La pensilina

Ruth Orkin “American girl in Italy” 1951

La pensilina è gremita di persone.

C’è un vecchio dall’aria professorale, barba e baffi ben curati, niente basette, capelli brizzolati, bagaglio minimo. Guarda continuamente il binario, prima a destra e poi a sinistra, fissando l’orizzonte lontano, come se cercasse di scorgere il treno in arrivo prima degli altri.

Ha un’aria molto dignitosa, col suo cappotto di cammello, così impettito, col fiero mento coronato dalla bella barba puntato verso l’orizzonte, quasi in punta di piedi nello sforzo di vedere il più lontano possibile.

È solo, contrariamente a quel giovanotto che pare invece accompagnato dall’intera famiglia. In realtà è soprattutto la madre, grassa e rumorosa, a riempire lo spazio intorno a lui, manipolandolo, aggiustandogli il collo della camicia, raddrizzandogli la cravatta, spolverandogli la giacca, piangendo, parlando e sistemandosi sui fianchi l’ormai troppo stretto vestito nero tutto in una volta. E ogni tanto riesce persino a rifilare uno scappellotto a un ragazzino di dodici o tredici anni, troppo cresciuto per i suoi vestiti, che continua a saltellare attorno a loro, giocando con un cagnino bastardo e spelacchiato che ha uno spago per guinzaglio. Poi c’è il nonno, in disparte, col cappello un po’ sulle ventitré e il bastone, intento a masticare un mozzicone di sigaro spento mentre fissa il marciapiede. E la nonna, accanto al marito, guarda da lontano quel nipote che parte, va lontano, e piange perché è il suo primo nipote, il suo preferito, e ora è un uomo e se ne va. Una ragazzetta, probabilmente la sorella, sta alle spalle del giovinotto guardandolo un po’ stranita. Lei non parte, non è scritto nel suo destino di partire, alla ricerca di un futuro inimmaginabile. Lo osserva, stupita del suo coraggio e, forse, in fondo (ma proprio in fondo) invidiosa. È in quell’età ingrata in cui l’ingenuità bambina è un ostacolo e non più una protezione, in cui succede di tutto e ti pare di non riuscire a tenere il passo.

Lì accanto c’è un tizio che la fissa, e lei non se ne rende neanche conto. È sgarbato, quello sguardo: privo di rispetto, si fissa su parti del corpo della ragazzina che sicuramente lei preferisce ignorare. È cafone, e dal corpo passa al viso, cerca di incontrare gli occhi, ammicca volgare. Lei non se ne accorge e rimane pura nella nudità che quegli occhi le impongono.

Ma lo sguardo del tizio viene distratto da una nuova presenza che per un attimo sconvolge l’intera pensilina come un colpo di vento furente può scompigliare repentinamente le spighe di un campo di grano. Una donna, vistosa e bella nella sua vistosità, ondeggia su alti tacchi passando davanti a tutti, indifferente come una regina e volgare come una sguattera.

La madre disapprova con lo sguardo la nuova arrivata: sono donne come quelle il vero pericolo per il suo figliolo che sta partendo. E allora si dà da fare per distrarlo con le sue chiacchiere, richiamando a sé lo sguardo del ragazzo ammaliato dalla visione, costringendolo con le mani a volgere il capo verso di lei mentre continua a infarcirlo di raccomandazioni, pianti e materne preoccupazioni.

La sorella osserva vergognosa quella donna che, sola, viaggia, che è proprio come quelle di cui tanto male si dice, e arrossisce per lei, o forse perché vorrebbe, in fondo (ma proprio in fondo) essere un po’ come lei.

Il vecchio dall’aria professorale osserva la nuova arrivata di sguincio, fingendo un interesse altrove, più in là del viso di quella. Ma gli è difficile dissimulare l’oggetto della sua curiosità, e così, per impedire ai propri occhi di sfuggire al controllo, si volge dalla parte opposta. La sua povera moglie, lassù, in cielo, disapproverebbe. Già in vita disapprovava quel genere di donne.

Il tizio volgare, invece, se ne infischia della moglie: ora lei sta a casa e lui, uomo, è cacciatore. È la sua natura. E quando una preda ti viene in bocca è stupido chiuderla per impedirle di entrare. Abbandona perciò l’agguato teso alla ingenua e improbabile vittima per dirigere la propria attenzione alla nuova arrivata.

L’approccio è facile, veloce: due parole misteriose, sussurrate all’orecchio della donna, ne illuminano il viso in un’allegra risata. Come un’eco, la baritonale risata dell’uomo va a ribadire lo squillante campanello di quella femminile. Ormai è fatta, e l’uomo si permette persino di sfiorare un braccio alla signora. Sempre sorridente, si offre per un servigio e afferra il leggero bagaglio della donna chinando leggermente il capo e sfiorando la tesa del cappello con la mano libera. Si è sicuramente offerto di accompagnarla per tutto il viaggio a ‘protezione’ da eventuali malintenzionati. La donna sorride maliziosa, scuote i luminosi riccioli, ondeggia lieve sui fragili tacchi come una vela sul mare mosso e si schermisce celando il sorriso con la mano.

La curiosità è molta: persino l’ingombrante madre del giovanotto si è zittita e, così come gli altri occupanti della pensilina, ha rivolto tutta la propria attenzione ai due protagonisti della scena, concentrandosi nel tentativo di decifrare, attraverso i lievi segni dei gesti e degli sguardi di quei due, cosa si stiano dicendo.

Ma un nuovo evento agita nuovamente la messe di teste che popola la pensilina distraendo tutti quanti dal teatrino della seduzione che la bella donna e il tizio dallo sguardo volgare stavano mettendo in scena: il treno arriva, annunciato da un fischio prolungato e lontano che ha lo scopo di allontanare i distratti dal bordo della pensilina, evitando così di travolgerli.

Le teste si levano, erette come corolle di fiori su gambi troppo fragili, puntano verso l’origine del fischio. Gli occhi strizzati contro il sole fastidioso, le labbra socchiuse nello sforzo di sollevarsi sulle punte dei piedi. “Eccolo!” mormora qualcuno… “Eccolo!” fa eco qualcun altro.

Mano a mano che il treno viene avvistato, le corolle si chinano verso i bagagli. Fagotti, ceste, valigie, cappotti ripiegati, ombrelli: ognuno riprende il controllo delle proprie masserizie e si appresta a salire sul treno. I famigliari si agitano, aiutano, abbracciano, si asciugano nuove lacrime.

Il treno arriva in stazione annunciato da nuovi fischi e dal fragore delle ruote ferrate che battono ritmicamente sulle rotaie. La folla si muove lungo la pensilina, parallelamente al treno, tenendo d’occhio le porte e cercando di indovinare a che punto finalmente il treno fermerà.

Un ultimo fischio acuto, questa volta dei freni, accompagna lo sbuffo finale del grande animale domato che finalmente si convince a lasciare salire i viaggiatori.

Le porte si aprono, un vocio confuso accompagna la febbrile agitazione dell’arrembaggio, il passaggio delle valigie, la ricerca di un posto a sedere confortevole, la sistemazione dei bagagli.

Il professore conquista un buon posto, vicino al finestrino, in direzione di marcia, e da lì osserva con un certo snobismo la folla brulicante che agita la pensilina.

Il giovanotto assediato dalla sua famiglia, che ormai aderisce al suo corpo come fosse un unico enorme organismo ansante e piangente, riesce finalmente a guadagnare una porta, sale, deposita il grosso del bagaglio e veloce ridiscende per raccogliere gli ultimi bagagli, l’ultimo abbraccio, le ultime raccomandazioni. Un buffetto all’incontenibile fratellino e una carezza alla sbigottita sorella, un bacio a nonna, una pacca da nonno, un…

All’improvviso si ode sonoro uno schiaffo: “Porco!”.

Tutti i visi si rivolgono verso l’origine dell’urlo: la bella donna, col viso arrossato dall’indignazione, si volge all’indietro ancora aggrappata al corrimano della scaletta, sospesa a metà della salita, a fissare il bel tomo che ora si tiene una mano sulla guancia colpita e la guarda con occhi sgranati. Un silenzio improvviso è calato sull’intera pensilina e l’uomo si volge verso i futuri compagni di viaggio che lo stanno fissando. Sul suo volto, lo stupore perplesso lascia immediatamente spazio a un’espressione semi-divertita, vagamente buffonesca, come chi dicesse: “Ma questa è matta! Ma che le è preso, così all’improvviso, senza motivo?” e, come a supportare l’espressione, veloce il dito indice della mano destra si sposta dalla guancia alla tempia picchiettandola velocemente. Poi, a sostenere la propria versione dei fatti, l’uomo sbraita, passando sgarbatamente il bagaglio alla signora: “Ma chi ti conosce? Chi ti ha detto niente? ’A matta!” e rapido si lancia nella prima carrozza raggiungibile.

La madre scuote la testa con aria di chi ha capito tutto fin da subito, il ragazzo freme di sdegno, la ragazzina rimane a bocca aperta chiedendosi cosa sia successo.

Il professore, invece, approfitta della situazione, offre prontamente il proprio posto alla bella signora e poi occupa il sedile di fianco, dimostrandole tutta la propria comprensione e offrendole la sicura compagnia di un distinto signore per il resto del viaggio.

In un attimo l’episodio viene dimenticato: i viaggiatori salgono sulle carrozze e si affacciano ai finestrini, salutano, sventolano fazzoletti, si asciugano gli occhi umidi col dorso delle mani e lanciano baci agli affranti parenti rimasti sulla pensilina ad aspettare che il treno finalmente parta, lasciando tutti liberi di tornare alle proprie case e alle proprie usuali occupazioni.

 

di Maddalena Gregori

11 Risposte a “La pensilina”

  1. Ho apprezzato molto i commenti. Uno scambio vivace e pieno di belle energie!

    PS
    comunque, riflessione stupida stupida dell’ultimo secondo: alcune dinamiche umane e sociali descritte nel racconto sono rimaste identiche agli anni 50. Penso, ad esempio, alla “donna, vistosa e bella nella sua vistosità, (che) ondeggia su alti tacchi passando davanti a tutti, indifferente come una regina e volgare come una sguattera” . Eccallà, sta passando proprio ora sotto casa… c’è un signore distinto e un uomo volgare che la guardano. 😉

    1. Ti amo! Hai colto in una sola scena ciò che volevo dire: nulla è cambiato, nel giudizio sociale privo di decenza sulla donna e sul suo corpo. Non a caso l’ambientazione è anni ’50 ma la storia mi venne in mente un giorno di qualche anno fa mentre aspettavo che il treno partisse.

  2. Neorealismo 🙂
    C’è un film, ma mi si cecasse n’orecchio se riesco a ricordare il titolo, dove i vari episodi, con attori differenti, avevano in comune l’ultima e la prima inquadratura 🙂
    Tu hai sbagliato mestiere :)))) La sceneggiatrice dovevi fare

    1. Beh, se proprio mi dovesse capitare di perdere il lavoro posso contare su un piano B, e farò la sceneggiatrice.
      Il film di cui parli non l’ho presente. Appena si sana l’orecchio e ti ricordi il titolo dimmelo.
      E, sì, neorealismo, non realismo. Manco le basi so!!!

    1. L’hai percepita l’atmosfera anni ’50? Ispirata da una pensilina contemporanea, ho però immaginato il tutto in un ambiente di mezzo secolo fa (o più).
      Grazie della tua attenzione

      1. se pensi che io negli anni 50 io viaggiavo fra i 15 e i 25 gli anni ’50 erano e sono come immergermi nel periodo determinante per il vivere nell’ eterno immediato, ricordi, desideri, sensazioni diventano come un DNA eterno e immutabile. Ogni puntura, ogni profumo, ogni colore inconsapevolmente registrano il DELTA di diversità in giudizio e sensazioni. Nulla sfugge… GRAZIE!PS: e non è che si facciano continui paragoni…

        1. Hai ragione, non a caso vengono detti “anni di formazione”. Si forma il futuro adulto, si creano i nuovi punti fissi che fungeranno da paletti anche negli anni futuri. Poi si continua ad aggiungere, aggiustare e limare.

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