Questione di nomi

panchina-neve

Arredo urbano. Mai sentita un’espressione più cretina.

Se dico arredo a che pensate? Ai mobili, giusto? A tutti quegli oggetti e ammennicoli che servono a rendere una casa più comoda e abitabile.

E se dico urbano a che pensate? A un ambiente, esterno, in cui trovano posto numerose case.

Dentro e fuori, in casa e fuori casa, caldo d’inverno e fresco d’estate quando sei dentro e freddo d’inverno e caldo d’estate quando sei fuori. Insomma, siamo agli antipodi.

No no, dovevano trovare un termine speciale, tutto nostro, che potesse descrivere noi panchine, lampioni, cestini per la spazzatura, piloni blocca traffico, fioriere, eccetera. Dovevano trovare un termine che rendesse giustizia a cosa significa stare fuori dalle comode e protettive mura di un edificio e sempre sempre sempre in balia del clima, sempre a rischio di venir distrutti da un qualunque idiota in vena di atti vandalici. Provate a chiedere a un divano quali sono i rischi che corre! Nessuno, ve lo dico io! Al massimo un gatto che si fa le unghie o un bambino che fa merenda e macchia il rivestimento. Sarà mica un rischio, quello!

E tuttavia, se proprio volete saperla tutta, io in una casa non ci potrei mai stare; perennemente chiusa tra quattro mura, mi sentirei in galera!

Per quanto scomodo, amo stare qui, in mezzo al parco, osservando le stagioni che si inseguono, coi loro colori, i loro profumi, le temperature insopportabili o dolcissime. Amo star qui e osservare la vita che mi gira attorno, le persone che mi passano accanto correndo o passeggiando, attente a ciò che le circonda o concentrate in una lettura, immerse in una solitudine profonda o proiettate verso l’esterno, verso il cielo, i rami, le foglie, i raggi di sole, i visi, i sorrisi.

Amo gli appuntamenti quotidiani, dopo pranzo col vecchio signore che arriva qui, col suo cagnolino, e se ne sta seduto per un po’ a leggere il giornale; o con la coppietta che da qualche mese si ritrova qui la sera, poco prima del tramonto, perché non ha una casa propria e un posto dove potersi scambiare delle carezze. Li vedo arrivare da lontano, mano nella mano, un passo dietro l’altro, mossi da un languore che li spinge a cercarsi, a stringersi, a urtarsi, come a voler aumentare la superficie di contatto dei loro corpi. Li vedo avvicinarsi e so che per un’ora il loro calore e la dolcezza dei loro sussurri mi terranno compagnia.

E non posso fare a meno di ripensare a tutte le coppie, e alle mamme coi bambini, e agli uomini d’affari, e agli adolescenti inquieti e urlanti, e agli anziani, uomini e donne, e ai barboni che in me han trovato un momento di ristoro. Non posso fare a meno di paragonare tra loro tutte queste vite e mi chiedo cosa le accomuni, cosa le renda tutte così assolutamente uguali nella loro diversità, tutte così assolutamente seducenti ai miei occhi. E il punto di contatto è uno solo: il desiderio di vita, di gioia, di amore, a volte sepolto sotto un dolore sordo e opprimente, a volte trascurato e nascosto dietro i mille impegni quotidiani, ma che è sempre presente, che preme in cerca di una risposta. Quella brama di amore che sento trasmigrare da loro a me, quasi per osmosi.

E tutta questa umanità, tutto questo fremere di cuori, a volte mi lascia così stremata che pure io, con tutto il mio affetto, anelo a un po’ di solitudine, come a Natale, quando la neve mi ricopre e per qualche settimana mi rende inutilizzabile. O come di notte, quando ho l’occasione di godere dei paesaggi più straordinari che il cielo possa offrire, tra stelle e pianeti, o della nebbia sottile che all’alba si deposita sui prati, a coprire erba e fate, o del rarissimo arcobaleno che la luna sa disegnare.

Ma niente, niente mi piace quanto le fusa di un gatto che si abbandona su di me al calore del sole di un pomeriggio d’estate. E lì, in quel ronfare appagato, finalmente anch’io trovo pace.

E non m’importa più come mi chiamate. Volete chiamarmi panchina? O preferite chiamarmi arredo urbano? Volete confondermi con quei noiosi barbogi di divani da salotto? Fate pure: io so chi sono e ne vado fiera.

 

di Maddalena Gregori

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