Storia de paure!

buco serratura

 

Son già venti minuti che Aldo si attarda davanti al portoncino del palazzo, studiandosi la lista di nomi spuntati da segnacci rossi e cerchiature, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra. Suda freddo, non vuole proprio, ma non ha altra scelta, perché fosse per lui…, ma ha trovato solo questo lavoro e deve deve deve almeno provarci. Ieri, per lo meno, era affiancato da un collega più esperto, che gli dava le dritte, che quando si incartava gli si sovrapponeva e riusciva a rimediare alle sue gaffe. Oggi invece è solo…

Ma come si fa? come si fa a entrare in casa d’altri di sabato, a martellare la gente di domande?

Sul braccio la cartelletta colma di questionari del Censis da somministrare alle persone che vivono in questo quartiere pesa come fosse di piombo. Le mani sudano, il cuore martella, mentre si avvicina con titubanza al citofono su cui etichette di diverso colore, semiscollate e macchiate dall’umidità mostrano nomi illeggibili.

Aldo analizza la posizione dei campanelli e, come gli ha insegnato il collega, cerca di individuare gli appartamenti a cui corrispondono, controlla se le tapparelle sono sollevate, segno che i proprietari sono in casa, e spunta i nomi con un segno verde. Ma non si decide a suonare. I palmi delle mani sono fradici, sente il respiro che trema, le gambe che tremano, pure la vista fa cilecca e trema, vede doppio…

La sua presenza inquieta non è passata inosservata, e dalla finestra al primo piano fa capolino la testina coronata di bianco di Maria. È sveglia da ore: ancora era buio pesto quando ha aperto gli occhi stamattina. Faceva freddo, aveva ancora sonno, ma doveva fare pipì.

Così si è alzata e poi, tornata a letto, invece di riaddormentarsi ha cominciato a sentire il nervoso alle gambe. Si è girata, rigirata, ha sollevato le gambe, piegate, roteate, si è levata a sedere sul bordo del letto, si è fatta delle passeggiatine su e giù per il corridoio… niente. Le gambe han continuato a friggere e lei, nonostante si sentisse la testa pesante per il sonno, si è dovuta rassegnare ad alzarsi. In cucina ha trovato le fave da capare e così ha acceso la tivù. Ma col volume basso, perché sa che il vicino del piano di sopra la sente e si arrabbia. Se ne è già lamentato altre volte, e le ha fatto così paura! Un omaccio orrendo che una volta aveva bussato brutalmente alla porta. Lei manco gli aveva aperto: aveva guardato dallo spioncino quella faccia enorme e mostruosa che sormontava un corpaccio da bovaro capace di atterrare un toro da solo.

“Chi èèèèè?” aveva fatto lei con una vocina strozzata.

“Sono il vicino del piano di sopra… volevo sapere se può abbassare il volume della tivù perché io sono rientrato da poco, ho fatto la notte e volevo dormire… Ma… è lì? Mi sente?” il vocione rimbombava per tutta la tromba delle scale con un effetto tipo temporale.

“Sì sì” aveva squittito Maria “spengo subito!”

“Ma no, basta che abbassi il volume…” aveva risposto il vocione, ma lei non l’aveva nemmeno sentito. Era già volata, sulle sue pattine di feltro, a spegnere la tivù.

Quell’uomo le dà i brividi… e ora c’è pure questo tizio che è più di mezz’ora che sta qua di fronte, ballonzolando da un piede all’altro: sul braccio ha un pacco di carte enorme e continua a leggere qualcosa e poi, poi alza lo sguardo e scruta il palazzo… oddio, lo manderà mica il padrone di casa? Rosa sbircia di tra i buchi del merletto delle tendine e lo vede leggere quei fogli e poi lanciare lunghe occhiate indagatrici alla sua finestra… che vorrà?

Nella mente di Rosa si proiettano tetri scenari di sfratti forzati, si vede trascinata per strada con le sue povere masserizie, lasciata senza casa da un giorno all’altro.

Ha letto di interi palazzi svuotati per venire abbattuti e permettere la costruzione di svincoli autostradali o di enormi centri commerciali. E poco conta che l’autostrada più vicina disti almeno otto chilometri e che di centri commerciali ce ne siano già abbastanza: Rosa sta seguendo con lo sguardo sbarrato il film che si proietta nella sua testa e ormai è convinta che quel tizio sia lì per lei! Lo vede avanzare verso l’androne d’ingresso fino a sparire dalla sua vista.

Dopo alcuni minuti, si sente il campanello al terzo piano squillare una volta, poi due, poi tre. Senza risposta.

Con un grugnito Ivano apre un occhio e ascolta. Ha preso sonno da poco, ed è così stanco! Ma le scampanellate al piano di sopra cessano e il silenzio torna a regnare lungo le scale dai lucidi gradini di marmetta color crema. Ivano chiude l’occhio e riprende a dormire. Pochi minuti di pace e poi di nuovo il rumore del campanello si fa sentire. Una volta, due volte, pausa… tre volte…

Lo strepito riesce a penetrare nella fitta coltre del sonno di Ivano, che di nuovo apre l’occhio e ascolta: stavolta è proprio il suo campanello, e a quanto pare non intendono dermordere.

Rassegnato, Ivano ruota pesantemente sul fianco, si mette a sedere sul bordo del letto e, lanciando uno sguardo di sbieco, osserva con rimpianto l’avvallamento lasciato dal suo corpo nel materasso. Vorrebbe tanto dormire. Ne ha proprio bisogno. Ha finito all’istituto solo tre ore fa ed è stremato. Stanotte poi è stato un delirio, con quel malato che diceva di essere un esorcista emissario diretto di dio e di dover allontanare il demonio da tutti gli altri ospiti. “IOOOOOO SOOONOOOOOOOOO ARRIVATOOOOOOO!” si era messo a urlare all’improvviso nel mezzo della notte, ritto in piedi in mezzo al lettino. “TREMAAAAAAAAAAAA O SATANA! TREMAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!”

Ce n’era voluto del bello e del buono a farlo calmare: “Sta buono, Tobia, scendi dal letto che se caschi ti fai male” gli diceva con tono calmo e suadente Ivano. Nonostante l’aspetto fisico massiccio e un po’ bestiale che gli conferisce l’acromegalia di cui è affetto, Ivano sa essere molto paziente e i malati lo adorano. Da lui si sentono protetti, accolti: la sua voce calma, quel corpo tarchiato con cui li abbraccia forte per tenerli fermi, per impedire loro di farsi o di fare male; e loro prima si dibattono, poi cedono, si abbandonano, e gli raccontano dei loro incubi, delle loro paure. E lui li tiene sempre abbracciati stretti stretti, e gli parla calmo, finché le medicine fanno effetto e si addormentano.

Ma la notte scorsa no, Tobia si era messo a declamare con ancora più lena la sua amata formula scaccia demoni: “O Signore tu sei grande, tu sei bello, tu sei buono! Noi ti raccomandiamo che gli arcangeli Michele, Raffaele, Samuele e … tutti quelli che gli finisce il nome per ele, perché i nostri fratelli e sorelle siano liberati dal maligno che li ha resi schiavi. O SANTI TUTTI VENITE IN NOSTRO AIUTOOOOOOOOOOO!”

Con tutte quelle urla Tobia aveva svegliato gli ospiti dell’Istituto che avevano cominciato chi a protestare, chi a lamentarsi, chi a piangere, e chi, infine, a chiedere di poter incontrare l’esorcista, perché si sentivano il diavolo dentro!

Ivano e i due colleghi avevano dovuto chiamare d’urgenza il professore, e poi correre qua e là come ossessi, distribuendo pillole, propinando iniezioni fino a quando quel bailamme si era placato. Ci erano volute almeno due ore per riportare tutto alla calma. E ora si sente esausto.

L’ennesima scampanellata spinge Ivano a infilarsi le ciabatte e a trascinarsi fino al citofono: “Chi è?” borbotta con voce rauca.

“Ah… sì… dunque….” la voce dall’altra parte pare sorpresa, tentenna, incespica “… parlo… parlo col signor Ivano Zini?”

“Sì, sono io” grugnisce piano Ivano cercando di schiarirsi la voce.

“Salve, sono un intervistatore del Censis, in famoso istituto nazionale di ricerca e studi sociali. Stiamo svolgendo delle indagini sulla percezione del territorio da parte dei cittadini e abbiamo selezionato a caso dei nominativi, tra cui c’è il suo, per la somministrazione di questionari che saranno tuttavia assolutamente anonimi e privi di dati sensibili. Si tratta di una ricerca meramente investigativa, senza alcuno scopo se non quello di realizzare uno studio utile agli enti pubblici locali per offrire risposte puntuali ai cittadini e…”

“Basta, basta per carità” sbotta Ivano interrompendo quel fiume inarrestabile di parole che hanno smesso di avere senso per lui dalla parola Censis in poi “Deve salire?”

Dall’altra parte un tono sorpreso: “Lei accetta di rispondere al questionario?”

“Ma sì, tanto ormai son sveglio” risponde Ivano premendo il pulsante apriporta “Secondo piano” aggiunge.

Aldo spinge il portoncino e con lieve titubanza inizia a salire le scale, sotto lo sguardo attento di Rosa, che lo segue dallo spioncino mentre attraversa il pianerottolo del primo piano e prosegue verso il piano superiore.

Al secondo piano Aldo si ferma davanti al campanello su cui campeggia, in stampatello a pennarello blu, “ZINI”. Suona. Al di là della porta ode passi strascicati, qualcuno che si schiarisce la gola, gli scatti della serratura; la porta si apre lasciando intravvedere, nella penombra la sagoma un marcantonio dalla postura minacciosa. Fa fatica, Aldo, a mettere a fuoco, stordito dal timore che quella immagine gli instilla, ma dopo un po’ finalmente riesce a cogliere i tratti somatici del proprietario di quel corpo: una testa spropositata, un’espressione feroce e ottusa, due mani enormi e strette a pugno; il terrore si dipinge sul viso di Aldo, gli invade il cuore, gli soffoca il respiro. Un passo all’indietro, un urlo strozzato e Aldo si trova a rotolare letteralmente dalle scale, saltando i gradini a due a due.

Spaventata dall’urlo che echeggia per le scale, Rosa pattina rapida fino allo spioncino da dove vede passare un’ombra esagitata. Poco dopo il portone d’ingresso si chiude con uno schianto. Rosa fa dietro front e con agilità sorprendente pattina verso la finestra da dove si affaccia per vedere quello strano tipo di prima che ora corre attraverso il giardinetto condominiale come un indemoniato, urlando, sbracciandosi, girandosi indietro come a controllare che nessuno lo insegua fino a quando non mette un piede sul pettine del rastrello abbandonato dal giorno prima nell’erba alta. Come un proiettile, il manico del rastrello si solleva andando a sbattere contro la fronte dell’invasato che casca a terra con un tonfo sordo e lì rimane, svenuto.

Rosa rimane a guardare trattenendo il respiro, il viso proteso, la mano che tiene sollevata la tendina di pizzo, fino a quando non vede il tizio muoversi: “Beh, non è morto, almeno” commenta a mezza voce tornando alla sua tivù – acquario.

Nel frattempo Aldo si alza a sedere e con cautela si massaggia la fronte indolenzita. È stordito e si sente esausto, pensa alle decine di questionari che giacciono sparpagliati lungo le scale: dovrebbe rientrare, raccoglierli. Ma il pensiero dell’uomo mostruoso del piano di sopra lo blocca. Chi se ne frega di questo lavoro di m…, si trova a pensare, e dei loro questionari. Si alza faticosamente e barcollando se ne va.

Quanto a Ivano, dopo alcuni secondi di perplesso stupore, chiude la porta e torna a letto. Di matti gli bastano quelli con cui lavora ogni giorno.

 

di Maddalena Gregori

5 Risposte a “Storia de paure!”

  1. Eh ma lo svedesone era davvero terrificante; i suoi piedi puzzolenti hanno reso il viaggio un incubo!
    A dir la verità, quando ho letto la prima volta il racconto, la “spassosa comica” mi ha preso dall’inizio alla fine. A me ha fatto ridere Aldo sotto ai citofoni, l’anziana con le sue super pippe, IOOOOOO SOOONOOOOOOOOO ARRIVATOOOOOOO! TREMAAAAAAAAAAAA O SATANA! TREMAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!, e così via fino al rastrello. Sei stata bravissima a giocare con le parole assegnate.
    Poi ho riletto ed ho pensato quello che ti ho scritto che è un pensiero serio.

  2. Questo racconto è spassosissimo ma mette in luce un’amara realtà: i pregiudizi e la paura del diverso. In questo caso si tratta di un dolcissimo e sensibile Ivano che ha la sfortuna, per i cosidetti normali, di avere un aspetto in cui non si identificano. E per chi non ha voglia di andare oltre, che sia l’anziana Maria che riempie la sua solitudine pattinando da uno spioncino alla finestra, che sia Aldo, giovane squattrinato alle prese con un lavoro che non gli piace, basta un aspetto estetico difforme dai numeri della bellezza di Fibonacci… ed è terrore!
    Perdonami se mi dilungo ma mi hai ricordato un episodio personale accaduto almeno trent’anni fa. Viaggiavo in treno; appena entrato in una galleria, esco nel corridoio, guardo a sinistra e scorgo il profilo di un ragazzo appoggiato ad un finestrino. Mi è preso un colpo perché, senza preavviso, ho visto un mostro. Aveva la faccia maciullata e la semioscurità rendeva il tutto più inquietante. Il mio spavento è durato un secondo. Mi venne da lanciare un urlo ma, mia fortuna ho un animo e una mente abbastanza efficienti e, mentre il cuore mi batteva a mille provai una tale vergogna per quella paura idiota che me la portai dietro per tutto il viaggio. Mi vergognavo di me stessa, mi vergognavo perché temevo che lui si fosse accorto del mio spavento, e questa sensazione mi ha fatta sentire brutta brutta.
    Perciò, scusa l’autocelebrazione (perché a ripensarci sono orgogliosa della mia vergogna), la randellata del rastrello in testa ad Aldo è stato il minimo della punizione! 🙂 …tanto non ha recepito nulla ugualmente della lezione…
    E guarda un po’, chi adora Ivano? I matti (chiamali matti!) che di lui vedono solo l’umanità.

    1. Ho riletto il racconto e ricordo che è nato per gioco, con alcune parole da utilizzare obbligatoriamente (tra le quali ricordo che c’erano spioncino, satana, questionario e rastrello). E ricordo che il rastrello non sapevo proprio come infilarcelo. E devo dire che invece è diventato il deus ex machina che mi ha permesso di trasformare di colpo un racconto un po’ così così in una spassosa comica. Il tuo uomo dal viso maciullato, invece, mi ha ricordato il mio svedesone di Milano-Venezia A/R

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