano a inseguirlo.

 

Atto quinto: un bravo figlio

L’Afghanistan, solo da alcuni anni ne conosciamo l’esistenza. Che sappiamo dove si trovi già è troppo.

Lui è arrivato dall’Afghanistan, vive qui da 7 anni, da solo, e ha 23 anni.

Ora frequenta un corso professionale, ha un lavoro, è molto apprezzato dai suoi datori di lavoro per la sua serietà e affidabilità; vive in un appartamentino da solo, ama studiare. Da piccolo ha evitato la scuola per andare presto ad aiutare il padre che lavorava in un mercato. Poi suo padre è morto, colpito da una pallottola vagante nel corso di una scorreria armata. Allora la madre ha raccolto i risparmi e glieli ha dati per farlo andar via. “Restare è pericoloso” gli ha detto “e poi da un Paese lontano potrai mandare i soldi per aiutare i tuoi fratelli più piccoli”.

Ha 13 anni. Parte per un lungo viaggio via camion. Fa tappa in Iran, dove trova lavoro come assistente di un medico. È un ragazzino brillante, prende appuntamenti, nessuno si stupisce che un ragazzetto così giovane lavori. È la norma.

Poi però in Iran le cose vanno male: lui è afgano, sta crescendo… non è più un ragazzino e cominciano a prenderlo di mira. Così parte di nuovo diretto verso occidente, sempre verso occidente. Arriva in Iraq e poi in Turchia. Lì viene scoperto nel sottofondo di un camion, mentre cerca di passare la frontiera e finisce in prigione dove gli fanno “cose brutte”. Abbassa lo sguardo sulla propria mano. Una decina di cerchi regolari ne segnano il dorso.

“Sigarette?” chiedo

Lui mi guarda, non c’è bisogno di parole.

“Avevi 15 anni…”

Annuisce.

 

di Maddalena Gregori

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