Cuori in gabbia – VII

Scena della serie televisiva “Prison break”

 

(continua)  D’altro canto Andrea era stato subito assegnato alla sua cella, fin dal primo giorno…

Ogni tanto Bruno provava a lanciare delle frasi, come per caso, a volte come se parlasse da solo, giusto per vedere se gli riusciva di fare conversazione, ma niente. Andrea rispondeva a monosillabi, o grugniti e poi tornava a farsi i fatti propri. Stava spesso sdraiato sulla propria cuccetta, guardando programmi sportivi in TV a un volume così basso che era impossibile capire il senso delle parole e Bruno si chiedeva che gusto ci fosse a guardare quelle nuvole grigie muoversi caoticamente sul microscopico schermo a quadretti. Oppure sfogliava qualche rivista che si faceva portare dalla biblioteca da Bruno. Altrimenti sistemava le sue cose, o faceva ginnastica, si lavava, lavava i propri panni. Si muoveva in lungo e in largo per la cella con calmi movimenti negligenti, spesso con una sigaretta accesa appiccicata all’angolo sinistro della bocca, con l’occhio sinistro semichiuso per evitare il fumo. Le labbra piene si afferravano con noncuranza all’estremità della sigaretta, che pareva continuamente stesse per cascare. Ma la sigaretta non cascava mai, se ne restava lì, incollata alle labbra che si serravano durante ogni inspirazione per poi rilassarsi mentre il fumo usciva voluttuosamente dal naso.

A volte invece, quando non stava facendo nulla, Andrea, sdraiato in cuccetta, giocava a fare anelli col fumo, e riusciva a farne di perfettamente tondi, in sequenze così strette da farli inanellare tra loro. Inspirava e poi atteggiava le labbra a tondo perfetto, emettendo il fumo a piccoli sbuffi fermi con la lingua saettante nel mezzo. Bruno si incantava a osservarlo, si perdeva dietro i movimenti di quelle labbra, al roseo luccicare della lingua che d’improvviso faceva capolino per poi ritirarsi.

Ma si era reso conto che Andrea non sopportava che lui lo guardasse. I primi giorni, se si accorgeva di essere guardato, lo fissava e lo freddava con un “Beh? Che vuoi?”. In seguito si limitava ad uno sguardo secco, duro, gelido, eppure con nel fondo il calore di una malinconia profonda e addolorata, e poi si girava dandogli le spalle.

Era questa doppia anima ad attrarre Bruno e a lasciarlo sconcertato. Non riusciva a evitare di pensare che Andrea avesse, in realtà, voglia e bisogno di trovare un amico, una persona fidata a cui appoggiarsi, e si struggeva all’idea di potergli offrire quel sostegno. Ma Andrea, a parte quelle occhiate ermetiche, non gli offriva alcun appiglio, anzi pareva fare di tutto per tenerlo lontano. E più il ragazzo lo scacciava, più forte era il richiamo profondo verso quel cuore sofferente che Bruno sentiva in sé.

Un richiamo che era come una calamita e che lo obbligava a stare il più possibile nelle vicinanze del ragazzo. Ora i turni in biblioteca gli erano diventati pesanti, sempre troppo lunghi e quando uscivano per l’aria, Bruno non riusciva a fare a meno di sentire le fitte della gelosia quando vedeva Andrea avvicinarsi a questo o quel detenuto, scambiando qualche parola e un rapido sorriso formale, avvicinando la bocca al fiammifero o all’accendino che gli veniva porto. Quella bocca morbida atteggiata a soffice anello, la gola tesa nell’atto di inspirare, e poi rilassata, il collo leggermente piegato di lato, a mostrare la pelle tesa e giovane.

Poi tornavano in cella, mangiavano scambiandosi poche parole, suddividendosi poi, in un balletto dalla coreografia definita semplicemente attraverso pochi gesti silenziosi e l’abitudine, i compiti per pulire e sistemare le stoviglie. Dopo cena Bruno leggeva e Andrea accendeva la televisione a volume pari allo zero, per non disturbare la sua lettura, aveva pensato Bruno. Un gesto che non aveva potuto interpretare che come un atto di gentilezza e un segnale di straordinaria sensibilità nei confronti degli altri.

Più tardi, dopo aver spento la luce, capitava, sempre più spesso, a dir la verità, che Bruno si svegliasse e accendesse una lucetta minima, che usava a volte per leggere fino a tardi, e che al chiarore soffuso di quella si soffermasse a lungo a rimirare Andrea abbandonato nel sonno.

Era estate e faceva un gran caldo, perciò dormivano sopra le lenzuola, in biancheria intima. Andrea spesso persino a torso nudo. Si addormentava a pancia in su, con il braccio sinistro piegato dietro la testa a fare da cuscino, e l’altro abbandonato penzolante fuori dalla cuccetta. In quella posizione Bruno poteva osservare il viso del ragazzo, ripiegato di lato, le labbra imbronciate come quelle di un bimbo, la fronte distesa, pronta a corrucciarsi per il fastidio passeggero di un sogno.

Poteva stare anche un’ora o più a guardarlo, il corpo asciutto e muscoloso, la pelle giovane e tesa. E quella bocca, indolente e sensuale. Era bello, così abbandonato e indifeso, bello come un Prigione del Michelangelo, si era scoperto a pensare una notte. E subito aveva sorriso alla coincidenza tra il titolo rinascimentale delle opere a cui aveva pensato con luogo in cui lui, e soprattutto Andrea, si trovava.

Il giorno dopo, in biblioteca, era andato a sfogliare alcuni libri d’arte finché non aveva trovato un paio di foto di giovani uomini dai corpi vigorosi abbandonati nel dolore delle ferite e della prigionia. Era rimasto incantato di fronte alla poesia sprigionata da quel contrasto profondo tra forza e fragilità, tra il vigore virile e l’abbandono spossato imposto dal un fato crudele. Tra la voluta freddezza degli sguardi di Andrea e la profonda e dolente malinconia che si celava sotto di essi. La poesia dei contrasti, la poesia di una vita non meritata, in cui il valore pieno di un uomo viene sepolto sotto occasioni sbagliate ed eventi catastrofici.

Tornando in cella, quella sera, ebbe l’amara sorpresa di non trovare più Andrea.

La solita guardia lo accolse dicendogli: “Te ne abbiamo liberato, vedi? Sei stato anche fin troppo paziente, con quello…”

Lui si era fermato sulla soglia, annuendo meccanicamente, ma con la mente incapace di concepire un solo pensiero che non fosse la visione di quella cuccetta vuota, il materasso arrotolato a lasciare scoperta metà della rete, il metallo della struttura. Il gelo del metallo. Il gelo dell’assenza.

Quella notte pianse, soffocando i singhiozzi nel cuscino. Pianse e avrebbe voluto urlare fino a perdere la voce. Avrebbe voluto morire. Si sentiva morire.

Per una settimana si inventò un raffreddore bestiale, per giustificare il naso rosso e gli occhi gonfi. Poi pian piano tornò alla sua routine. La biblioteca, i libri. Ogni giorno però sfogliava la monografia su Michelangelo, accarezzando piano con dita malinconiche le languide immagini dei giovani uomini appena sbozzati nei blocchi di marmo che ancora li tenevano prigionieri.

Fuori tutto era tornato normale, il ‘raffreddore’ se ne era andato e lui faceva le solite cose: i turni in biblioteca, l’appuntamento serale con un nuovo libro, le ore d’aria, quattro chiacchiere con Alessandro o con le guardie più educate. L’unica cosa, aveva cominciato a fare un po’ di ginnastica in cella, un’oretta ogni giorno, e si sentiva tornare il vigore nelle membra. Le prime volte era stato un inferno, muscoli indolenziti, fiatone. Bastavano tre esercizi e si sentiva a pezzi. Per non parlare del giorno dopo!

Ma nel giro di pochi mesi, era tornato ad essere elastico e scattante, i muscoli erano riaffiorati sotto uno strato di grasso sempre più sottile. Anche in biblioteca, sollevare uno scatolone non era più così faticoso e a lui piaceva ripulire e riordinare gli scaffali, cosa che prima cercava sempre di evitare. Gli piaceva poter lavorare ancora a contatto dei suoi amati libri e fare, allo stesso tempo, un lavoro fisico, che lasciasse un segno nel suo corpo.

Un altro cambiamento fu che cominciò ad avvicinarsi alla poesia. Si trattava di un genere che non aveva mai avvicinato, proprio non riusciva a capirlo… Poi un giorno, per puro caso, gli capitò di leggere una poesia.

Se ne stava seduto alla scrivania, stravaccato sulla sedia, leggendo una biografia di Alessandro Magno, quando dietro alle proprie spalle sentì un tonfo. Un libro mal appoggiato che doveva essere cascato a terra. Si alzò svogliatamente, ma voleva sistemare subito il libro altrimenti, già lo sapeva, se ne sarebbe dimenticato e poi chi l’avrebbe visto più? A terra non c’era nulla, perciò si inginocchiò spingendo il viso fino a terra, per vedere sotto gli scaffali. Finalmente scorse un libriccino aperto, messo tutto per storto, con le pagine spiegazzate una sull’altra. Sorrise alla piccola immagine catastrofica e poi allungò a fatica il braccio fino in fondo allo scaffale, tra rotolini di polvere di antica data. “Bisognerebbe spostare tutto e dare una bella pulita, qua sotto” si trovò a pensare.

Poi, finalmente si trovò il libro tra le mani. Era un tascabile di poesia, di Marina Cvetaeva. Il suo dito impolverato poggiava sulla pagina interna su cui il libro si era aperto nella caduta. Il titolo era Indizi:

Come spostando pietre:

geme ogni giuntura! Riconosco

l’amore dal dolore

lungo tutto il corpo

Quelle parole esplosero nel suo cervello come una bomba atomica. Come un terremoto che distrugge tutto ciò che ti circonda per come l’avevi conosciuto fino a quel momento, e poi più niente sarà uguale a prima.

Proseguì:

Come in un immenso campo aperto

alle bufere. Riconosco

l’amore dal lontano

di chi mi è vicino.”

Andrea, così vicino e così sideralmente lontano. Andrea e il muro invisibile che aveva messo tra sé e gli altri, tra sé e lui. Un muro che non permetteva neanche all’amore di raggiungerlo.

Come se mi avessero scavato

dentro fino al midollo. Riconosco

l’amore dal pianto delle vene

lungo tutto il corpo.”

Quelle parole dicevano tutto, tutto quello che neppure lui era riuscito a dire a se stesso. Quelle parole finalmente riuscivano a dare un senso al male che ogni sera, da quando Andrea se ne era andato, dormiva al suo fianco.

Bruno si trovò spaurito, con gli occhi colmi di lacrime, in ginocchio, con quel libriccino stretto al petto. Dunque era questo che lui non riusciva a spiegarsi, era questo che gli faceva così male e che allo stesso tempo dava un senso a quella vita insensata. Era l’amore, che per la prima volta, e in modo tanto inaspettato, era arrivato a bussargli al cuore. Inaspettato come quando di notte, all’improvviso, scuotendoti di terrore, arriva la polizia per arrestarti, senza preavviso, per portarti a trascorrere i tuoi prossimi vent’anni in galera.

Bruno si alzò col corpo che gli faceva male, come se l’avessero bastonato, e allo stesso tempo col cuore leggero, lieve come una farfalla, capace di volare al di là delle sbarre.

Quella sera non riuscì ad andare all’ora d’aria. Se ne rimase in cella, a leggere e rileggere quella poesia, scorrendo veloce le altre, e trovando, qua e là, come perle in un mare di ostriche, delle frasi, delle immagini, che gli riempivano il cuore quanto un intero romanzo.

La conseguenza immediata di quell’improvvisa illuminazione fu una passione smodata per la poesia. Ma una conseguenza ancora più importante e profonda fu la gioia e la disperazione lancinanti che accompagnarono la rivelazione dell’inimmaginabile: lui amava Andrea, lo amava con tutto il suo cuore, con tutta l’anima. Un’anima che sembrava essere svanita ormai da anni, morta, cancellata dal vuoto che il carcere ti scava dentro.

E Andrea l’aveva fatta rivivere, l’aveva fatta rinascere. Nell’amore. (continua)

 

di Maddalena Gregori

2 Risposte a “Cuori in gabbia – VII”

  1. È arrivata un’altra poetessa! 🙂
    Ammazza che ignorante, non la conoscevo neanche per sentito dire, e sto leggendo che era una delle più importanti poetesse russe. Ed era decisamente originale!
    Comunque, tornando ad Andrea, mi sono fatta l’idea che sia sordo. Non so, forse ho voluto leggere così alcuni indizi.

    PS: adesso ho capito perché ne L’addio mi dicevi che io e Bruno abbiamo qualcosa in comune.

    1. L’essere sordi credo sia una cosa difficile da nascondere, in un carcere.
      Su esercitati, ancora per poco, nella tua paziente frenesia.

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