100.000 chiodi

 

Constellation - dettaglio - di Kumi Yamashita
Constellation – dettaglio – di Kumi Yamashita

Osservo con stupore misto a tristezza i due secchielli colmi di chiodi che sto trasportando alla discarica insieme a qualche secchio di calcinacci e alcuni travetti spezzati.

Due secchielli colmi di chiodi enormi, quelli da edilizia. Quanti chili saranno? Quanti chiodi? Quante le martellate per conficcarli nelle pesanti travi del tetto da cui li ho, uno ad uno, estratti? Quanta la rabbia per dare tutte quelle martellate?

Da qualche settimana sto lavorando alla ristrutturazione del locale sottotetto di mia proprietà. Robaccia da sbaraccare, travetti da sostituire, tegole da riposizionare e tutto il lavoro per la coibentazione. Poi l’operaio che si occupava del tetto mi fa: “Ma per i chiodi che si fa? È un lavoraccio…”

“Chiodi? Quali chiodi?” rispondo io pensando subito alla classica tattica per giustificare un aumento sul preventivo dei costi.

Lui allora comincia a indicarmeli, uno dopo l’altro. Pare quasi una magia. Un attimo prima non vedevo nulla, un attimo dopo i chiodi cominciano a materializzarsi sotto ai miei occhi, moltiplicandosi all’infinito. Arrugginiti dall’umidità di anni, si mimetizzano perfettamente nelle vecchie travi annerite.

“Ma chi diavolo…?” sussurro, pensando a mezza voce.

“Qualcuno che aveva tempo da perdere!” mi risponde l’operaio ribadendo che per togliere tutti quei chiodi servirà una intera giornata di lavoro, se va bene. Alcuni sono conficcati fino alla testa, e son tutti chiodi di almeno otto centimetri.

Così, armata di pinze, tenaglie e di un grosso cacciavite piatto, comincio pian piano ad estrarli. È faticoso, perché molti sono conficcati a fondo, al punto che si vede il segno delle martellate sul legno tutto intorno alla testa del chiodo. Devo scavare il legno tutto intorno col cacciavite, poi acchiappo la testa con la tenaglia, e infine con la pinza tiro, smuovendo il chiodo per allargare il legno. Chiodo dopo chiodo, faticosamente, procedo e alleggerisco le travi di tutto quel metallo, i secchielli si riempiono.

Ci metto parecchio a ripulire le travi e un giorno colgo le chiacchiere tra due vicine che, fermatami per chiedermi come procedono i lavori, si lasciano andare ai ricordi raccontando di quel ragazzo, anzi di quel ragazzino figlio di una coppia infelice: padre alcolizzato e madre vittima costante di violenze fisiche condite da urla e strepiti. Urla che accoglievano il ragazzino fin dal rientro a casa da scuola. I motivi erano tra i più svariati, ogni occasione era buona, ogni argomento era valido per urlare, insultare, colpire… e l’unico rifugio per quel ragazzino era quel pezzo di solaio dimenticato da tutti. Lì si era costruito un suo mondo, dipingendo alcuni vecchi mobili dimenticati negli angoli con una brutta vernice marrone. E quando le urla arrivavano fino a lì, allora si metteva a piantar chiodi, con furore… “Ah, sapesse, il pomeriggio non c’era modo di fare un riposino in grazia di Dio! Sempre quel martellare!… A volte persino di notte, che io una volta son salita e gli ho detto ‘scolta Giacomo, qua è una casa e i cristiani che vanno a lavorare devono pure dormire un poco! E lui mi ha detto scusa, ma con un garbo, sapesse, perché era un bravo ragazzo, in fondo, ma ha avuto la sfortuna di avere quella famiglia lì, quel padre che li picchiava sempre, tutti, e lui, crescendo, difendeva la madre e faceva a botte col padre… sapesse che guerre!…”

E così, di chiodo in chiodo, mi trovo a immaginare quanto dolore sia racchiuso in ognuna di quelle martellate, quali sofferenze dietro ogni chiodo. Lotto strenuamente per estrarli: ognuno di essi è una sfida, richiede tempo e pazienza, e tanta energia. Devo fermarmi spesso, sento i muscoli delle braccia tremare per lo sforzo, e immagino mani che invece tremavano di rabbia, immagino il fragore del martello che copre le urla che arrivano dal piano di sotto, immagino il desiderio privo di voce, di poter avere ben altro sotto quel martello, la voglia omicida, lo strazio dell’impotenza di fronte a un mondo fatto di pura violenza.

Ogni chiodo costa almeno tanta fatica quanta ne è servita per piantarlo, ogni chiodo mi costringe a saggiarne la forza, la consistenza, la natura. Scavo lenta col cacciavite intorno alla testa, poi la afferro con la tenaglia, poi la pinza con cui lo strattono su e giù, destra e sinistra, finché lo sento cedere, finché lo sento scivolare fuori dal suo alveo. E alla fine il tintinnio metallico quando cade nel secchiello,  chiodo tra i chiodi. E in questa lenta lotta mi trovo sempre più a pensare a quel ragazzino, a cosa può essere diventato. Ormai è un pensiero ossessivo e così, la prima volta che incrocio la vicina, glielo chiedo.

“Eh!” fa lei con faccia contrita “È morto due mesi prima che arrivasse lei… overdose han detto. L’han trovato sul letto, la madre e la sorellina, quando son tornate per pranzo… Aveva appena vent’anni”

È per questo che mi sento triste, portando questi secchielli di chiodi arrugginiti in discarica. Mi pare di tradire quel ragazzo. Sto gettando l’unico segno del suo passaggio in questo mondo che ha potuto lasciare. Poi sento i muscoli delle braccia indolenziti e ripenso alla lenta e faticosa lotta che ho sostenuto in questi giorni contro quei chiodi, e all’improvviso tutto questo mi appare come una sorta di lunga preghiera dedicata a lui e alla sua vita. E penso che tutta quella fatica gli era dovuta, che qualcuno doveva farla. E che son felice che sia toccato a me.

“Sì, Giacomo” gli sussurro sapendo che mi può sentire “io conosco la tua storia!”

E qui la racconto, perché il suo dolore non sia stato invano.

 

di Maddalena Gregori

2 Risposte a “100.000 chiodi”

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