Cuori in gabbia – VI

Scena dal film “Il profeta” di Jacques Audiard

 

(continua)  Piangeva tutto quello che non aveva mai pianto in vita sua: una madre egoista eppure, a modo suo, sempre madre; un padre immaturo e fragile, che aveva saputo solo distruggere se stesso e chi gli stava intorno; un patrigno che aveva trovato sempre e solo i modi più sbagliati per dargli l’attenzione di cui lui avrebbe avuto così bisogno; un bambino solo e ringhioso, che troppo presto aveva imparato a badare a se stesso senza contare sul sostegno di nessuno; un ragazzo che aveva creduto, nella presunzione della giovinezza, di aver trovato la verità, e invece aveva trovato solo il vuoto.

E più piangeva, più aveva voglia che qualcosa di bello entrasse nella sua vita. Aveva cominciato a scrivere lettere a certe associazioni per trovare amici di penna. In realtà sognava di trovare un’amica di penna, qualcuna che sapesse, al di là delle sbarre dietro cui era prigioniero, vedere l’uomo, col suo dolore, e comprenderne gli errori, perdonarli. Sognava, manco a dirlo, il grande amore.

In tutto questo, in prigione lui si era fatto una bella reputazione. Le guardie si fidavano di lui, il direttore lo elogiava, aveva già maturato un bel po’ di sconto di pena per buona condotta. Gli avevano detto che avrebbe presto potuto fare richiesta per andare fuori a lavorare. Gli operatori e gli assistenti sociali che collaboravano con la direzione avrebbero cercato di farlo assumere in una cooperativa sociale per poterlo poi inserire nei progetti di reinserimento sociale, con permessi giornalieri per andare al lavoro. Ancora era presto, ma già gli avevano presentato alcune ipotesi, e su ognuna Bruno ci ricamava, si faceva dei viaggi. Stava lì sdraiato sulla cuccetta, a occhi spalancati, fissando il soffitto, a pensare a chi avrebbe incontrato, a come si sarebbe comportato, a cosa avrebbe fatto, a come avrebbe cercato di mostrare tutto quello che aveva capito di sé, alle mille paure che gli intorcicavano il cuore come uno straccio strizzato per far uscire l’eccesso di acqua. Eccesso di gioia, si scopriva a pensare Bruno. Eccesso di speranza, desiderio, allegria, buonumore, ottimismo, felicità, fiducia … parole che pareva aver perso ogni significato, per lui, e che ora tornavano a dargli fiato.

Era in questo stato d’animo il giorno in cui vide per la prima volta Andrea. Stava finendo il suo turno in biblioteca e percorreva il corridoio, in compagnia della guardia, per tornare alla sua cella e dirigersi poi all’aria pomeridiana. Percorreva il corridoio e lo scorse lì in fondo, davanti alla porta dell’ufficio dove distribuivano lenzuola e masserizie. Un novellino, pensò Bruno, e lo fissò, così, per studiarlo, come si fa con un elemento nuovo in un paesaggio usuale. Andrea, a capo chino sulla soglia della porta, girò appena la testa e gli lanciò uno sguardo di sguincio, leggero, rapido. Uno sguardo in cui a Bruno parve di leggere un misto di paura e timidezza, e anche una malinconica nota di rassegnazione, come di un cucciolo che ha perso la madre e da tempo non viene accarezzato da nessuno.

Fu questione di un istante, ma quello sguardo si impresse nel cuore di Bruno come una stilettata. Quando giunse alla sua cella il cuore gli stava ancora battendo all’impazzata e sentiva che le mani gli tremavano. “Ti aspetto?” fece la guardia.

“Arrivo subito.” rispose Bruno. Posò il libro che si era portato per quella sera, si sciacquò rapidamente le mani e raggiunse la guardia con cui si diresse verso il cortile della sua ala. Chiamarlo cortile era veramente troppo: uno spazio lungo e stretto circondato da mura alte. Pareva un’altra cella, solo un po’ più lunga e senza soffitto, ma la sensazione asfittica data da quei muri tutti intorno era uguale. Muri dietro muri, muri su muri: quello era il mondo a cui ormai si era abituato, a cui tutti si erano abituati. Se ne era accorto un giorno che era andato dal direttore e gli era capitato di venire lasciato per un po’ ad aspettare davanti all’ufficio; lì c’era un finestrone alto, con le sbarre quadrate, ma il finestrone dava su un paesaggio ampio, aperto su alcune colline e, in fondo in fondo, si poteva persino vedere il mare. Bruno si avvicinò alla finestra per guardare fuori: erano così tanti anni che non guardava un paesaggio! Si avvicinò ma, di lì a pochi secondi, fu costretto ad arretrare, preso da una vertigine profonda. Un senso di panico gli aveva preso la gola, di fronte a tutto quello spazio aperto.

Troppi muri e per troppi anni. Anche l’ora d’aria non era altro che un’altra ora tra i muri. In quei cortili asfittici non c’era spazio per muoversi, per fare attività fisica. Ci si sbatteva continuamente uno contro l’altro, e tuttavia, siccome queste poche ore quotidiane erano le uniche a disposizione per respirare un po’ d’aria fresca e per far riposare gli occhi dall’odiosa luce al neon, se ne approfittava il più possibile. Anche perché, nella noiosa continuità dei giorni sempre uguali l’uno all’altro, il poter vedere delle facce diverse da quelle dei compagni di cella o dei vicini, era essenziale per la propria salute mentale.

Anche quel giorno il cortile apparve a Bruno come una bolgia dantesca in miniatura: uomini grigi a capo chino che si muovevano meccanicamente, senza uno scopo né un desiderio dipinto sui loro volti. Dentro di lui, invece, quello sguardo fragile e forte insieme contro cui aveva cozzato in corridoio, continuava a scavarsi un varco, penetrava sempre più a fondo nella sua anima.

Lo distrassero le poche chiacchiere che scambiò con una guardia, sul fatto che avrebbe ospitato per qualche giorno uno nuovo nella sua cella, il porto di mare.

“Sì, sì. Va bene” rispose distrattamente Bruno.

“Sai, non ci starà molto da te, avrà il processo a breve” continuava la guardia quasi a scusarsi per il disturbo che gli arrecavano. Erano lontani i tempi in cui tutti erano attenti solo a ricordargli che lì non era il grand hotel. Negli anni Bruno si era conquistati la loro fiducia e il loro rispetto.

“Ho detto che va bene. So che è sempre per poco”.

“… anche perché è un tipo particolare, te ne accorgerai. Va tenuto tranquillo…” continuava quello. Ma Bruno ormai non lo stava più ad ascoltare e si limitava ad annuire.

Finito il tempo rientrò nella sua cella. Lo strano scombussolamento che lo aveva preso nel corridoio e che lo aveva accompagnato per un paio d’ore era ormai scemato, e la sua mente si era concentrata sul libro che si era portato in cella, un romanzo che lui stesso aveva ottenuto il permesso di ordinare. Aveva proprio voglia di leggerlo e già pregustava la gioia di aprirlo sul frontespizio, leggere le prime righe, poi la prima pagina, e lasciarsi catturare dalla storia che si sarebbe svolta sotto i suoi occhi, una parola dopo l’altra.

Ma in cella lo aspettava la sorpresa di quello nuovo. Come aveva fatto a scordarselo? Era di spalle, impegnato a prepararsi la cuccetta.

“Ecco, questo è quello di cui ti parlavo.” gli disse la guardia che lo aveva seguito fin lì e di cui non si era neanche accorto.

Il nuovo si voltò e uno sguardo timido e spaventato, rassegnato e forte insieme lo colpì al petto.

“Piacere, Bruno” disse, dopo alcuni istanti di sorpresa, porgendo la mano al tipo.

“Andrea…” rispose quello con una stretta di mano rapida e sdegnosa.

Non restava altro da dire e il nuovo si voltò verso la propria cuccetta, per sistemare le sue cose.

Bruno andò a sedere sulla propria cuccetta e rimase a osservare la schiena di quello. Era alto e solido, e indossava jeans vecchi e sdruciti, una Tshirt bianca con delle scritte davanti, scarpe da ginnastica lise. Poi il tipo si girò, con in mano alcuni oggetti. “Dove posso mettere questi?” chiese mostrando rasoio, schiuma da barba, spazzolino e accessori da toletta.

“In bagno c’è una mensola. C’è del posto libero un po’ ovunque” rispose Bruno cercando di tenere a bada la voce che gli tremava “E se non ti pare che ce ne sia abbastanza dimmelo che sposto qualcosa”.

L’altro lo fissò brevemente, poi grugnì un assenso e si diresse verso il microscopico bagnetto della cella. Poco dopo ne uscì e, evitando esplicitamente di guardare Bruno, andò a sdraiarsi sulla propria cuccetta. Rimasero così per qualche minuto, Bruno seduto a guardare Andrea e Andrea sdraiato a non guardare Bruno, poi Andrea d’improvviso sbottò: “Ma che cazzo hai da fissare? Vuoi una foto?”

“Scusa” rispose Bruno girandosi e sdraiandosi a sua volta sulla cuccetta. Per evitare ogni possibile tensione, afferrò il libro e lo aprì. Ma non riusciva a fare in modo che una sola parola attecchisse nella sua mente. Leggeva e rileggeva ogni riga, ogni frase, ogni capoverso ma non riusciva ad andare avanti. Lo sguardo gli sfuggiva sempre di lato, verso Andrea, e il suo cuore pareva impazzito. Il ragazzo se ne stava lì fermo ad occhi spalancati, le mani dietro la nuca, la bocca serrata in una piega amara. E Bruno, come un ladro, cercava di rubare qualche frammento di quel viso, di quel corpo. Continuava a pensare allo sguardo che Andrea gli aveva lanciato in corridoio, a quel misto di vigore e delicatezza, a quello strano amalgama di dolore e ardore che vi aveva scorto. Non riusciva ad evitare di chiedersi a cosa il ragazzo potesse pensare, alle emozioni che gli colmavano il cuore. Immaginava che potesse essere terrorizzato, sconvolto, e allo stesso tempo supponeva che cercasse di farsi forza, di mostrare forza, nel tentativo di dissuadere gli altri a fargli del male. Ma lì c’era solo lui, Bruno, che riusciva a capirlo e che mai e poi mai avrebbe potuto fargli del male. Avrebbe voluto riuscire a comunicare tutto ciò a quel ragazzo ma sapeva anche che non era il momento giusto per farlo. Bisognava lasciarlo sbollire e fare in modo che pian piano lasciasse cadere la corazza.

Nel frattempo Bruno continuava fingere di leggere, scorreva le pagine, muoveva gli occhi sulle righe, ma la sua attenzione era sempre concentrata su quel corpo che giaceva a poca distanza da lui.

Finalmente arrivò il carrello della cena.

Di solito Bruno si preparava qualcosa da mangiare, e se c’era qualcuno in cella preparava per due, ma quella sera l’aria era troppo tesa. Quanto ad Andrea, era appena arrivato ed era impossibile che avesse delle vettovaglie.

Bruno sedette al tavolino a mangiare, ma Andrea andò a sedersi sul bordo della propria cuccetta, tenendo il piatto in bilico con una mano e la forchetta con l’altra. Mangiarono la pasta scotta e scondita nel silenzio più assoluto, si sentiva solo il rumore delle mascelle che masticavano e delle gole che deglutivano. Appena finito Bruno andò a sciacquare piatto e bicchiere in bagno e quando tornò in cella vide che Andrea era in piedi davanti alla cuccetta ad aspettare di poter fare lo stesso.

“Vuoi un caffè?” chiese Bruno con noncuranza mentre Andrea era ancora in bagno. Siccome nessuna risposta gli era arrivata si girò e lo sguardo di Andrea lo colpì al cuore per l’ennesima volta. Il ragazzo era in piedi sulla soglia del bagno, col piatto gocciolante in mano. Lo fissava con uno strano sguardo fisso e sospettoso. Bruno rimase incatenato a quello sguardo e, senza parole, mostrò la moka che stava preparando, come a ripetere la domanda.

“Se ti avanza…” rispose Andrea andando a posare il piatto

“Un caffè si divide sempre volentieri” rispose Bruno.

“Non voglio approfittarmene” ribatté Andrea inespressivo.

“Ma figurati” fece Bruno con un po’ troppa enfasi “Non sarà mica per un caffè” e si girò verso il ragazzo sorridendo. Ma uno sguardo fermo e asciutto lo gelò.

La convivenza con Andrea durò una ventina di giorni, e alla fine di quel periodo Bruno non era riuscito a scalfire di un grammo il riserbo del ragazzo. Pochi scambi di parole cauti e freddi, nessuna confidenza, niente di niente.

Bruno si scopriva a scrutare il compagno di cella di sottecchi, cercando segni di percosse, lividi, oppure movimenti contratti sintomo di dolore fisico. Memore della propria terribile esperienza durante i primi mesi in cui era arrivato in quel carcere, temeva che Andrea avesse dovuto sopportare le stesse violenze e angherie. Ma niente lo lasciava pensare. D’altro canto Andrea era stato subito assegnato alla sua cella, fin dal primo giorno… (continua)

 

di Maddalena Gregori

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