Il vento nel cuore – III

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Vincent Van Gogh – Dopo la tempesta – 1884

(Continua) Improvvisamente lei si rese conto di aver perso un amico, forse l’unico amico che avesse mai avuto dal momento in cui aveva messo piede nella tenuta di suo marito. E, a ben pensarci, forse l’unico vero amico che avesse mai avuto in tutta la sua vita.

Come poteva infatti considerare amiche le persone che l’avevano circondata durante la sua breve vita? Chi poteva definire amico?

Coi suoi parenti, prossimi e non, il rapporto era necessario, non scelto. Fratelli e sorelle erano o troppo vecchi o troppo giovani per lei, i numerosi cugini erano presenze casuali, frequentate in modo troppo saltuario per poter stabilire un rapporto che fosse anche solo poco più che di simpatia. E poi, comunque, anche loro vivevano serrati nelle pastoie di un’infanzia dorata e contratta, condizionata da un moralismo beghino e da un’ottusità coltivata. Quanto agli adulti, cosa poteva aspettarsi da loro, fautori e massimi sostenitori di quello stato di cose?

Durante la sua infanzia gli unici veri amici che aveva avuto erano gli animali domestici che, in varie occasioni, le erano stati donati: Goliath, il suo minuscolo e candido cagnolino di razza volpina, così piccolo che aveva voluto dargli almeno il nome di un gigante, e poi i numerosi gattini semi-selvatici che abitavano gli immensi giardini della sua casa, che giocavano, rubavano per sopravvivere, prolificavano, e che i giardinieri un po’ cercavano di eliminare, un po’ mantenevano, per eliminare la piaga dei ratti. E poi il suo pony Fetonte, dono della madrina per il giorno della prima santa comunione. Era un cavallino docilissimo, dal bel manto fulvo, con una folta coda e una lunga criniera entrambe bionde. Lo montava raramente, perché aveva paura; si limitava a cavalcarlo nel cortile antistante alle stalle, mentre uno stalliere teneva le briglie per mantenerne contenuta l’andatura. Se proprio doveva correre, preferiva farlo con le sue gambe, anche se ciò era considerato estremamente disdicevole per una fanciulla del suo rango. Comunque, passava interi pomeriggi in compagnia di Fetonte e di Goliath, e intere giornate le trascorreva con i gatti, in lunghi, pazienti appostamenti durante i quali un’intera ora di ammicchi le consentiva di avvicinarsi a quegli scostanti animali di soli pochi centimetri.

Spesso le capitava, percorrendo i sentieri del giardino, di scorgere uno dei gatti sdraiato su un muricciolo, o su una delle panche in muratura rivestite di ceramiche multicolori che punteggiavano i vialetti, beatamente immerso in un bagno di sole. Allora si accostava il più silenziosamente possibile, ma immancabilmente il felino si accorgeva della sua presenza e apriva gli occhi. Talvolta la reazione era immediata, e il gatto schizzava via, rifuggendo ogni contatto. Questo accadeva soprattutto coi soggetti giovani o particolarmente timidi. Altre volte, invece, il gatto apriva gli occhi e si limitava a tenerla sotto controllo fino a quando non avesse violato i precisi e invisibili limiti che lui poneva. Allora lei si accoccolava o si sedeva per terra cercando di distrarre e di ammansire l’animale con dolci paroline e chiamandolo con il verso che si usa per i gatti. Ogni tanto si spostava un po’ (solo un pochino), avvicinandosi cautamente di pochi centimetri al gatto, tenendone d’occhio la reazione. Sempre, l’animale riapriva gli occhi socchiusi e controllava che il suo avvicinarsi si mantenesse nei limiti della buona creanza felina. Questi avvicinamenti occupavano interi pomeriggi, ma per arrivare a poter sfiorare dolcemente l’elettrico mantello di uno di quei solitari animali doveva consumare numerosi pomeriggi a far loro la corte, guadagnandosi poco a poco la loro fiducia in un rituale degno della dama più capricciosa.

La conquista più dura, ma anche più soddisfacente, fu quella che la portò all’amicizia con una gatta per niente bella, ma alla quale fu legata da sincero amore. Si trattava di una gatta perennemente incinta, dal cranio piccolo e  abitato da due enormi occhi gialli. Il suo corpo era ricoperto da un pelo dritto e ispido, dal colore indefinito: nel suo mantello si potevano scorgere peli rossi, neri, marroni e beige, distribuiti casualmente e senza alcun nesso. Questa mescolanza di colori non definiva alcun disegno nel manto, ma si presentava invece come un caotico e casuale accostamento cromatico, talmente inusuale dal far pensare che l’animale fosse colpito da una malattia della pelle. Tuttavia, nonostante l’aspetto inquietante e poco attraente, la gatta aveva un carattere timido e dolcissimo.

Macchia, questo il nome che le aveva dato in onore del suo particolare mantello, era estremamente schiva ed evitava il contatto con qualunque essere umano. Nel corso di un’estate, era riuscita a conquistarne la fiducia ed era arrivata persino a prenderla in braccio. Si trattava di amplessi estremamente brevi e contrastati, in cui la bestiola si abbandonava a fusa rumorosissime ma, allo stesso tempo, si divincolava e si teneva discosta con le zampette tese e puntate contro il suo petto. Altre volte la micia le si strusciava contro le gambe ma, non appena lei cercava di toccarla, sgusciava via come presa da un improvviso moto di timidezza.

Poi un giorno una dama di compagnia di sua madre l’aveva sorpresa con Macchia tra le braccia e, spaventata dall’aspetto apparentemente malato dell’animale, aveva denunciato la cosa ai genitori. Le venne rigorosamente vietato di avere a che fare con la gatta e con tutti i gatti del giardino in generale e, affinché obbedisse all’ordine, venne tenuta sotto stretto controllo per un lungo periodo di tempo.

Ma Macchia non la dimenticò e, abbandonando gli angoli più nascosti e sicuri del giardino, cominciò a gironzolare intorno alla casa. Talvolta le capitava di scorgere dalla sua finestra la gatta che avanzava cauta nel cortile, rasente ai muri. Allora la chiamava per nome o facendo il verso dei gatti e allora la micia alzava il suo dolcissimo muso verso di lei socchiudendo gli enormi occhi gialli. E lei sapeva che Macchia le stava facendo le fusa, da lontano, sazia di questo amore platonico.

Poi venne l’inverno e la gatta cominciò a farsi vedere sempre di meno, finché venne il giorno in cui sparì definitivamente. Ma l’estate dopo il giardino fu invaso da giovani felini dal mantello strano, a chiazze irregolari e policrome: erano le figlie di Macchia. E, fino al momento in cui abbandonò la sua casa paterna, le gatte del loro giardino ebbero tutte quello strano mantello, quei grandi occhi gialli e un carattere schivo e accorto che consentiva loro di evitare le trappole dei giardinieri che cercavano di sopprimerle.

Ai suoi occhi, questa fu una sorta di piccola vendetta di Macchia, una vera e propria Nemesi: rifiutata per il suo aspetto sgradevole, la dolce Macchia aveva saputo imporre la propria presenza nel modo più semplice, clonandosi all’infinito attraverso le proprie selvatiche e dolcissime figlie. Tant’è vero che, nel giro di pochi anni, in città nacque un nuovo modo di dire: per definire un gatto all’apparenza sgraziato e dal carattere particolarmente schivo, si diceva che era di razza X, indicando il nome della casata della sua famiglia.

Ora che è adulta riconosce in quella gatta una forza superiore che vorrebbe possedere anche lei: la capacità di imporre se stessa senza urli e senza strepiti, semplicemente attraverso la forza del proprio essere. Invece da troppo si porta dentro un rancore profondo e sente che, nel momento in cui dovesse dare sfogo a questa tensione, non potrebbe farlo che in modo violento e solo il sangue potrebbe spegnere la furia segreta che cova nel suo intimo. Non riesce a immaginare una soluzione incruenta, razionale, serena. Come si può guardare il vuoto che abbiamo dietro e abbattere il muro che abbiamo davanti mantenendo il sorriso?

È da qualche tempo che si sente tesa e spaventata: non aveva mai conosciuto la sua rabbia e ora la potenza di questo sentimento le fa paura. Teme il momento in cui non riuscirà più a controllarla e sente che quel giorno si fa sempre più vicino. Se ne accorge da piccoli gesti, da improvvisi scatti e soprattutto dalle reazioni di chi le sta attorno.

Sempre più spesso le capita di percepire, nello sguardo delle serve, lo stupore causato da certe sue risposte e sempre più spesso le capita di sentire uno strano fuoco nel proprio sguardo. Una sorta di segnale inconsapevole della tensione che la tormenta.

Ed è anche un po’ per sfuggire a questa tensione che, nonostante il divieto del consorte, ha ripreso le sue passeggiate nei dintorni delle stalle. All’inizio era titubante: sapere che il suo amico non era più lì a proteggerla la spaventava e la intimidiva. Ma poi, la presenza dei cavalli e degli altri animali ha cominciato a darle una serenità tale da rendere la sua passeggiata giornaliera un appuntamento irrinunciabile, l’occasione per riconquistare un po’ di equilibrio. Un equilibrio, purtroppo, instabile e precario e che tende velocemente a scemare non appena rimette piede nella cupa casa del marito.

Pian piano, complice la bella stagione, ha da qualche tempo preso a trascorrere sempre più tempo fuori casa. All’inizio si portava il ricamo, accampando, come scusa, il fatto che la luce naturale le rende più facile il lavoro. Poi, un giorno aveva scoperto una vecchia scatola di colori tra le sue cose di ragazza e così ha ripreso a dipingere. Manco a dirlo, il paesaggio è il suo genere preferito ed è arrivata a produrre una media di tre quadri a settimana. Tant’è che suo marito scherzando un giorno ha detto che i suoi capolavori stavano invadendo la casa e che, andando avanti così, avrebbe presto esaurito le tele disponibili sul mercato dell’intero Paese. Lei, sospettando che questo potesse essere il segnale di un possibile futuro ordine di astenersi dalla sua attività pittorica e temendo di perdere anche questa fettina di libertà così faticosamente riconquistata, ha cominciato a dipingere nuovi paesaggi su quelli vecchi. Sarebbe stata una sorta di Penelope, che dipinge e ridipinge continuamente sulle stesse tele, producendo un numero infinito di paesaggi sovrapposti gli uni agli altri, e in questo modo si sarebbe mimetizzata nelle pieghe del tempo che in questo luogo trascorre sempre uguale a se stesso.

La mattina si alza, si infila un abito di cotone, un cappellino di paglia a falde larghe e, con la cassetta dei colori sotto un braccio e il cavalletto e lo sgabello sotto l’altro, si avvia alla ricerca di un pezzetto di luce e di aria tutto per sé. Ha anche scoperto un angolo di sogno, completamente isolato, dove pochi alberi garantiscono l’ombra sufficiente a evitare l’insolazione, consentendole di protrarre il più a lungo possibile le sue sedute fuori casa. L’unico neo è un pastore che, quasi ogni giorno, conduce lì uno scarno gregge di capre. All’inizio lei ha temuto che quella presenza potesse rovinare la perfezione delle sue solitudini e così, per neutralizzarla, un giorno decide di trasformare il pastore in una parte del suo paesaggio.

Usa tutti i suoi bruni, dall’ocra rossa alla terra umbra fino al carminio bruciato, per dare corpo ai laceri stracci che lo ricoprono, ai capelli arruffati e corvini, alla bisaccia impolverata in cui conserva pochi averi. Poi i colori più chiari, i beige, i bianchi sporchi, uniti ai marroni dai riflessi neri per i mantelli delle magre caprette. Alla fine, abbastanza soddisfatta del suo lavoro, si alza in piedi per rimirare il quadro a distanza, ma all’improvviso viene invasa da una vertigine che le fa perdere i sensi. Quando si riprende, si ritrova distesa sul prato, un lieve zefiro le accarezza il viso, la rugiada la rinfresca. Apre gli occhi e si rende conto che lì accanto a lei c’è il pastore, accorso non appena l’ha vista cadere, che la sventola col cappellino di paglia e le spruzza sul viso un po’ d’acqua tratta da un otre per farla riprendere. “Oh, mio Dio!” esclama lei, e queste sue parole sembrano terrorizzare il pastore che si alza di scatto, si inchina e torna correndo al suo gregge.

Questo improvviso e fulmineo contatto ravvicinato le consente di rendersi conto che, quello che per giorni aveva considerato un vecchio, è in realtà un giovane, poco più che un ragazzo. Non si sbagliava però sugli stracci che lo vestono e sullo stato inselvatichito del suo aspetto.

Si alza a sedere e si infila il cappello. Accanto a lei c’è l’otre di pelle che il pastore ha evidentemente lasciato cadere nella foga. Una sete tremenda le brucia la gola, perciò dà alcune grasse sorsate e poi, con cautela, si alza. Non appena si sente sicura sulle proprie gambe, si avvia verso il pastore per restituirgli l’otre e per ringraziarlo dell’aiuto. Nel vederla avvicinarsi, il ragazzo scatta in piedi abbassando lo sguardo.

“Volevo ringraziarti.” esordisce lei “Grazie al cielo eri qui vicino, altrimenti chissà quanto tempo sarei rimasta sotto il sole, col rischio di prendermi una bella insolazione.”

Per tutta risposta il ragazzo alza lo sguardo e le sorride: un sorriso aperto, di sollievo. Ha occhi scuri e accesi, sottolineati da folte e lunghe ciglia nere.

Quasi senza rendersene conto, lei si trova a considerare il fatto che sono occhi molto belli e arrossisce. “Grazie ancora” conclude, e, con un lieve sorriso, se ne va.

Mentre torna a casa a passo spedito, il cuore le batte forte ritmando la camminata veloce, e una strana euforia la sostiene lungo i tortuosi e difficili sentieri della campagna. Più tardi, durante la notte, il pensiero di quello sguardo torna a farle compagnia.

La mattina dopo, al risveglio, un leggero senso di colpa la pervade e riemerge più e più volte nel corso della mattinata, fino a quando anche il più lieve ricordo dei sogni di quella notte non svanisce. Non sa dare un nome a quella ansia che sente agitarsi dentro, sa solo che le mura di casa le sembrano sempre più strette e che non vede l’ora di uscire, di passeggiare, di immergersi nella natura,… di rivederlo. E così esce e va a cercarlo.

Ogni volta si dice che è per tenerezza, perché quel ragazzo, nonostante il basso ceto a cui appartiene, ha dimostrato di possedere una spiccata e naturale educazione. O sensibilità, si potrebbe persino dire.

Ma col trascorrere dei giorni, il suo interesse si trasforma pian piano in ossessione: senza che lei se ne renda conto, quello sguardo comincia ad accompagnarla nei momenti più improbabili della giornata e ogni volta lei arriva al momento della passeggiata con un pizzico di frenesia in più. Ogni volta si mente, dicendosi che ora basta, che ora deve trovare altri luoghi dove posare il cavalletto, ma, per un motivo o per l’altro, le sue peregrinazioni apparentemente casuali approdano sempre sul bordo di quella radura.

Gradualmente la sua confidenza col giovane pastore si trasforma in un rapporto a cui non sa più rinunciare e le rare volte che il suo sguardo incrocia quello del ragazzo uno strano imbarazzo si impossessa di lei, costringendola talvolta persino a raccogliere frettolosamente le sue carabattole e a tornarsene a casa.

Tuttavia a passi piccoli, quasi impercettibili, lui ha cominciato a invadere il suo mondo e da semplice elemento del paesaggio è divenuto il suo modello e lei arriva a chiedergli espressamente di posare: ogni giorno ricopre una tela con un suo ritratto, e ogni sera gratta via il colore ancora fresco per poterlo di nuovo, il giorno dopo, ritrarre. Quel profilo asciutto, quello sguardo limpido come acqua di ruscello, la curva del collo e della nuca, il braccio bronzeo la cui pelle fa capolino tra gli strappi che tempo e fatiche hanno fatto nella camicia, le mani scure, grandi, capaci di infondere sicurezza.

Ogni giorno lei si fa più audace, e il pennello si fa mano che accarezza la coscia, la guancia, le spalledel pastore. E il pennello si fa bocca e vorrebbe baciare quel corpo, perché questa finzione le fa male, le fa dolere le dita e il ventre. E ogni notte il tormento si ripete, la accompagna nelle ore insonni che trascorre al buio, gli occhi al soffitto a inseguire le immagini di un suo romanzo personale, la ossessiona nei sogni in cui la sua mente si concede, ormai libera da vincoli, anche ciò che la sua educazione le vieta.(continua)

 

 

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