Un sogno è un sogno è un sogno è un sogn… (prima parte)

Corro tenendomi basso, cercando di nascondermi agli occhi dei miei inseguitori. Di tanto in tanto mi giro per capire se mi stanno raggiungendo. E poi riprendo a correre ancora più forte, senza fiato, col respiro rotto dalla paura, col cuore che batte a un ritmo frenetico.

Non so quanto potrò reggere. E infatti i passi si fanno già più lenti, le gambe pesanti. Mi sento impaniato dalla stanchezza e mi getto dietro un dosso. Ma è un riparo inadeguato alla mia paura. Lì fermo, mi metto in ascolto per capire quanto i miei inseguitori distino da me. Ma il battito del mio cuore è più forte di ogni possibile traccia sonora, nelle orecchie romba il sangue pompato ferocemente nelle vene. Non sento nulla, non sento i loro passi, le grida che si lanciano, il latrare dei cani. Il cielo cupo mi sovrasta come un presagio infausto. Il panico mi monta dentro e so che i miei muscoli irrigiditi dallo sforzo e dalla paura non potranno essermi utili: loro mi troveranno, e io non potrò né sfuggirli né difendermi dai colpi.

Poi, d’improvviso, un ringhio sordo mi pulsa nella tempia sinistra, un alito caldo mi sfiora la nuca. Mi volto di scatto. Il muso rabbioso di un mastino mi si para davanti, a pochi centimetri dal viso. Uno scatto repentino, e la sua mascella si serra con forza sul mio braccio.

Lo shock mi sveglia.

Tutto sudato, mi tiro su a sedere massaggiandomi il braccio che, nel sonno, aveva preso a formicolare. Il cuore batte forte, ancora sotto l’effetto del sogno, e così cerco di calmarmi con alcuni respiri profondi. Più o meno come mi aveva insegnato a fare il mio allenatore a fine corsa di riscaldamento: trattenere il respiro finché il battito del cuore rallenta, e poi respirare piano, e trattenere ancora, fino a quando il cuore torna a ritmi normali. In effetti funziona. Il battito a tamburo del mio cuore rallenta, si placa, si zittisce. L’atmosfera rarefatta dell’incubo lascia spazio alla pace di casa mia, della mia accogliente camera da letto.

Proseguo il mio esercizio di respirazione controllata e, mentre trattengo il respiro per l’ennesima volta, odo provenire dal piano di sotto un frenetico rovistare. Il gatto deve aver trovato qualcosa con cui giocare, magari un insetto. L’altro ieri, rientrando di sera, ho visto uno scarafaggio in cucina. Ho messo l’insetticida, ma probabilmente ci sono altri nidi.

Ora il rovistìo si è spostato in un altro lato della stanza: lo starà inseguendo. Ma, stranamente, non sento il campanellino che ho attaccato al collare del mio felino domestico e che risuona a ogni suo movimento. Forse l’ha perso.

Chiamo il micio con il verso che solitamente uso e che sempre riceve in risposta un tremulo miagolio di conferma. Niente. Riprovo un po’ più forte e il rimescolìo si ferma di botto. Silenzio assoluto. Chissà che sta facendo… Quando si comporta così, evitando di rispondermi, è sempre perché sta combinando qualche disastro e lo scopro la mattina dopo: lui sa benissimo che non deve, e allora fa lo gnorri, come i bambini.

Ma sono già troppo nervoso per via del sogno e non ho voglia di scendere per scoprire il disastro in corso d’opera, perciò decido di non badare più al gatto. Riassesto le coperte e mi volto verso il comodino, sul quale ogni sera metto un bicchiere d’acqua, nel caso mi venisse sete. L’acqua appare strana: lievi striature rosate l’attraversano. Afferro il bicchiere e solo allora scorgo, alla fioca luce ambrata dell’abat-jour, alcune gocce di sangue che scorrono sul vetro trasparente. Sangue? Ma come…?

Nello stesso momento mi rendo conto anche del rumore fioco che avanza cauto su per la scala a chiocciola che collega la mia camera col piano inferiore. Si avvicina. Lo scricchiolio dei gradini denuncia la presenza di qualcuno ben più grosso di un felino. Una mano scivola sul corrimano e segna il ritmo dell’ascesa: struscio, passo, struscio, passo, struscio, passo…

Scendo di scatto dal letto e coi piedi cerco le pantofole, ma urto contro qualcosa che rotola sul pavimento tintinnando. Abbasso lo sguardo: è il campanello del gatto e, di fianco, c’è la testa del micio immersa in una pozza di sangue. Oddio… ma chi?…

Il rumore ormai è vicinissimo. Preso dal panico mi lancio verso la libreria e afferro un pesante fermalibri, ma, nel girarmi verso la porta, mi trovo di fronte la sagoma gigantesca di un uomo vestito di scuro, il volto controluce, nella sua mano alzata brilla un coltello. Alla vista dell’arma le forze mi abbandonano e il fermalibri cade a terra. Il fragore della caduta coincide col colpo che l’uomo mi pianta in mezzo al torace.

Mi giro su me stesso cercando una via di fuga, ma un’improvvisa debolezza mi piega le gambe. Tra le scapole un dolore acuto, e poi un altro, e poi un altro ancora. Cado a terra e mi aggrappo, con le dita rese scivolose dal sangue, alle doghe del pavimento in legno. Mi trascino penosamente, via, via di lì, lontano da quei colpi, da quella sagoma oscura. Voglio fuggire, chiamare aiuto. Una boccata di sangue mi gorgoglia in gola. Scivolo piano in una voragine di paura.

Mi risveglio sollevandomi di scatto e mi rendo conto che, vinto dal sonno, mi sono lasciato scivolare addosso alla signora seduta accanto a me sull’autobus. Sono intontito e ci metto un po’ a capire dove sono. Un veloce sguardo di sguincio mi basta per cogliere l’espressione infastidita della donna, che si è addossata il più possibile al finestrino. Un paio di ragazzine appese alle barre reggi-persone mi guardano di sottecchi e ridacchiano dandosi di gomito. Borbotto le mie scuse alla signora e ripenso ai due  sogni.

Da un po’ di tempo ho spesso incubi: o fuggo inseguito da nemici senza pietà intenzionati a farmi fuori o vengo ucciso, assassinato con brutalità. Dicono che sognare di morire significa allungarsi la vita. Questo le credenze popolari. Nella psicoanalisi, invece, l’interpretazione è un po’ più complessa. Semplificando un po’, credo che sognare di morire significhi che si sta vivendo una fase di passaggio: un periodo della propria esistenza finisce e ne deve cominciare un altro. Mi riscuoto dai miei pensieri e mi accorgo che la truce signora al mio fianco (o che tale mi era apparsa) è in realtà una giovane donna straniera decisamente incinta. Me ne rendo conto perché ha emesso un gemito, costringendomi a guardarla. Si sta contorcendo sul sedile, con l’espressione del viso sofferente, mentre le due ragazzine la osservano con aria grave. Ora la donna ha la testa riversa all’indietro e, con le mani, si massaggia il ventre tondo e grottescamente prominente, in netto contrasto col suo corpo magro.

Mi rivolgo a lei sollecito: “Signora, ha bisogno di aiuto?” le chiedo. Ma lei non mi guarda nemmeno: ha scivolato in avanti il sedere, arrivando quasi a sdraiarsi sul sedile, con le gambe piegate e la fronte bagnata di sudore. E cominciano le spinte, scandite dal ritmo interno del dolore.

“Ma sta per partorire!” urlo io, più per spiegarmi cosa sta succedendo che per altro. Noto con orrore che la pancia si muove e presenta bozzi evidentissimi, come se l’essere racchiuso all’interno stesse sgomitando e dando calci in ogni direzione.

La donna è stravolta dal dolore, il sudore le scorre lungo il viso mescolandosi a lacrime silenziose, ma nonostante ciò mi appare bellissima, circonfusa da un alone di luce fatata. Mi guardo attorno e vedo che la gente nell’autobus osserva incuriosita la scena senza alcuna intenzione di intervenire. In che città assurda, vivo. Potresti crepare in mezzo al marciapiede che nessuno interverrebbe.

“Insomma!” ripeto con forza “Questa donna sta per partorire! Possibile che nessuno possa fare qualcosa? Non c’è un medico, o un infermiere, qualcuno che possa aiutarla? Autista!” grido poi rivolto all’uomo col berretto che imperterrito continua a condurre il veicolo nel traffico cittadino “Si fermi, maledizione!”,

Nessuna reazione da parte degli altri passeggeri, solo qualche diniego poco convinto quando chiedo se c’è un medico. E allora capisco che quella povera donna ha solo me. Le faccio spazio sul sedile, la faccio sdraiare, le allargo le gambe. Lei se la cava: spinge al momento giusto, fa forza quando deve e poi si rilassa, respirando a fondo. Vedo qualcosa spuntare, una testolina coperta di radi capelli chiari. Ancora una spinta ed emergono gli occhi, il naso, tutta la testina. La afferro, tiro piano ruotando appena, come ho visto fare in televisione. Ecco una spalla, l’altra, poi l’ultima spinta, e il bambino è fuori. Mi ritrovo un paio di forbici tra le mani e taglio il cordone ombelicale. Poi faccio un nodo e per stringerlo mi aiuto coi denti. Così facendo mi ritrovo col viso a pochi millimetri dal corpicino del bimbo, ne scorgo il viso e ne percepisco lo sguardo insolitamente consapevole. Uno sguardo da adulto, non certo da neonato, penso. Ma è un attimo: la madre mi strappa il bimbo dalle mani e comincia a pulirlo con un fazzolettone di cotone, e poi lo lecca là dove il sangue si è rappreso, ridendo felice. Il bimbo le accarezza il volto, asciugandole il sudore. Poi l’abbraccia cercando il seno e, man mano che succhia il latte, lo vedo crescere, farsi più grande, più forte. Quando, finalmente, smette di succhiare, ha la taglia di un bimbo di un anno e mezzo.

La madre lo accarezza, poi suona il campanello dell’autobus pr prenotare la fermata e, tenendo suo figlio per mano, scende e si allontana lungo una strada grigia della periferia di questa grigia città. Solo una volta il bambino si gira guardandomi negli occhi. È uno sguardo strano: non di gratitudine, come mi potrei aspettare, ma nemmeno di semplice curiosità. Dietro quello sguardo leggo un velato rimprovero: “Perché te ne stai lì?” sembra dirmi “Perché non sai deciderti a mollare tutto e a cambiare, seguendo lei?” È troppo! Ci manca solo l’interpretazione in diretta del sogno! E così mi sveglio.

Per un bel po’ annaspo nel buio con la mano, senza capacitarmi del fatto che non riesco a trovare la peretta dell’abat-jour. Poi, [continua…]

 

di Maddalena Gregori

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