Cuori in gabbia – I

Dal film “I 400 colpi” di Francois Truffaut

 

La prigione non ti toglie la libertà: ti toglie l’anima.

Questa piccola grande verità fu chiara agli occhi di Bruno fin dalla sua prima settimana di reclusione. Anzi, fin dall’istante in cui udì chiudersi dietro di sé il primo degli innumerevoli cancelli che, da quel momento, si sarebbero frapposti fra lui e il mondo così come l’aveva conosciuto.

Quel “clang!” secco si era impresso nel suo cuore come un marchio a fuoco. E per parecchio tempo, ogni volta che lo risentiva, la ferita gli bruciava un po’ di più, un altro pezzo di anima se ne andava, fuggiva lontano da quel suono doloroso, dal buio di quelle celle dalle finestre minuscole, illuminate da neon tremolanti, sature dell’odore di un’umanità incattivita.

La sua anima se ne era andata, pezzo dopo pezzo, un po’ di più ad ogni “clang!” che risuonava alle sue spalle. E ormai da anni Bruno si era abituato a vivere senza di lei.

Senza di lei era tutto molto più semplice: pochissimi dubbi e alcune certezze assolute. Regole, potremmo dire, a cui attenersi con bovina acquiescenza, per poter vivere meglio, per garantirsi angoli di oblio. Suo, nei confronti del mondo, e, cosa ancor più preziosa, del mondo nei suoi confronti.

A chiederglielo a bruciapelo, Bruno non avrebbe saputo dire da quanto tempo si trovasse in prigione. Da un certo momento in poi, improvvisamente, il conteggio isterico dei giorni, delle settimane, dei mesi già trascorsi, o ancora da trascorrere in quel luogo, si era interrotto. Da tempo, ormai, ogni giorno si susseguiva all’altro, ogni anno all’altro, sempre uguali a se stessi.

Anni: di questo sì, era certo. Erano già parecchi anni che stava in prigione. Ma per sapere esattamente quanti, Bruno doveva chiedere “Che giorno è oggi?” e, sulla base della risposta, con un rapido calcolo, sapeva fornire l’informazione richiesta. Poi se ne dimenticava di nuovo, perché a stare lì a pensarci gli sarebbe venuto il male.

Quelle poche volte che si soffermava su quelle cifre, ne rimaneva colpito. Numeri a due cifre. Ormai poteva dire che più della metà della sua vita era trascorsa tra quattro mura, se si sommavano gli anni di istituto correzionale a quelli di prigione.

Non che fosse vecchio, anzi. Ma la sua carriera era iniziata presto.

Sempre stato precoce, lui.

Di casa se ne era andato a undici anni, stimolato in quel senso da un patrigno dalle mani un po’ troppo pesanti e da una madre incapace di sentirsi tale, interessata più che altro ad essere una “donna”, come amava ripetere lei: “Sono una donna, sono ancora giovane, ho bisogno di un uomo, ho diritto all’amore…” Quanti diritti aveva sua madre… e quanti pochi doveri.

Una mattina era uscito per andare a scuola e, come sempre più spesso capitava, semplicemente se ne andò a fare un giro. Non aveva voglia di andare a seppellirsi in quelle quattro mura muffite, a sonnecchiare annoiato alle lezioni insulse di professori incapaci. Litigando e facendo a botte con compagni troppo grandi e scafati di lui.

A pensarci ora, quella smania di libertà che lo assillava fin dall’infanzia facendogli sentire una scuola come una galera, forse era una sorta di preveggenza. Quel bambino anelava a una libertà che per così tanto tempo gli sarebbe stata in seguito sottratta.

Comunque sia, quella famosa mattina invece di andare a scuola decise di andarsene in giro, bighellonando qua e là. Poi, spinto dalla noia, era andato a una baracca vicino alla ferrovia dove di solito vedeva riunirsi certi ragazzi più grandi di lui. I suoi Lucignoli. Certi tipi che amavano giocare con le armi e che quel giorno, scopertolo che sbirciava dentro la baracca attraverso i vetri sporchi di una finestrella, lo avevano praticamente sequestrato, malmenato giocosamente e poi costretto ad attraversare l’autostrada di corsa, per dimostrare che non era un vigliacco. Dopo quella prodezza, che aveva provocato un incidente tra alcune auto che avevano perso il controllo per evitarlo, era stato accolto nel gruppo e ogni giorno tornava alla baracca e ci passava ore e ore.

Lui all’inizio si era sentito un grand’uomo, ma poi pian piano si era arrabbiato coi suoi nuovi amici, perché lo mandavano sempre a fare commissioni stupide e si era accorto che lo facevano quando dovevano parlare di cose che non volevano fargli sapere. Lo mandavano a comprare la granita, o le birre, e poi gli dicevano: “Ora però vai a casa, piccoletto. Ci vediamo domani.” E con un paio di spintoni lo cacciavano fuori dalla baracca.

Ma lui era sveglio, in queste cose, tanto quanto si dimostrava ottuso a scuola. Era sveglio e in poco tempo era riuscito a capire cosa andavano a fare, quei giovanotti, e come lo facevano.

All’inizio li seguiva per un po’, vedeva dove andavano. A volte invece seguiva i loro preparativi dall’esterno della baracca, sempre sbirciando dai vetri luridi. Vedeva le pistole, vedeva le pallottole, vedeva dove mettevano il tutto, come si preparavano, come partivano a coppie sulle motorette.

E così un bel giorno lui fu pronto, aveva imparato la lezione ed era arrivato persino alle conclusioni: “E a me quand’è che mi fate fare una rapina?”

Erano volati scappellotti, spintoni, calci e insulti, poi il capo della banda si era messo a ridere e era sbottato a dire: “Hai capito lo scimunito? Pareva un tonto e invece…”

Allora tutti si erano messi a ridere, facendo un tale baccano che da fuori probabilmente la baracca tremava, come nei cartoni animati. E poi erano volate le prime pacche sulle spalle, così forti che era difficile distinguerle dalle sberle di prima, ma queste erano buone: volevano dire che lo accettavano.

“E bravo il piccoletto… Vuoi far carriera, eh?… Attento però, che non è così facile…”

Insomma, per farla breve, gli diedero un casco da moto e lo fecero salire dietro a quello che doveva fare il palo. Il gruppo di quattro scooter si avviò verso un distributore dall’altra parte della città, venti minuti di strada. Giunti nei pressi si divisero: Bruno e l’altro palo rimasero a un centinaio di metri, a faro spento. Bruno venne mandato a piedi sulla curva poco distante, a vedere se arrivava qualcuno, l’altro, un ragazzino di due o tre anni più di lui, se ne stava a cavalcioni dello scooter a scrutare la strada nell’altro senso. Gli altri sei, coi volti coperti dai caschi, andarono al distributore. All’inizio pareva tutto normale, il capo tirò fuori la pistola dalla cintura dei jeans e la puntò sul benzinaio. Quello camminò all’indietro, incespicò, cascò e si rialzò di corsa. Bruno osservava con un occhio solo – con l’altro teneva sotto controllo la strada – e si mise a ridere. Il capo entrò nel gabbiotto del benzinaio con l’uomo. Poi si sentirono degli spari, il capo corse fuori, saltò in sella alla moto su cui lo aspettava l’autista col motore che già rombava, e tutti corsero via. Bruno corse veloce al suo scooter: “Spicciati stronzo! Vuoi farci beccare?” gli gridava l’altro. Prese la rincorsa e saltò in sella che l’altro aveva già sgommato. Un secondo dopo erano già per strada, col motore che urlava sotto di loro, il cuore che batteva a martello, un senso di esaltazione come non aveva mai provato. Cominciarono a urlare, come facevano i cowboy nei film: “Yahooo! Yahooo!”.

Il ritorno lo fecero da soli, non con le altre motorette, lungo una strada diversa da quella di andata. Si sarebbero trovati con gli altri alla baracca. Dopo i primi minuti di esaltazione l’adrenalina si esaurì e i due pali procedettero senza dirsi una parola; Bruno, che rabbrividiva per l’aria fresca della sera, se ne stava raggomitolato dietro alla schiena dell’altro.

Giunti alla baracca vennero accolti dalle grida e dalle risate degli altri membri della banda: “Dove siete stati? In camporella? È stato bello? Allora adesso non sei più vergine, vero?”

Il ragazzino che aveva fatto il palo con Bruno era tutto rosso in volto e rispondeva a male parole. Bruno invece sentì rimontare in sé l’eccitazione di quella serata straordinaria.

Poi il capo, che se ne stava in disparte con una sigaretta appiccicata all’angolo della bocca in una posa da divo del cinema, fece un cenno con la mano e tutti se ne stettero zitti. Senza dire una parola tirò fuori dalla tasca dei jeans una formidabile manciata di banconote che cominciò a dividere per taglio. Prese a dividerle in mucchietti, di peso diverso, a seconda del ruolo coperto nel lavoro e dell’anzianità di appartenenza alla banda. Al ragazzino che aveva fatto il palo con Bruno toccò il pacchetto più piccolo, ma lui lo accolse con un gran sorriso sulla faccia. Per Bruno non rimase niente. Tutti si girarono a guardarlo, ridendo della sua espressione. Ci era rimasto male, e non riusciva proprio a cancellare quell’espressione vicina al pianto che gli deformava la faccia. E questo lo faceva arrabbiare ancora di più: far vedere a quelli lì che ci era rimasto male. Non era giusto, anche lui aveva fatto qualcosa!

“Non te la prendere, stronzetto.” gli disse allora il capo pescando a fondo nella tasca e tirando fuori una grossa manciata di monete che sbatté sulla panca davanti a Bruno “È stata la prima volta, e ti sei comportato bene. Ma è la prima volta, e ti devi accontentare.” La voce profonda e calma suonava autorevole come quella di un adulto e Bruno non obiettò. Prese le monete e cominciò a contarle, e alla fine anche sulla sua faccia comparve un gran sorriso: era comunque un bel prendere, per un’ora seduto su uno scooter.

Tutti gli altri scoppiarono a ridere e riesplose la salva di pacche sulle spalle. E quella fu la fine della serata. Pian piano, i vari membri della banda si allontanarono, tornando alle loro case, tranne i più grandi, che decisero di andare a divertirsi e a spendere i soldi appena guadagnati. Bruno rimase lì, accanto a loro, in attesa, ma quando quelli se ne accorsero lo spinsero fuori dalla baracca a calci: “Va’ a casa, scimmiotto! Togliti dalle scatole!”

A Bruno non restò che andare a casa per davvero, dove però non ricevette un gradevole ‘bentornato’. Il suo patrigno dapprima lo scosse forte, chiedendogli dov’era stato tutto il giorno, che la scuola gli aveva telefonato ed erano venuti persino i carabinieri a chiedere perché quel ragazzino non andava mai a scuola, e poi si tolse la cinghia e prese a colpirlo dalla parte della fibbia, e non valsero le urla di Bruno e della madre, non valse il sangue che usciva dalle ferite sulle braccia, sulle gambe e sulla faccia del ragazzino a fermarlo. Solo quando fu stanco di roteare quei magli che erano le braccia da manovale, il patrigno smise di colpire. E alla fine gli requisì persino il malloppetto di monete e se ne uscì per andare al bar sotto casa “per farsi passare il nervoso”, disse.

A Bruno non rimase che andare in bagno a sciacquarsi le ferite e a disinfettare quelle più grosse, singhiozzando per la rabbia e il dolore, mentre sua madre piangeva forte lanciandogli insulti dalla camera da letto: “Ma che ho fatto per meritare un figlio come te? Vuoi che anche questo mi lasci? È questo che vuoi? Vuoi che viva per sempre sola e infelice?”

Bruno rimase seduto sul vater finché la rabbia non gli passò e finché la madre di là non smise di urlare. Poi andò il più silenziosamente possibile verso l’armadio, infilò la mano nell’anta socchiusa, perché ad aprirla tutta avrebbe cigolato e sua madre si sarebbe svegliata, e tirò fuori dei vestiti a caso, li infilò nello zaino di scuola, e uscì per strada.

Si sentiva tutto rotto, i tagli bruciavano e aveva una fame che se lo portava, ma in quella casa non ci sarebbe tornato più. Quella notte dormì nella baracca. (continua)

 

di Maddalena Gregori

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